Prima gli europei o gli italiani | Speciale Europee 2019

Quanto è cambiata l'Italia dal 40% a Renzi nelle Europee del 2014?

Alle elezioni europee del 25 maggio 2014 l’Italia si scoprì incredibilmente europeista e riformista. La fiducia del 40,8% degli elettori era infatti andata al Partito Democratico – alla guida del paese se pur con una maggioranza risicata di larghe intese con parte del centrodestra – ma soprattutto al nuovo presidente del consiglio, Matteo Renzi, vero e proprio dominatore della scena politica del tempo. La sua agenda di governo prometteva riforme, soprattutto istituzionali, entro la legislatura a scadenza 2018, ma guardava irrimediabilmente anche all’Europa rivendicando un europeismo convinto e, per gran parte degli elettori, convincente. Uscivano ridimensionati invece, dopo gli exploit inattesi (per motivi diversi) alle elezioni politiche dell’anno precedente, Movimento 5 stelle e Forza Italia, fermi rispettivamente al 21 e al 16%. L’antieuropeismo dichiarato e più radicale si fermava invece a percentuali molto marginali (seppur in crescita dalla tornata elettorale precedente) con il 6% della Lega Nord – che nel logo scriveva chiaramente «Basta €uro» – e Fratelli d’Italia, che non riusciva a superare lo sbarramento del 4%. Impresa compiuta invece, per poche migliaia di voti, da L’Altra Europa con Tsipras, agglomerato di sigle di sinistra salite sul carro del presidente greco Alexis Tsipras (candidato anche alla presidenza della Commissione Europea) non proprio euroscettiche ma sicuramente euro-critiche, se non euro-confuse.

Un'Italia rovesciata
Quell’Italia verosimilmente non esisterà più alle prossime elezioni, che invece vedono uno scenario quasi totalmente rovesciato. Le elezioni politiche del 4 marzo dello scorso anno hanno infatti visto un crollo del Partito Democratico al 18% e un trionfo del Movimento 5 stelle, primo partito del Paese con quasi il 33% dei voti. Ma l’exploit decisivo è stato quella della Lega (non più seguita dalla parola «Nord», a testimonianza di una vocazione più nazionale e nazionalista). Con poco più del 17% dei voti, il partito di Matteo Salvini non ha solo preso le redini del centrodestra, a discapito della più moderata Forza Italia, ma ha anche portato i seggi necessari a creare una maggioranza parlamentare con il Movimento 5 Stelle, per molti impronosticabile prima del voto. Il governo che guida la XVIII legislatura della Repubblica è dunque basato su un contratto tra due parti che si erano presentate alle elezioni in schieramenti contrapposti. Alla guida dell’esecutivo un (im)perfetto sconosciuto, l’avvocato (del popolo) Giuseppe Conte. Le elezioni del prossimo 26 maggio, saranno il primo vero banco di prova per questa maggioranza.

Il referendum del 4 dicembre
Guardando agli ultimi cinque anni in modo più distaccato, ci si rende conto che questo ribaltamento è avvenuto in un arco temporale relativamente breve. La svolta più significativa è avvenuta il 4 dicembre 2016, con la vittoria del No al referendum costituzionale che chiamava gli italiani ad approvare la legge costituzionale «concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione» (quest’ultimo che delinea la divisione di competenze tra Stato e Regioni).
 

Nella campagna referendaria è stato evidente come sia i sostenitori del Sì che quelli del No abbiano contribuito, per motivi opposti, a caricare il voto di un significato decisivo per il governo


