"Quando cavalchi la tigre, è difficile scendere"

Il dibattito cinese sullo sviluppo economico

Non è mai stato un mistero che il dibattito pubblico in Cina, dopo l’esplosione della crisi del 2008, sia stato e continui ad essere serrato e vivace, soprattutto in materia di politica economica. Il confronto sui modi di uscire dalla crisi economico-finanziaria che ha colpito indirettamente la Repubblica Popolare Cinese, tuttavia, non si svolge tanto tra il Partito Comunista Cinese e gli altri partiti minori, quanto, piuttosto, all’interno dello stesso PCC, che è diviso in diverse correnti non ufficiali in base a due criteri fondamentali.
Da un punto di vista politico, lo scontro è tra la destra del partito, favorevole a proseguire la politica di progressiva apertura al laisser-faire inaugurata negli anni Ottanta da Deng Xiaoping, e la fazione di sinistra, più propensa a spostare il focus della politica economica cinese dall’ideologia mercato-centrica ed efficientista dominante verso politiche di redistribuzione del reddito e di intervento statale nell’economica. Dal punto di vista della “provenienza” dei dirigenti, invece, sia la destra sia la sinistra del partito sono divise tra coloro che, dopo aver militato nella Lega dei Giovani Comunisti, sono ascesi ai più alti piani del Palazzo partendo da umili condizioni personali e coloro che, viceversa, essendo discendenti dell’aristocrazia comunista, sono direttamente passati al rango di quadri e dirigenti e perciò sono chiamati i “principini”. Anche questa seconda frattura, avendo un ruolo di primo piano nella dinamiche interne alla vita del Partito e nei processi decisionali, non deve essere sottovalutata.

Il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese (novembre 2012) ha consacrato la vittoria dei rampolli della destra liberista, che hanno colonizzato i sette posti del nuovo Comitato Permanente del Politburo del Comitato Centrale, con al centro il “figlio d’arte” Xi Jinping. Quest’ultimo è stato imposto al Comitato Centrale del Partito dall’ancora potentissimo Jiang Zeming (1993-2003), con un certo smacco per l’ex presidente Hu Jintao (2003-2013), lavoratore edile giunto, con cursus honorum invidiabile, alla guida del Partito tramite la Lega dei Giovani Comunisti. Hu, infatti, pur essendo riconducibile, come Jiang, all’ala destra del PCC, non aveva nascosto una parziale avversità per le riforme economicamente radicali promosse dal suo immediato predecessore.
Alla vittoria della destra ultraliberista è corrisposta la caduta dell’astro nascente della vita pubblica cinese, Bo Xilai, figlio di uno degli “Otto immortali”; un nome che, richiamando la mitologia taoista, indicava la potentissima direzione collegiale incaricata, sotto la guida di Deng Xiaoping, di promuovere le prime riforme economiche dell’epoca post-maoista. Capo del Partito a Chongqing, immensa municipalità di 30 milioni di abitanti e cuore pulsante della Rivoluzione industriale cinese, Bo Xilai aveva fatto proprie le istanze della cosiddetta “Nuova sinistra” (xin zuopai), ritenendo che lo Stato non dovesse abdicare al suo compito di ridurre le drammatiche sperequazioni sociali create dalle politiche liberiste. Infatti, il modello di sviluppo cinese si è fondato essenzialmente sull’esportazione di prodotti a basso costo verso i Paesi occidentali, grazie allo sfruttamento spietato di lavoratori sottopagati. In questo contesto, l’economia cinese, con una domanda interna depressa (ed essendo dipendente dalle esportazioni), ha ben risentito della crisi, che ha drasticamente ridotto i flussi commerciali verso Europa e Stati Uniti.
Il “principino rosso” riteneva dunque essenziale dare autonomia all’economia cinese, potenziando la domanda interna attraverso investimenti pubblici convogliati verso le imprese di proprietà statale, che rappresentano tuttora la spina dorsale dell’industrializzazione cinese, pur avendo subito, dopo l’entrata della RPC nel WTO (2001), alcuni anni di crisi; il tutto però, almeno nelle intenzioni (o illusioni?) della Nuova sinistra, senza soffocare l’iniziativa individuale, all’insegna del principio per cui “pubblico e privato vanno di pari passo” (guojin minjin). A queste concezioni Bo Xilai combinava, grazie al suo eccezionale carisma, una concezione leaderistica del partito, in opposizione alla direzione collettiva dominante a Pechino dopo Mao Zedong.

