Red Rocket di Sean Baker

con Simon Rex, Bree Elrod, Suzanna Son, Brenda Deiss

In principio era solo film, poi un dittico, e alla fine, con l’uscita nelle sale di Red Rocket, il regista statunitense Sean Baker ha saputo comporre un trittico sincero, onesto sull’America ignorata, lasciata al buio dalla luce accecante di Hollywood. Dopo aver scandagliato le periferie di Los Angeles con Tangerine e quelle della costa orientale di Orlando con Un sogno chiamato Florida, con Red Rocket il regista classe 1971 giunge nei territori aridi e anonimi del Texas per ampliare la propria galleria di personaggi elevati a rappresentanti di voci inascoltate, sguardi ignorati, esistenze poste ai margini della società e per questo poco consoni agli obiettivi patinati delle cineprese hollywoodiane.
Come uno sport eseguito a livello agonistico per anni, anche il mondo del porno ha una sua scadenza, e per Mikey Saber (S. Rex) il capolinea arriva dopo 17 anni. Lasciandosi alle spalle le palme di Los Angeles, le onde alte e il clima mite della città dei sogni ora addormentatasi in incubi, l’uomo torna là dove tutto è iniziato, a Texas City, a casa di un’ex-moglie, Lexi (B. Elrod), che non ama più e accolto freddamente da un quartiere che si è dimenticato di lui. A bordo di una bicicletta, Mikey gira per la città alla ricerca di un lavoro e allo stesso tempo ispeziona il tempo che è passato, i suoi lasciti tra le vie di un ambiente lasciato alle spalle e sui volti di uomini e donne investiti da incuranza o rimorso represso per l’uomo. È nel corso di questa Odissea personale che Mikey incappa in un negozio di ciambelle dove incontra Fragola (S. Son), una diciassettenne molto carina e molto disinibita, la perfetta vittima virginale e sacrificale sull’altare del porno.

Gli Stati Uniti visti attraverso le lenti cinematografiche di Sean Baker sono un mondo da esplorare a bordo di biciclette sgangherate o lanciandosi in corse a perdifiato, mettendo a nudo tanto la propria fisicità quanto un mondo intimo che viene custodito e tenuto nascosto ad occhi indiscreti. Lo spettatore si eleva pertanto a testimone privilegiato di un pellegrinaggio senza meta, un vagare indeterminato grazie al quale, ancorandosi al corpo di Mikey, viene a conoscenza di realtà lasciate in disparte, e relegate al fuori campo dell’ipocrisia borghese. In un paese come il Texas, dove l’unica alternativa alla sopravvivenza è andarsene, ci sono uomini come Mikey che ritornano, mettendo a segno il proprio insuccesso. Baker costruisce universi tanto respingenti, quanto irresistibili, di cui i propri abitanti si fanno perfetti doppi umani. Una genesi filmica portata a termine senza il bisogno di indugiare mai troppo su una sequenza o un dettaglio, ma compiendo tagli di montaggio drastici – eseguiti dallo stesso Baker, che oltre a regista si fa anche montatore, produttore e sceneggiatore insieme al sodale Chris Berdoch – attraverso cui disorientare il proprio spettatore in un universo che ha già perduto se stesso.
 

Baker costruisce universi tanto respingenti, quanto irresistibili, di cui i propri abitanti si fanno perfetti doppi umani


Ma è soprattutto sfruttando la potenza di quella che è divenuta negli anni una propria marca autoriale, come la ripresa dal basso, che Baker apre un portale sull’interiorità dei propri personaggi, comunicando e traducendo visivamente la carica empatica di shock emotivi e incontri spiazzanti che colpiscono e tramortiscono i protagonisti come uno tsunami improvviso. Uno stupore non previsto, questo, esacerbato anche da zoom in avanti carichi di dinamicità, volti a tradurre visivamente l’attrazione e l’avvicinamento del protagonista verso mondi e persone a lui inediti, misteriosi e per questo da conquistare. Un’appropriazione indebita di esistenze e sentimenti altrui compiute sulla scia di una forza egocentrica che tutto attrae, respinge e recupera, per manipolare, raggirare, sfruttare senza successo.