Le mancate riforme sono un tratto saliente di tutta la storia italiana del dopoguerra, in cui la conservazione sembra avere sempre la meglio e i grandi cambiamenti sembrano ogni volta rimandabili. Le riforme istituzionali mai avvenute, ma sempre auspicate, ne sono un chiaro esempio. Sarebbe eccessivamente lungo riportare l’anno di dibattiti e scontri che hanno accompagnato l’ultima campagna referendaria, e monopolizzato nei contenuti l’opinione pubblica: è però evidente come sia i sostenitori del Sì che quelli del No abbiano contribuito, per motivi opposti, a caricare il voto di un significato decisivo per il governo guidato da Matteo Renzi. Non era affatto necessario che fosse considerato come tale, ma il 4 dicembre è divenuto determinante per un esecutivo che aveva legato a doppio filo la propria sorte al voto. Molti sono stati i fattori che hanno poi generato un risultato netto a favore del No (quasi il 60% dei votanti), e non è questo il luogo in cui dilungarsi sulla loro natura. Tuttavia, occorre sottolineare che la scelta netta tra Sì e No ha irrimediabilmente polarizzato un dibattito molto complesso e di conseguenza il risultato ha finito per delegittimare tutta la legislatura. Il declino nei consensi (culminato alle ultime elezioni) che il Partito Democratico ha vissuto da lì in poi è evidente, ed è iniziato proprio a partire dal 4 dicembre 2016. Un declino talmente mal gestito dalla classe dirigente del partito da oscurare anche la lucidità di giudizio nel merito di molti provvedimenti che i governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno preso durante la legislatura. Molti dei quali ancora oggi vigenti, sebbene il governo disegnato all’indomani del 4 marzo 2018 si stia adoperando alacremente per cambiarli.

L'ascesa di Lega e Movimento 5 Stelle
In particolare, gli scatti più riformistici si sono verificati nei due anni di Renzi, forte di un consenso che le elezioni europee del 2014 avevano rafforzato. Le riforme istituzionali erano un’altra tappa di questo percorso, talmente impegnativa da avere fagocitato tutto il resto. E mentre centrosinistra e i suoi alleati di governo erano impegnati a portare a termine il proprio mandato, l’opposizione si rafforzava. La centralità assunta nel dibattito politico in questi anni da temi quali la gestione dei flussi migratori e la sicurezza hanno permesso alla Lega, grazie a proposte radicali e ad una retorica molto aggressiva, di crescere esponenzialmente in pochi anni fino a spodestare Forza Italia dalla guida del centrodestra. Un movimento nato secessionista, ha finito per unire il tradizionale consenso tra i ceti produttivi del Nord a un sostegno più diffuso su tutto il territorio nazionale. Il Movimento 5 stelle invece ha fatto del Reddito di Cittadinanza (che poi alla prova dei fatti è diventato un semplice sussidio di disoccupazione maggiormente esteso) un vero e proprio cavallo di battaglia che ha permesso di sottrarre alla sinistra il consenso proveniente dalle fasce di popolazione più dipendenti dal welfare statale.
 

Il voto delle ultime elezioni politiche testimonia una chiara necessità di avere più Stato, che garantisca maggiore sicurezza, che gestisca in maniera efficace l’immigrazione, che dia tutele a pensionati e disoccupati


Il voto delle ultime elezioni politiche testimonia che nella maggioranza dell’elettorato alberga una chiara necessità di avere più Stato, che garantisca maggiore sicurezza, che gestisca in maniera efficace l’immigrazione e che dia ampie tutele a pensionati e disoccupati. Su questi temi, le agende di Movimento 5 Stelle e Lega – confluite poi in un contratto di governo – contengono le risposte più dirette e, in modi diversi, radicali: pensioni più facilmente accessibili, sussidi di disoccupazione più estesi, meno fondi per l’accoglienza e più rimpatri. Molti dei provvedimenti orientati al raggiungimento di questi obiettivi prevedono la cancellazione di norme imputabili ai governi precedenti. Quanto il governo attuale riuscirà a cancellare dell’impeto riformatore del passato è da vedere.

