Raccontare una nuova Europa
Come si può parlare di Europa in un'epoca di antieuropeismo? Rispondono Alexander Damiano Ricci e Giulio Saputo
Cosa significa raccontare un’altra Europa? Forse, semplicemente, raccontare un’Europa vicina a noi nel tempo? Oppure è qualcosa di più radicale, fondato sulla consapevolezza del cambiamento avvenuto nella stessa struttura su cui è stata basata la narrazione dell’Europa fino ad oggi e che richiede, di conseguenza, un cambio di prospettiva? Ce lo siamo chiesti all’ultima edizione del festival Firenze RiVista, nel settembre scorso, insieme ad Alexander Damiano Ricci, presidente della Babel International, editrice della rivista europea Cafébabel, e a Giulio Saputo, segretario nazionale uscente della Gioventù Federalista Europea, nell’incontro Raccontare una nuova Europa.
In questi tempi di estremo antieuropeismo, come si può raccontare un’Europa differente?
Alexander Damiano Ricci: Raccontare l’Europa è un tema vastissimo che chiama in causa anche una discussione sul giornalismo contemporaneo. Oggi scrivere di Europa sui giornali significa sostanzialmente parlare di Bruxelles. Ma è inutile illudersi che tutti i giovani (con questo intendo chiunque, dai sedici fino ai trenta e ai quaranta anni) sappiano cosa e perfino dove sia Bruxelles. Figuriamoci pensare di affezionarsi alla narrazione invalsa fino a oggi. Ora, se nella narrazione dell’Europa fatta negli ultimi due o tre decenni è mancato un aspetto è quello del life-style o stile di vita europeo, che è sempre stato banalizzato ma che credo sia fondamentale recuperare anche nell’ottica di un ravvivamento della dimensione politica. Oggi l’Europa sta attraversando un periodo di forte crisi ed è proprio per salvare l’Europa e rinnovarne la narrazione che penso si debba parlare anzitutto delle condizioni di vita delle generazioni che questa Europa la stanno vivendo. Penso, cioè, che raccontare un’Europa nuova, significhi raccontare una storia di generazioni, quelle nate dagli anni ’80 in poi nei diversi paesi europei, e approfondire soprattutto ciò che le tiene insieme da un punto di vista culturale, di stile di vita. Ovviamente questo significa mettere in secondo piano l’aspetto politico. Non che la politica non sia interessante: è fondamentale. Ma tante problematiche che possiamo pensare siano soltanto nazionali, in realtà sono condivise, anche se nessuno lo dice. È qui, allora, che possiamo raccontare in maniera nuova l’Europa: nella dimensione di tematiche a cavallo fra stile di vita e politica che, collegando le problematiche locali, permetta alla narrazione europea di realizzarsi anche sul piano politico e sociale.
Penso che raccontare un’Europa nuova significhi raccontare una storia di generazioni, quelle nate dagli anni ’80 in poi nei diversi paesi europei, e ciò che le tiene insieme
Giulio Saputo: Certo, la narrazione in sé dell’Europa è parte del problema, ma dovremmo interrogarci anche sul fondamento della narrazione attuale che ha reso l’Europa il capro espiatorio per il fallimento delle politiche nazionali o l’arena dove ogni singolo paese cerca di strappare le condizioni più vantaggiose senza considerare che le decisioni vengono prese a livello europeo. Il problema è la prospettiva con la quale si guarda all’Europa nel narrarla. La storia dell’Europa come storia dell’integrazione europea è stata ridotta a un insieme di trattati e di grandi personaggi. Ma nella stessa storia dell’integrazione europea come costituzione dell’Europa, oltre ad attori governativi hanno agito idee politiche, movimenti nati dal basso che le narrative istituzionali ed accademiche ancora stentano a riconoscere. Credo perciò che il punto chiave sia il passaggio dalla prospettiva di un’Europa come insieme di stati, con al centro i governi, a quella di un’Europa di cittadini, di una comunità di destino che assuma la propria unità come elemento essenziale per costruire ciò che già siamo.
