Qualcuno da amare di Abbas Kiarostami
con Rin Takanashi, Tadashi Okuno, Ryo Kase
Tre anni dopo il capitolo italiano Copia conforme, Kiarostami mette in scena il suo secondo lungometraggio girato al di là del confine dell’Iran. Di ambientazione nipponica ma di materia e respiro profondamente europei, Qualcuno da amare racconta una storia di solitudine metropolitana.
Akiko (R. Takanashi) è una giovane ragazza giapponese, distante dalla famiglia, trasferitasi a Tokyo dove fa la prostituta all’insaputa di Noriaki (R. Kase), suo altrettanto giovane compagno di maniere violente che ha lasciato gli studi per lavorare in un’officina e che di lei è ossessivamente geloso. Una notte Akiko conosce il vecchio scrittore e traduttore Watanabe (T. Okuno), che vuole approfittare della sua compagnia e non del suo corpo.
Tralasciando i disattenti errori e i vizi melensi dei titolatori italiani, Like someone in love ricalca il proprio titolo dall’omonimo brano scritto da Johnny Burke e messo in musica da Jimmy van Heusen per La bella dello Yukon di William A. Seiter, dove Dinah Shore lo canta per prima – Bing Crosby, Chet Baker e Ella Fitzgerald sono soltanto alcuni dei grandi nomi del jazz che la interpreteranno negli anni a venire. Volendo andar dietro all’elegante procedere borghese della canzone da cui prende il nome, Kiarostami orchestra tre figure che raramente diventano personaggi in un ambiente a lui estraneo senza quasi mai suscitare riflessione, spunto, emozione. «Il film è stato girato in giapponese. Tutti gli attori, tutti dietro le scene, tutti i collaboratori, tutta l’equipe era giapponese. Io ero soltanto l’ospite». È la stessa impressione che suscita nello spettatore: un ospite inesperto di un mondo che vorrebbe far suo soltanto grazie all’universalità di una storia. E se già la storia stessa di per sé non può fiorire, fragile nella costruzione e mai interessante, sradicata dal terreno su cui dovrebbe poggiare fatica ancor di più a trarne linfa vitale.
L’intensa pagina iniziale, di fascino non solo visivo, dell’inascoltato arrivo a Tokyo della nonna – Akiko che risente in sequenza tutti i messaggi telefonici mentre l’anziana parente la aspetta inutilmente sotto una statua della stazione – è uno stralcio sofferto di isolamento sociale, l’unico vero picco di emozione in un film piatto e monotono. Nonostante la volontà di un narrare altolocato trovi forma nell’atmosfera suggestivamente alleniana della cena a casa del vecchio scrittore – atmosfera non a caso colta e trascinata nella seconda metà dal meraviglioso andare della delicata Solitude di Duke Ellington – si è presto sopraffatti da un testo paurosamente noioso e da una regia sterile che incatenano lo spettatore in un estenuante e vuoto blaterare, dove niente è approfondito e tutto è superfluo. Kiarostami, ricercato ma esile, vuole raccontare con la raffinatezza del borghese riuscendo a restituirne soltanto la vacuità. E si rischia più volte di fare come il signor Watanabe che, avvolto nel mezzo di un inutile traffico dal torpore mattutino, finisce per addormentarsi sul sedile della propria auto.
«Dal momento che si diventa una coppia non si smette mai di soffrire»
FRA-GIAP. 2012 – Dramm. 106’ **
Commenta