Petrofiction | Raccontare Singapore attraverso il petrolio

Come il petrolio ha forgiato l’identità socioculturale di Singapore e i tentativi di occultamento che ne sono seguiti

Mio nonno ha iniziato a lavorare come meccanico per la Shell dopo la Seconda guerra mondiale. Mia nonna ha continuato a ricevere la pensione dall’azienda anche dopo la morte del marito, avvenuta nel 1989. Quel pezzetto di carta grigio grafite infilato in una busta è arrivato regolarmente per anni. Il tempo che i miei nonni hanno trascorso in Borneo, l’elegante villetta a schiera a Penang, i soldi per pagare la scuola gestita dalle suore dove andava mia madre: tutto dev’essere sgorgato da quel petrolio. Eppure, mio nonno non mi ha mai raccontato storie sui macchinari a cui lavorava, quella lucrosa alchimia che maneggiava sempre. Magari si chiedeva che cosa potesse farsene una bambina, come ero io, di questo sapere. Invece, mi leggeva il giornale, con quel suo inglese stranamente formale. Il suo eloquio mi risuona ancora nella testa e influenza il mio accento, le mie parole.
 

Tutto dev'essere sgorgato da quel petrolio


Il mio stesso destino di ricercatrice in studi culturali e letterari, lontano da casa, ospite inattesa sul territorio del Trattato 6, deriva in larga parte dai salari dell’industria fossile. Questa dipendenza continua ancora oggi quando ricevo borse di studio dal governo federale del Canada. Vivo e lavoro dove il colonialismo d’insediamento estrae tutto il petrolio, l’uranio e il carbonato di potassio che può dalle praterie e dalle foreste boreali. Percepisco sentimenti contrastanti di rabbia e sollievo nelle persone accanto a me man mano che diventa palese che l’oleodotto Keystone XL non vedrà mai la luce. Scopro che, mentre la Shell sta dimezzando la capacità della raffineria a Singapore, una piccola porzione del petrolio che continua a raffinare arriva da Alberta, la provincia confinante che si estende sulle praterie. Grazie a questa scoperta, diventa un po’ più facile tenere traccia delle reti, solitamente sommerse, di energia ed estrazione che partono dalle terre dei nativi in America del Nord e arrivano fino alla Malesia e a Singapore, dove le isole sono state occupate e modellate secondo uno schema simile.



«Singapore è la Houston o la Rotterdam dell’Oriente» afferma in un’intervista del 1990 per Forbes Bert Lotgering, il direttore della sezione supply & trading della raffineria di Singapore, Shell Eastern Petroleum. L’articolo ostenta un tono celebrativo, riuscendo a malapena a contenere lo stupore per il fatto che Singapore sia «il centro nevralgico dell’economia petrolifera dell’Asia e del Pacifico e fra i principali beneficiari della dirompente fame di petrolio». Il porto è «pieno di gigantesche cisterne petrolifere che vomitano greggio» e le cinque raffinerie del paese (Shell, Exxon, Mobil, BP e Caltex/Singapore Petroleum Company) hanno una capacità di circa un milione di barili al giorno. A pieno ritmo si arrivava a un milione e mezzo al giorno. L’articolo fa notare anche che Singapore è il centro commerciale petrolifero dell’Asia. Nel 1989 la Singapore International Monetary Exchange (SIMEX) ha lanciato il primo mercato dei futures petroliferi. Il governo ha più che dimezzato le tasse sui profitti derivanti dal commercio di petrolio e ha dato incentivi alle ditte di stoccaggio per costruire parchi serbatoi.

L’impeto dell’entusiasmo e la moltitudine di numeri, dati e statistiche nell’articolo di Forbes rendono evidente come Singapore sia riuscita a diventare il centro nevralgico delle «zone di estrazione» del Sud-Est asiatico. Macarena Gómez-Barris, che scrive dai contesti latinoamericani, ha definito le zone di estrazione come territori dominati da «paradigma coloniale, mentalità e tecnologie che identificano regioni “ad alta biodiversità” al mero fine di ridurre la vita a una risorsa capitalistica di scambio». Da piccola vivevo in mezzo a queste zone, anche se confondevo le file ordinate di palme con quelle degli alberi della gomma durante i viaggi in macchina con la mia famiglia in giro per la Malesia. La terra e le vie d’acqua attorno a me erano state segnate dal fatto che per secoli abbiamo trattato la giungla, le piane di marea, gli estuari dei fiumi e le colline come se fossero solo palme da olio, alberi di gomma, sabbia, stagno e petrolio. Singapore non rientra nella definizione classica di petrostato, non ha giacimenti petroliferi e ha un’economia diversificata. Ma la Repubblica, con le sue tendenze autoritarie, è stata fin dai tempi coloniali inestricabilmente invischiata con le reti e le infrastrutture della produzione energetica. Shell ha iniziato a usare l’isola di Pulau Bukom nel 1891 come sito di stoccaggio per il cherosene e poi l’ha usata per lo stoccaggio, la miscelazione e la spedizione del petrolio. Nel periodo post-indipendenza, poche narrazioni nazionali hanno dato sufficiente importanza al ruolo del petrolio, anche mentre facilitava la transizione postcoloniale di Singapore. Tra il 1961 e il 1974, mentre il territorio abbandonava l’unione con la Malesia per raggiungere da solo l’indipendenza dagli inglesi, passò dal non avere un’industria petrolifera a diventare il più grande raffinatore di tutta l’Asia. L’industria trasse beneficio dalla guerra del Vietnam e da quelle del Golfo, con le raffinerie di Singapore che rifornivano il fronte statunitense in ogni conflitto.
 

