Possiamo salvare il mondo, prima di cena?
Jonathan Safran Foer e le responsabilità alimentari nel disastro climatico tra realismo, utopia e indagine sociologica
Quello di Jonathan Safran Foer è un nome ben noto tra chi si occupa di vegetarianesimo, grazie al suo precedente saggio Se niente importa. Perché mangiamo animali? (Guanda, 2009), un’inchiesta sul mondo degli allevamenti intensivi. Il libro fece clamore e, se anche non convinse tutti i suoi lettori, di certo pose il problema in maniera profonda, stabilendo una pietra miliare per il futuro dibattito sull’argomento. A dieci anni esatti Foer espande il discorso con Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda, 2019). L’autore ritorna infatti a parlare di animali, ma soprattutto della relazione tra allevamento e crisi climatica. Lo scopo però non è tanto dichiarare questo legame, comunque confermato in alcune pagine con puntuali riferimenti bibliografici; Foer non si dedica a investigare il dato, né l’azione da compiere (tutto sommato semplice, pur nella sua drastica alterazione dello status quo), ma i motivi per cui non riusciamo ad agire nonostante la conoscenza. La sua non è un’operazione del tutto nuova, negli ultimi tempi le pubblicazioni a tema fioccano (molto interessante ad esempio MEDUSA, newsletter bisettimanale sull’Antropocene), ma il libro più vicino è forse La grande cecità di Amitav Ghosh (Neri Pozza, 2017), anch’esso sulla nostra incapacità di concepire la crisi climatica. L’opera di Ghosh però, pur restando ancora valida e citata anche da Foer, era uscita nel 2017, prima dello sciopero di Greta Thunberg, prima dei Fridays for future, prima dell’attenzione mondiale sul tema, e non aveva proposte per risolvere la situazione.
Quest’ultimo saggio invece può permettersi di essere più pragmatico, perché il clima (è proprio il caso di dirlo) sta cambiando e adesso la questione è di dominio pubblico. La soluzione proposta per ridurre le emissioni di gas serra punta a combattere gli allevamenti intensivi, rinunciando ai loro prodotti, per ridurre l’impatto sull’ambiente: «Niente prodotti di origine animale prima di cena», cioè diventare per gran parte della giornata vegani. Il veganesimo in sé però viene citato poche volte nel libro, segno di una diffidenza ancora forte verso questa scelta – anche se i vegani promuovono da tempo attenzione ai costi nascosti dell’allevamento intensivo e dovremmo essere loro grati per avere sollevato il problema. L’autore stesso lo riconosce: «Quando si parla di carne, latticini e uova la gente si mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo». Ma l’interrogativo che si pone come fondamento del libro come dobbiamo agire? viene declinato non solo come cosa dobbiamo fare?, ma anche con quale spirito dobbiamo farlo?, perché secondo l’autore la crisi climatica «per mobilitare le persone, deve diventare una questione emotiva». Questo libro quindi obbliga a fare i conti con se stessi (un capitolo si intitola Disputa con la propria anima) e mette alle strette: fa notare la difficoltà dell’impegno, ma anche l’importanza di assumerlo senza indugi. Ne evidenzia la centralità nella lotta al cambiamento climatico, ma fa riflettere anche sulla difficoltà di far emergere la questione nel movimento ambientalista contemporaneo: ad esempio negli scioperi per il clima, almeno in Italia, i cartelli Go Vegan non sono stati così diffusi. Consapevole del cambiamento che richiede, l’autore non fa sconti nemmeno a se stesso, ammettendo perfino la vergogna suprema per lui: essere tornato a mangiare carne anche dopo aver scritto Se niente importa. Questa sua fallibilità però dà valore all’argomentazione, venendo inserita nel ragionamento come prova dell’incoerenza delle emozioni umane, le quali vanno dominate da uno sforzo superiore.
Ci si potrebbe sentire “offesi” dal fatto che le abitudini dei singoli debbano essere modificate quando il problema è nel sistema
Durante la lettura potrebbe venire da chiedersi perché, nonostante tutte le buone argomentazioni, il problema debba essere risolto a livello individuale quando, per decenni (dagli anni ’90 del Protocollo di Kyoto, ma in realtà anche da prima, visto che i primi report risalgono agli anni ‘50), nessuno stato ha fatto un serio sforzo per affrontarlo. Ci si potrebbe sentire “offesi” dal fatto che le abitudini dei singoli debbano essere modificate quando il problema è nel sistema. Già La grande cecità discuteva questa reazione, parlando dell’eccessiva colpevolizzazione dell’individuo. Ghosh infatti, citando varie campagne pubblicitarie, accusava le multinazionali di aver promosso l’impegno ambientale individuale per potersi lavare le mani dall’inquinamento, mostruosamente più grande, portato avanti in nome del profitto ad ogni costo. In Possiamo salvare il mondo, prima di cena la questione è apparentemente rovesciata, ma l’obiettivo è puntato in realtà nella stessa direzione. Infatti non è elusa la questione del cambiamento economico e tecnologico a livello generale, ma si evidenzia come i combustibili fossili siano solo una parte (per quanto grande) del problema: «Cambiare il nostro modo di mangiare non sarà sufficiente di per sé a salvare il pianeta, ma non possiamo salvare il pianeta senza cambiare il nostro modo di mangiare».
Per guidarci all’interno di un problema così complesso, intrecciato con tanti altri fattori, il libro utilizza lo stesso metodo: mette insieme una diversità di racconti, fonti, esperienze che dovrebbero aiutarci a rendere sensato ai nostri occhi il problema, a convincerci ad agire davvero. Per questo i dati hanno così poco spazio e molto di più è dato ad aneddoti, resoconti storici, riflessioni personali. Per questo lo scrittore usa tutte le armi stilistiche possibili: metafore, similitudini, domande retoriche. Queste ultime in particolare spesso chiudono i brevi capitoli, invitando a un colloquio con se stessi che non può più essere rimandato, perché in gioco non c’è “solo” la distruzione dell’ambiente, concetto che ai più continua a sembrare astratto e lontano dall’esperienza quotidiana, ma la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta.
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