Le aspirazioni del modello Chongqing, che fino al 2010 rappresentava secondo gli osservatori il futuro più verosimile per l’evoluzione economica e politica dell’Impero di Mezzo, tuttavia, sono state frustrate da una violentissima campagna mediatico-processuale contro il suo principale artefice accusato di corruzione, immoralità e di aver ordito un omicidio contro un cittadino britannico. La moglie di Bo è stata condannata a morte, mentre il “principe rosso” è in attesa di processo. Non ha potuto salvare Bo neanche l’aperto sostegno, nella precedente composizione del Comitato Permanente del Politburo del Comitato Centrale, di Zhou Yongkang, autore della violenta repressione contro la setta pacifista del Falun Gong e martello inarrestabile dei ribelli in Tibet e Xinjiang, dove Hu Jintao lo aveva inviato nel 2009 contro gli Uiguri, nella vana speranza di sbarazzarsi di lui.
Le critiche di questo artista della repressione (dedito da una vita, come ama ripetere, a “stroncare le forze ostili”) al modo in cui era stato gestito l’affaire Chongqing preoccuparono non poco Hu Jintao, se è vero che quest’ultimo, il 19 marzo 2012, ordinò alla famigerata unità 66393 di portare blindati e uomini di fronte all’abitazione di Zhou presso il quartier generale del Partito a Pechino (Zhongnanhai); ad attenderli c’erano proprio i fedelissimi di Zhou, con licenza di aprire il fuoco. Solo il tempestivo intervento dell’ecumenico Jiang Zeming, l’“Andreotti d’Oriente”, avrebbe scongiurato il pericolo di un colpo di Stato o di una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Zhou è “un bravo compagno con grande spirito di sacrificio per il partito”, avrebbe detto Jiang a Hu Jintao. Tradotto dal politichese mandarino: lascia perdere. Isolato politicamente, Zhou è stato “pensionato” al XVIII Congresso del PCC (novembre 2012) senza colpo ferire.

Con la caduta di Bo Xilai e del modello Chongqing sono venuti meno anche quegli aiuti finanziari che consentivano ai think tank della Nuova sinistra di svolgere le loro ricerche economiche a sostegno delle tesi zuopai. Nel contempo, la Banca Mondiale, con l’assenso del nuovo politburo, pubblica una previsione secondo cui la RPC proseguirà decisa sulla (ancora lunga) strada della liberalizzazione economica.
In realtà, non sembra che le politiche della sinistra siano destinate a eclissarsi insieme al loro referente politico. Già Hu Jintao ne aveva fatti propri gli insegnamenti alle prime avvisaglie della crisi, con un pacchetto di investimenti pubblici keynesiani nel settore delle infrastrutture. Ora anche la nuova dirigenza di Xi Jinping fa trapelare dichiarazioni per cui sarebbe opportuno puntare sul mercato interno. L’esempio che viene fatto in proposito è quello della campagne, le quali, dovendo essere ancora interamente motorizzate, verosimilmente saranno destinatarie di massicci investimenti statali tramite i colossi dell’economia pubblica.
Tutto, dunque, lascia intendere che il ruolo dell’industria collettivizzata nell’Impero Celeste continuerà ad essere di primo piano, nonostante il quotidiano panegirico che del liberismo economico fanno gli organi ufficiali del regime comunista.
 




In collaborazione con La Clessidra

 


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