Burattinaio che tenta di giostrare esistenze senza fili da manovrare, Mikey instaura rapporti per fini puramente personali, una condivisione di emozioni e sentimenti bloccata in potenza dalla forza dell’ambizione, e così anche l’incontro con la giovane Fragola si tramuta in ponte di (ri)lancio verso una carriera messa in sospeso come quella del porno. Tra gli spazi di quell’iride azzurra, e nel volto puntellato di lentiggini, Mikey si illude di vivere una nuova giovinezza e un ritorno al passato che non è più possibile vivere, se non nelle (ri)cadute verso il basso. Basso come le inquadrature che puntellano la regia di Baker, di sguardi provenienti da un mondo sotterraneo, basso come il sostrato linguistico che riempie lo spazio di azione e le distanze dei protagonisti. Se è il linguaggio l’elemento che costruisce un senso di comunità, quello di Red Rocket, nella volgarità che lo caratterizza, è una lingua copiata e incollata dal mondo reale, la sua perfetta controparte cinematografica, registrata e riportata filologicamente per incrementare quel senso di (neo)realismo che contraddistingue il film di Sean Baker.

Sospeso nell’attimo di un primissimo piano, con Fragola tutto nel piccolo mondo del protagonista si tinge adesso di toni caldi, gli stessi che colorano gli abbigliamenti e i tratti fisici della ragazza. Re Mida di sogni e ambizioni di stampo adolescenziale, Fragola in Red Rocket si eleva a perfetta incarnazione dell’American Dream ancorato alla realtà dell’omonima vita cittadina. Un braccio di ferro tra gioventù bruciata e idillio che anche la scenografia di Stephinik Youth esalta colorando di toni pastello gli ambienti attraversati dalla ragazza, in particolar modo la sua cameretta: rosa, come le stanze delle bambine che sognano di diventare principesse, la Youth crea un piccolo mondo fatato, ordinato e fiabesco, ora intaccato dalla lussuria e dall’attrazione fisica. Influenzata dalla forza ammaliante di Mikey, Fragola sogna adesso di diventare la regina del porno. E lo fa mentre canta nuda, nel suo piccolo regno rosato, quel Bye Bye Bye che aveva accompagnato il ritorno a casa di Mikey a inizio film.

Alla tastiera Fragola emoziona tanto lo spettatore quanto un Mikey pronto a mostrarsi qualcosa che non è – lo dimostra la corsa sulle montagne russe durante la quale l’uomo si sente male, confermando il suo non essere più un adolescente senza paura. In quella camera si ripete pertanto un contrasto cromatico che stride ed esacerba lo scarto visivo che co-esiste e lega un esterno abbagliante, colorato, illuminato da un sole che batte diretto su un’interiorità nebulosa come quella di Mikey e dei suoi concittadini. Una dicotomia tra luci texane così crude nel loro essere accecanti e sfumature pop dell’urbanistica del Southwest che il direttore della fotografia Drew Daniels ha saputo sfruttare per esprimere simbolicamente la lotta intrinseca tra l’uomo e un ambiente circostante alienato e alienante. Un micro-universo mai riconoscibile e orfano di edifici o elementi architettonici che possano orientare uno spettatore che si perde nell’ampio spazio desertico e anonimo della periferia texana.
 

Sono uomini inconcludenti, quelli che abitano l’universo di Red Rocket, sospinti dalla forza della parola e bloccati dalla paura dell’azione


Quello registrato dalla cinepresa di Baker è un lembo di terra a stelle e strisce, quella più opportunista e volgare. Un grembo materno intaccato dal trash, dalle urla di Trump, dai reality show televisivi e da un gusto pop che aliena e rende identici, nelle scelte e nelle preferenze, tutto gli uomini – e non è un caso se a fare da tema musicale sia proprio un tormentone come Bye Bye Bye degli NSYNC – dentro il quale alimentare, far crescere e poi nascere figli identici e abbandonati, portavoce perfetti dell’underclass americana. Sono uomini inconcludenti, quelli che abitano l’universo di Red Rocket, sospinti dalla forza della parola e bloccati dalla paura dell’azione, come il Mikey di Simon Rex. Grazie soprattutto alla performance dell’attore di San Francisco, su cui Baker crea, cuce e rende umano il proprio protagonista, prende vita un personaggio che esce dagli schemi e dagli schermi. Un personaggio borderline, piacione, tontolone, ingenuo, che si fa reale fino a raccogliere nei suoi vizi e (poche) virtù, demoni e illusioni di mille altri americani, giovani e vecchi Peter Pan alla ricerca della propria Neverland nascosta e mai trovata all’ombra dell’America più conosciuta, amata, visitata, sognata.

 

«Dove sei stato?»
«In un bel posto di nome ‘non sono cazzi tuoi’. È in Texas»
«Spero che ti sia divertito»
USA 2021 - Comm. Dramm. 128’ ★★★★


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