Nei vari stati europei assistiamo alla presenza di fortissime stampe nazionali e, tuttavia, alla sostanziale assenza di una stampa europea. Potremmo dire che questa assenza ha una diretta ricaduta su quella socialità che ancora oggi stenta a pensarsi ‘europea’?
G.S. La compresenza della crisi sistemica dell’Europa e della crisi identitaria sulla quale si è innestato il ritorno di nazionalismi e regionalismi ci consegna quello che i filosofi marxisti hanno definito il “deserto post-ideologico”: un mondo in cui l’unica idea rimasta (ormai in crisi anch’essa) è quella del consumo sfrenato. Ora, noi possiamo ricostruire una narrazione storica che guardando al nostro recente passato ci proietti nel futuro, nell’ottica di quello che è stato chiamato “patriottismo costituzionale”. Certo, oggi questi valori sono in crisi ed è perfino grottesco confrontare ciò che l’Europa dovrebbe essere con le emergenze che le istituzioni europee non affrontano o fingono di non affrontare. Penso perciò che oltre a recuperare una narrazione ci si debba impegnare perché questa possa effettivamente realizzarsi. È drammatico leggere come i giornali raccontino l’Europa: il problema della stampa nazionale, specie quella italiana, è di essere preda di un nazionalismo metodologico, per cui troppo spesso decisioni politiche e drammi sociali vengono visti soltanto attraverso delle lenti nazionali.
A.D.R. Questo problema è inevitabile e riguarda in maniera diversa tutte le realtà giornalistiche nazionali. A me piace insistere sull’aspetto generazionale: scommetto che guardando la composizione delle redazioni giornalistiche troveremmo che in Italia la presenza dell’unica generazione in grado di narrare l’Europa, la nostra, è praticamente nulla. Non è un’accusa: è un problema di sostenibilità che non ha niente a che vedere con le competenze giornalistiche. Se però si vuole raccontare questa Europa ci sono dei fondamentali, in particolare l’aspetto linguistico, che bisogna essere in grado di maneggiare. Ora, nessuna generazione è in grado di farlo come quella banalmente definita “generazione Erasmus”. Ma in Italia non si riesce a narrare l’Europa anche perché il giornalismo italiano è sempre stato fortemente legato ai partiti politici. Non che questo sia di per sé un bene o un male: è una caratteristica del nostro paese. Ma è una caratteristica che comporta un problema particolare: se i giornali seguono strettamente i partiti politici e le loro dinamiche, e i politici italiani non parlano di Europa, allora è chiaro come questo si rifletta immediatamente sui media.
Parlavamo di una narrazione fondata sulla storia. Ma una narrazione simile, che necessita di un forte apporto riflessivo personale, non rischia di esser un tentativo astratto e distante dall’esperienza di vita che vive i problemi dell’Europa quotidiana e che finisce per non riconoscersi europea?
G.S. Ogni comunità “immaginata” ha una propria narrazione che viene percepita a vari livelli nella società. Io credo che se vogliamo costruire un’idea e una narrazione nuova dell’Europa, non possiamo prescindere da un approccio al passato con un alto livello di riflessione. Questo non significa che il contenuto di questo approccio non debba essere declinato a seconda dell’interlocutore. Parlando con i cittadini dovremmo necessariamente andare nel concreto, altrimenti è impensabile poter recuperare la cittadinanza e avvicinarla all’idea di Europa. Se poi si vuole costruire una prospettiva di lungo periodo, allora è chiaro che il punto diviene cambiare un’Europa che non può pensare di poter funzionare in futuro mantenendo inalterate le sue basi attuali.
In questo modo non torniamo forse al problema iniziale, quello di un racconto istituzionale che non fornisce risposte concrete né cerca di rivolgersi verso alla società reale?
