Razza d'acciaio ebbra di spazio
Il Raid Pechino-Parigi: la ribalta dell'automobile
«Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C’è qualcuno che accetti, nell’estate prossima, di andare da Parigi a Pechino in automobile?».
A queste righe taglienti, un’affilata risposta è dovere. Gli occhi brillanti di un luccichio di coltelli, nobiltà di sangue e di denaro risponde da tutta Europa alla sfida del parigino Le Matin. Albert De Dion, marchese di Nantes e impavido capitano d’industria, ardisce di schierare le sue eleganti creazioni, ma propone e ottiene d’invertire la rotta del cimento, ché all’arrivo si eviti la stagione delle piogge. Dall’altra parte delle Alpi il principe Scipione Borghese mette mano al telegrafo e picchietta lapidario alla redazione del giornale: «Mi iscrivo alla vostra prova con un’automobile Itala». Forgiato per l’impresa e l’avventura, il principe già stende la vittoriosa strategia dell’epica tenzone. «Vi sarei molto grato se voleste darmi altri particolari appena ciò sarà possibile, di modo che io possa prendere le opportune decisioni organizzative».
Un telegramma Borghese pure trilla negli uffici dell’azienda torinese: una macchina cucita su misura come un abito per il principe scarno di paura. Tracciano il modello gli stilisti del metallo, tagliano la stoffa i sarti dell’acciaio; imbrigliano di tubi il motore eruttante, di bottoni pistonati l’ampio petto scalpitante: esce dal forno dalle fauci accese il formidabile mostro giapponese, gli occhi di fucina, nutrito di fiamma e di benzina.
Ottenuta dall’Itala l’incredibile tonnellata e mezzo di modernità, versati a Le Matin i 2000 franchi della quota d’iscrizione, Borghese medita e progetta. Il percorso non ha tappe, ma non c’è scelta: da Pechino s’attraversano steppe e steppe a migliaia di chilometri, dove il passo è del mulo, la schiena è del cammello. Non c’è strada che trascenda l’orizzonte nelle steppe siberiane dello Zar; nulla attende l’equipaggio che vi si avventuri, se non il tempo sempre uguale e l’ignoto spazio vuoto di ogni civiltà. Là dove il buio domina sulla Terra come nella notte dei tempi, dove la foresta è vergine e il vento non incontra cemento, dove l’uomo vive ancora del nomade istinto primordiale, là Borghese stende la sua strada, magnifica sorte e progressiva. Pure contando sui serbatoi aggiuntivi, l’Itala ha un’autonomia massima di 1000 chilometri: ogni 700 il principe stabilisce depositi di carburante, vettovaglie, pezzi di ricambio ordinati a centinaia e centinaia. Nelle ore piccole Borghese si consuma, smussandosi le pupille sulle carte dell’esercito russo, sui tracciati della Transiberiana, dove corrono le serpi che fumano, le muscolose locomotive vomitanti scintille, simili a ginnasti giganti che scavalcano gli emisferi.
Parte per Pechino un Borghese trasognato, al divorarsi degli spazi consacrato dal tempo dell’oggi assoluto, dal carattere pragmatico ridotto al tiranno, al minuto. Ma non da solo è sacerdote del veemente Dio delle quattro ruote: ecco gli accoliti, Ettore Guizzardi demiurgo del motore, augure dei traguardi, meccanico vate delle vite meccanizzate e Luigi Barzini, inviato speciale del Corriere milanese, l’inchiostro più veloce, men mortale di Fidippide ateniese.
Ma troppo duro è il terreno, troppa la distanza da coprire soli con sé stessi e il progresso come unica fede; ad uno ad uno gli equipaggi iscritti si ritirano sconfitti nell’idea prima ancor che nell’azione. L’orgoglio ferito in potenza dalla vista d’una sola macchina italiana a scattare dal via, i francesi rodono e rimestano. Riattizzano l’ardore soffiando gli uragani di fiamme della propaganda, mantice meccanico degli altiforni dove si rifonde il pensiero, negli stampi dei cannoni, nelle ogive dei proiettili. Marsiglia d’aprile vede partire due piccole dieci cavalli del marchese di Nantes, un Contal su tre ruote a motore, infine una Spijker dalla terra dei Nassau. Ecco il passo della lince pneumatica, l’ampia falcata del purosangue d’Arabia che schiuma dai fianchi, la curva del falco che fulmina la preda in picchiata; creature serpigne e leggere, meteore guizzanti di San Lorenzo, in lotta con la belva d’Italia, che sprigiona urlante potenza, che schiaccia la terra sotto un peso di valanga d’acciaio. Il 10 d’Agosto Pechino saluta il futuro che fuma e che romba per le sue strade, polverose del pregiudizio immortale, prigioniere del terrore del nuovo, dell’ecpirosi ineludibile, unica igiene alla fine del tempo.
Corre l’automobile, corre veloce nel deserto squarciato, domani precoce, anticipato. Corre rapita, bestia di dinamica bellezza, spumante vortici d’ebbrezza; ha sul cofano serpenti tubolari che divorano orizzonti siderali. Corre il proiettile in canna, piove lungisaettante come manna, corre l’Itala sulla mitraglia, del tempo e del mondo scuce ogni maglia. Corre l’uomo che tiene il volante, libero infine del fardello d’Atlante: tiene il mondo sulla punta d’un dito, che gira, gira impazzito.
Veemente dio d’una razza d’acciaio, automobile ebbra di spazio, l’Itala scalpita, freme d’angoscia, rode il morso coi suoi striduli denti. Borghese e Guizzardi si danno il cambio al volante, grande e duro come il timone d’un transatlantico che solchi le terre emerse; Barzini siede sul retro e scrive le steppe disabitate, scrive le montagne azzurre, che scompaiono nelle nebbie turchesi del nord; scrive la lunga lama della Transiberiana che incide la Terra sanguinante; scrive i cieli primitivi, le foreste non toccate dal progresso furioso, che scalpita nell’aria come il cavallo indomato. Quando è possibile, Barzini telegrafa a Milano e New York: il mondo rimane col fiato sospeso, in attesa di gridare la gioia della vittoria. Non c’è difficoltà che l’Itala non inganni e sorpassi: il fango non tradisce le ruote, la polvere non divora il motore, lo spazio non consuma lo spirito. Vince la strategia Borghese, e dove la mala sorte infierisce, tende la mano l’ingegno dell’uomo. Un guado impossibile e i parafanghi si fanno assi di ponte; un incidente gravoso e un falegname siberiano guarisce la ruota, come un medico rifoggia un osso rotto; Guizzardi raddrizza ogni torto, Barzini è instancabile, Borghese invincibile.
Sparisce San Pietroburgo nel fumo frizzante e Parigi l’Itala accoglie adorante; ecco i plausi e gli inchini di ricchi e potenti al moderno Mercurio che smaglia i continenti, ecco le folle dal piacere agitate, spinte dalle notizie telegrafate, ecco infine la sfida strappata all’impossibile e rivendicata, l’automobile indistruttibile, come l’uomo che l’ha creata. Volano i sugheri nel cielo di Francia, vola in elettrico la nuova speranza: infinito progresso, ci è stato concesso?
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