L'Europa come capro espiatorio
Il rapporto con l’Unione Europea è naturalmente sempre rimasto centrale. Vedendola dall’esterno, l’Italia è passata da avere un governo che, almeno a parole, rivendicava un europeismo riformista ad essere il paese capofila di quell’euroscetticismo che non disdegna il nazionalismo più spinto. Una certa insofferenza verso la burocrazia europea per la verità era già molto presente nei governi della legislatura precedente, soprattutto in quello a guida Renzi. Questo perché risulta estremamente conveniente per la classe politica imputare i problemi ad un capro espiatorio, andando ben oltre una legittima necessità di autodifesa.
Ciò che però rende l’attuale legislatura particolarmente all’avanguardia nell’euroscetticismo – se di avanguardia si può parlare – è il suo basarsi su una maggioranza di due forze estremamente critiche nei confronti dell’Ue, e in particolare della moneta unica. Sebbene lo scenario di un’Italexit sia stato ufficialmente escluso, ci sono molti segnali che fanno rimanere l’idea plausibile. Molti teorici di un’uscita concordata dalla moneta unica ricoprono oggi ruoli di primo piano a livello governativo. Candidati ed eletti nelle file della Lega, partito che non ha mai smentito la propria posizione politica contraria all’Euro, al contrario del M5S che è passato dal raccogliere firme per chiedere un referendum consultivo sull’appartenenza all’Area Euro (2014) al rinnegare completamente questa volontà nell’attuale programma elettorale per le europee.
 

L’Europa è diventata il capro espiatorio di molti problemi italiani: la crescita economica a zero, l’incapacità di gestire efficacemente e nel rispetto dei diritti umani i flussi migratori, l’alto debito pubblico, il tetto al deficit


L’Europa è diventata il capro espiatorio di molti problemi italiani. La crescita economica a zero (ormai da decenni) e in particolare l’allargamento del divario con gli altri paesi europei, l’incapacità di gestire efficacemente e nel rispetto dei diritti umani i flussi migratori dall’Africa e dal Medio-Oriente, l’alto debito pubblico e il tetto al deficit, oltre alle sporadiche lamentele su cosa non si può fare – e sarebbe invece tanto bello fare – per colpa dell’Europa.
Un sentimento sicuramente diffuso in tutto il continente e che deriva anche da una serie di difetti dell’architettura istituzionale europea e nell’interpretazione dei Trattati. È tuttavia l’Italia a spiccare tra gli altri e ad avere oggi al governo quelle forze che hanno cavalcato questo malcontento più di tutte, perché la classe politica agisce in un certo modo se supportata dall’elettorato, che sull’Europa mostra opinioni contrastanti. Eurobarometro ci dice che in Italia l’apprezzamento verso l’Ue è in leggera crescita rispetto a cinque anni fa ma è tra i più bassi se comparato agli altri paesi, e una larga fetta è indecisa o ignara. La permanenza nell’euro non è però ancora messa in discussione da gran parte degli italiani, in molti sondaggi appare per la verità evidente che molte opinioni maturano a causa di percezioni non del tutto corrispondenti alla realtà. Sui temi europei prima di tutto.

Il passato, il presente e il futuro in Unione Europea
Quasi tutti i partiti cercano di sfruttare a proprio vantaggio i temi o le emergenze del giorno, ma di agende politiche chiare e dettagliate non ce ne sono e spesso ci si ferma alla vuota retorica di brevissimo periodo. Le prossime elezioni europee sono annunciate come l’ennesima ultima spiaggia per salvare o cambiare l’Europa. Nel quadro politico italiano però non si capisce bene come e quanto cambiare. Tuttavia, la direzione del consenso sembra andare in tutta Europa verso quelle forze politiche avverse all’Unione Europea, con la Lega italiana a fare da capofila.
Quasi trent'anni fa esatti, il 18 giugno 1989, gli italiani furono chiamati a votare nel primo e unico referendum consultivo della storia Repubblicana sull’attribuzione di un mandato costituente al Parlamento Europeo. L’88,03% dei votanti (con un’affluenza dell’80%) votò a favore di una Costituzione europea, un passo che la Comunità, diventata pochi anni dopo Unione, non ha ancora fatto (il progetto di Costituzione Europea tramontò definitivamente nel 2007). Quel voto rappresentò un apice di consenso verso il progetto europeo che il nostro paese ha visto solo diminuire nei decenni successivi. Quanto sarebbe distante, oggi, il risultato di una simile consultazione? Le prossime europee non ce lo diranno, ma sicuramente aiuteranno a capire se chi crede nell’Europa è almeno ancora in maggioranza.


Parte della serie Speciale Elezioni Europee 2019

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