A.D.R. La retorica ufficiale fonda l’Unione Europea su alcuni valori ben precisi come, ad esempio, lo stato di diritto. Voglio lanciare una provocazione: possiamo andare a parlare di stato di diritto a Quarto Oggiaro o sulla Casilina? Le ricerche ci dicono che è soprattutto in aree come queste che nasce una reazione negativa al processo di integrazione europea e non credo che parlare qui di valori avrebbe un grande impatto. La condivisione di esperienze, al contrario, permette un affezionamento fortissimo ed è per questo motivo che l’Erasmus è stato un grande successo. Ma il progetto Erasmus riguarda soltanto gli studenti universitari che, tendenzialmente, già appoggiano il percorso di integrazione europea. Quali sono invece i programmi concreti di scambio e condivisione di esperienze per chi non ha fatto un percorso universitario? Perché, per risolvere il problema, bisogna farlo proprio là dove non siamo abituati a risolverlo: il target sul quale la retorica dei valori non funziona. Non si tratta di difendere questo o quel valore: è proprio un certo tipo di retorica che, secondo me, in questo contesto va abbandonata.
Se alle parole non facciamo seguire un’azione volta a risolvere i problemi concreti delle persone non ci sarà nessuna possibilità che i cittadini dei paesi europei si possano sentire parte di una comunità più grande
G.S. Questo è certamente il punto chiave: se alle parole non facciamo seguire un’azione volta a risolvere i problemi concreti delle persone non ci sarà nessuna possibilità che i cittadini dei paesi europei si possano sentire parte di una comunità più grande. È per questo che il primo passo che l’Europa dovrebbe compiere è quello di risolvere i tre problemi della crisi che stiamo vivendo: la sicurezza sociale, la sicurezza civile e la necessità, da qui al prossimo decennio, di trovare una politica per l’integrazione ma, attenzione, non soltanto per quella degli immigrati. Perché il problema dell’Europa, oggi, è quello di una doppia periferia: quella cittadina e quella esterna. Decenni di esternalizzazione dei costi dell’immigrazione, politiche estere scellerate, cambiamenti climatici, la globalizzazione stessa: tutto questo comporta uno scotto con cui dovremo confrontarci. L’Unione Europea deve iniziare almeno a pensare una soluzione per questi problemi. Il passo immediatamente successivo, da farsi assieme alla politica e alle politiche, è però quello della loro narrazione. Ma allora sì che a quel punto, avvicinatisi alle persone con i fatti concreti, si può anche pensare di essere ascoltati.
Ma così sembra le narrazioni vadano semplicemente ad aggiungersi alle politiche per rimanerne sempre un po’ distaccate. Non potremmo pensare, invece, che le due cose possano contaminarsi e si possano dunque fare politiche proprio a partire da una narrazione?
G.S. È chiaro che la realtà è molto più complessa e credo che le narrazioni, specialmente se costruite dal basso, possano e debbano fare la differenza. A questo riguardo sembra che si stia aprendo una finestra con le convenzioni che dovranno coinvolgere i cittadini e la società civile per interrogarsi sul futuro dell’Europa. È però improbabile che gli attori coinvolti saranno diversi da quelli che ci sono stati fino ad oggi. Per un coinvolgimento attivo delle periferie bisogna sperare nella mobilitazione. L’associazionismo costituisce oggi un mondo bellissimo nelle periferie, parlo di quelle italiane in particolare, che se non verrà coinvolto in modo attivo rimarrà sempre ai lati del dialogo rendendo impossibile creare una comunità che vada “dal quartiere al continente”.
Potremmo porci anche la domanda: chi ha fatto gli italiani, la televisione o la politica della Prima Repubblica?
A.D.R. Narrazione istituzionale e narrazione giornalistica sono due binari sicuramente diversi, e un’altra cosa ancora è la partecipazione delle persone a prescindere da qualsiasi narrazione. Il giornalismo diventa importante proprio nel momento in cui c’è questa base. Ma in merito a questo punto potremmo porci anche la domanda: chi ha fatto gli italiani, la televisione o la politica della Prima Repubblica? Forse la televisione ha maggiori possibilità, tanto più che un immaginario collettivo europeo ancora non c’è del tutto. E penso che uno sforzo su questo punto potrebbe venire proprio dalle istituzioni europee che si sono sempre focalizzate su misure economiche rispetto alle quali i finanziamenti ad attività mediatiche e culturali sono state secondarie. Non sarebbe stato forse meglio partire da queste ultime per costruire una comunità solida? Faccio un esempio e una provocazione: una televisione in ventotto lingue. Si potrebbe dire: un investimento inutile, chi la guarderebbe? Però, tutto sommato, è stato un canale come MTV a fare l’adolescenza di tutti quanti. Sono piccole utopie che però, secondo me, possono tracciare un percorso.
