Pranzo di ferragosto
La Roma rarefatta di Gianni Di Gregorio
Pur nella polvere di vecchie pellicole è possibile notare come il dispositivo cinematografico abbia quasi sempre operato sulla realtà ponendosi come un filtro magico, capace di condurre dentro a una dimensione ‘altra’ rispetto a quella originale. Con variegate sfumature, esso crea così di volta in volta una distanza con il reale, per lo più equivalente a quella dinanzi alla quale si trova lo spettatore rispetto allo spazio filmico rappresentato sullo schermo. Non si tratta certo di maggiore o minore coinvolgimento nei confronti dell’opera, ma piuttosto di una sorta di distanza primordiale, connaturata in quello stesso dispositivo. In questo senso, è estremamente interessante come continui a spiazzare – e storicamente abbia molto spesso spiazzato – il tentativo sperimentale d’avvicinarsi alla realtà. Come se questa, nella stessa intrinseca conformazione del dispositivo cinematografico, fosse relegata a una sorta di canale di scolo. Il dispositivo la tritura, la manipola, la rimodella nel potere ammaliante dello sguardo dell’autore, e poi in fin dei conti la risputa come residuo, tenendo sul quadro filmico solo il concepimento magico di una tale manipolazione. Forse è questa consuetudine costitutiva che nel tempo ha portato a considerare come innovativi tutti quei tentativi d’assottigliamento di quella distanza originaria.
Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio è un caso cinematografico perché, muovendosi in una tale direzione, riesce a farsi simbolo di un modo nuovo di fare cinema, assoluta novità nel panorama italiano degli ultimi anni. Il regista ripercorre il filo malinconico che lo lega al ricordo della madre autoritaria confezionando un film fresco, garbato e pregno di un’autenticità spiazzante. Rispolverato uno strano episodio realmente accadutogli, ne immagina un seguito mai verificatosi. Il suo Gianni – questa volta – dice di sì all’indecente proposta dell’amministratore che nei caldi giorni di ferragosto lo invita a ospitare la madre di cui non può occuparsi in cambio d’azzerare diversi debiti condominiali accumulati nel tempo. Allettato dalla convenienza dell’insolito patto il povero Gianni si ritroverà però a dover ospitare anche la zia dell’amministratore e persino la madre di un suo amico medico che poco dopo lo pregherà di fargli lo stesso identico ‘favore’.
La casa di Gianni diventa così lo spazio condiviso della fragile vulnerabilità di tenere e talvolta capricciose vecchiette, strette nella reciproca solitudine. Lo sguardo su di loro è ironico e delicato, mai invadente; fuori del quale esiste solo, per confessione del regista, «una Roma completamente rarefatta, quasi inesistente, in una nuvola di luce». L’autore stesso (con trascorsi accademici d’attore) viene risucchiato dentro al suo film come interprete, così portando a totale compimento l’operazione quasi identificativa tra realtà e rappresentazione cinematografica. La regia diventa come interna al quadro filmico mescolandosi magicamente a ciò che accade su canovaccio nella messa in scena. Di Gregorio allora guida, indirizza con discrezione le sue anziane non-attrici, concedendo tanto a loro quanto allo spettatore la libertà del potere sconvolgente dell’autentico. In questi termini la macchina da presa non deve far altro che presenziare rubando, così da assumere la forma di una sorta di coda del suo garbato timoniere. Scomodare il Neorealismo senza la giusta cautela e per di più sul piano teorico-ideologico sarebbe certo troppo. Sta di fatto che il tipo di approccio al reale ne evoca sicuramente alcuni espedienti formali in uno stile disadorno ma significante. Pertanto, sotto questo profilo, anche qui c’è un cinema ‘nuovo’ che si apre con trasparenza sul mondo, superando ogni mistificazione e manipolazione costitutiva del filtro cinematografico che per essenza interpone tra realtà e rappresentazione filmica i meccanismi tecnici estetici della finzione. Qui il significato risiede nell’immediatezza, nella verace genuinità dei personaggi che se ne fanno carico ed è in una tale dimensione semantica che si nutre l’enorme cifra stilistica del film.
La carta da parati fatiscente, le pareti pastellate di un azzurro oramai sbiadito, la pasta al forno e tutto il resto. La casa sullo schermo è la vera casa della madre di Di Gregorio e le anziane donne che dentro vi si muovono sono libere di non essere personaggi di (totale) finzione cinematografica. Quello spazio sembra quasi una casa di ‘cura’, ma oltre le leggere affinità rimane più semplicemente solo un piccolo mondo, interno a quel mondo più grande che cinico e disattento in qualche modo le respinge e abbandona; un piccolo rifugio nel quale i fragili interpreti che lo abitano si stringono attorno a un pranzo di ferragosto condividendovi paure e cura per gli altri. Fuori, tutto è rarefatto e quasi inesistente. In una nuvola di luce.
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