Parlavamo delle realtà associative, numerose e molto radicate sul territorio. Un giornalismo europeo quale copertura potrebbe o dovrebbe dare a queste realtà? E queste realtà, ancorate nella società reale, potrebbero funzionare da elemento primo per la creazione della narrazione di una nuova Europa?
A.D.R. Io credo che non si debba caricare il livello associativo di compiti che non gli appartengono direttamente: le associazioni sanno curarsi di attività sulle quali è poi giusto che si innesti il giornalismo ma non vedo ulteriori grandi margini di sviluppo. Che poi oggigiorno la partecipazione dei media giochi un ruolo fondamentale è ovvio. Ancora meglio sarebbe se a questo meccanismo si unisse un messaggio non semplicemente targetizzato. In questa prospettiva la forma associativa può giocare un ruolo favorendo, ad esempio, la partecipazione dei cittadini al lavoro delle redazioni. Ma esiste anche un filone di giornalismo “costruttivo” che sostiene la necessità di accendere i riflettori sulle realtà che risolvono dei problemi sociali. Realtà che non vengono minimamente raccontate ma che, con le nuove possibilità digitali di narrazione avvincente, potrebbero diventare il modo di legare associazioni e giornalismo in maniera più costruttiva.
In Europa sembra persistere la frattura tra una realtà puramente istituzionale e una società concreta. Per esempio negli atteggiamenti di comunità che invocano un giorno l’unità della comunità europea e il giorno seguente la propria autonomia da ogni forma di centralismo governativo. Ma allora da chi è fatta questa Europa? Possiamo veramente pensare alla coesistenza di uno spirito europeo e di uno spirito regionalistico?
A.D.R. Penso che le forme di indipendentismo regionali abbiano a che fare solo relativamente col senso di appartenenza all’Europa: uno può sentirsi più Catalano che Spagnolo e sentirsi al tempo stesso Europeo. Questo ovviamente non è un giudizio perché non vedo una conflittualità tra diversi sensi di appartenenza. Né penso sia giusto imporre un aut-aut tra identità europea e identità nazionale o regionale: sarebbe una semplificazione assurda. In questo senso, posto che le dinamiche politiche sono un’altra questione, non vedo un concreto rischio per il senso di appartenenza al discorso europeo.
Uno può sentirsi più Catalano che Spagnolo e sentirsi al tempo stesso Europeo. Non penso sia giusto imporre un aut-aut tra identità europea e identità nazionale o regionale
G.S. Credo che nazionalismi e regionalismi siano due facce della stessa medaglia: quella delle crisi dell’Europa e dello stato nazionale. Anche io sono assolutamente d’accordo su un’identità stratificata, che possa essere articolata in base alla propria scala di valori senza che una escluda a prescindere tutte le altre, ma bisogna anche sottolineare che oggi viviamo in un’Europa che è una via di mezzo tra un insieme di Stati e uno Stato vero e proprio, per cui regioni più ricche o con determinate tradizioni non vedono nessun ostacolo reale alla costruzione di un proprio percorso identitario. Il problema è che, per una banale ragione di pesi e contrappesi, uno stato federale europeo non potrebbe mai essere formato da regioni. È per questo che gli Stati servono. Certo, servirebbe anche una maggiore autonomia per queste regioni ma come si può concederla senza aver prima garantito una realtà istituzionale europea capace di risolvere i problemi di cui abbiamo parlato? Questo è il vero impasse: fino a che in Europa non verrà fatta una riforma istituzionale che permetta di dare una risposta ai problemi concreti dei cittadini le spinte centrifughe saranno all’ordine del giorno – i problemi per i quali si è votato Brexit o Le Pen non sono scomparsi con l’esito del voto.
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