Per secoli abbiamo trattato la giungla, le piane di marea, gli estuari dei fiumi e le colline come se fossero solo palme da olio, alberi di gomma, sabbia, stagno e petrolio


Forse è proprio la relazione tra petrolio e sangue il motivo per cui una parte così grossa di questa storia è invisibile. Ng Weng Hoon scrive nel suo libro Singapore, The Energy Economy (Singapore, l’economia dell’energia): «Visto il contributo delle raffinerie all’economia e il conseguente impatto sulla stabilità politica della Nazione, sussiste una sorprendente mancanza di informazioni, dati e analisi sugli anni di formazione dell’industria a Singapore». La città-stato ha per lungo tempo mimetizzato il suo scheletro industrializzato e urbano con tappeti di verde tropicale, che vengono usati sia in senso materiale che retorico. Come molti altri dei miei coetanei, sono cresciuta con una conoscenza scarsa se non inesistente delle raffinerie che hanno garantito la prosperità della mia nazione. Le numerose campagne di marketing (Garden City e City in a Garden) hanno costruito in modo meticoloso l’immagine di Singapore all’occhio del mondo esterno. Dal film Crazy & Rich al parco Gardens by the Bay, dalle ambientazioni verdi e lussureggianti della terza stagione di Westworld alle foreste al chiuso nell’aeroporto Jewel Changi, la fertilità di Singapore è stata usata come distrazione dall’industria petrolifera. Le raffinerie sono state relegate su isole vicino alla costa – spazi ormai aziendalizzati che offrono tutti i comfort per i loro lavoratori, che includono migranti da Thailandia, India, Bangladesh, Myanmar, Filippine e Cina. Queste isole, Pulau Bukom e l’isola artificiale Jurong Island, formano il cuore rimosso e invisibile degli investimenti industriali del Paese.



Jurong Island una volta era formata dalle isole Pulau Ayer Chawan, Pulau Ayer Merbau, Pulau Merlimau, Pulau Pesek, Pulau Pesek Kechil, Pulau Sakra, Pulau Seraya, Pulau Meskol, Pulau Mesemut Laut, Pulau Mesemut Darat e Anak Pulau. Gli abitanti precedenti sono stati costretti ad andarsene per lasciare spazio alle raffinerie petrolifere, le loro case sono state distrutte vent’anni prima di quanto programmato, quando le isole sono state amalgamate attraverso la sottrazione della terra al mare. Generazioni di comunità estremamente unite, mestieri di mare e geografie famigliari sono stati seppelliti nel sedimento. In questo processo, la superficie terrestre di Singapore è aumentata da 991 ettari a 3.000 ettari con un costo di sette miliardi di dollari. Irene Lim osserva che oggi «il paesaggio dell’isola, con industrie tentacolari, ciminiere torreggianti, enormi serbatoi e reti di tubazioni posizionate in un’atmosfera arida e polverosa, dà la sensazione di essere in una “terra di frontiera”». Le raffinerie e i cantieri navali dell’isola occupano una grossa percentuale dei 750.000 lavoratori migranti di Singapore, supervisionati dagli expat statunitensi, australiani ed europei. Nessun altro vede più questi spazi, fatta eccezione per le visite occasionali del reparto media.
 

Le forze di estrazione trasformano territorio e comunità


Mio nonno ha trascorso diversi anni nella riserva petrolifera di Miri nel Sarawak. Durante la mia infanzia, mia nonna ripeteva il nome della città Miri in continuazione. Nel melodioso dialetto tonale Hokkien Penang che lei parla, le due sillabe si allungano in un tono più alto – mii-ii-rii-ii. Le sillabe portano con loro le storie ormai perdute del tempo che i miei nonni hanno trascorso nei quartieri operai della Shell, dove anche si fosse solo fulminata una lampadina, come diceva mia nonna, l’azienda avrebbe mandato qualcuno a occuparsene. Studio fotografie degli affioramenti rocciosi risalenti della formazione di Miri nel Miocene superiore depositati dal delta del paleoalveo di Baram – le formazioni geologiche che hanno determinato il destino dell’insediamento costiero. Il sito petrolifero di Miri è rimasto in attività per 61 anni prima che fosse chiuso, con 625 pozzi e un volume totale di 80 milioni di barili di petrolio. I primi operai della riserva petrolifera venivano da Singapore. Cerco di immaginare mio nonno da giovane, la sua figura agile muoversi all’ombra del Grand Old Lady, il pozzo n.1 di Miri, ora niente di più che un monumento storico. So che ha lavorato per i giapponesi quando assunsero il controllo del sito petrolifero e poi per Shell quando la guerra finì. Non c’erano particolari differenze fra questi progetti imperialisti – solo la promessa di continuare a far fluire il petrolio. Parte del sito venne battezzato «Canada Hill», in onore dei canadesi che arrivarono fino a Miri a metà del ventesimo secolo per aiutare con la trivellazione.

Amitav Ghosh ha coniato il termine petrofiction per designare una forma narrativa che era già insolita – racconti e romanzi che avevano come tema principale il petrolio e l’industria petrolifera. Pochi autori ricercano il petrolio come topos narrativo perché, come scrive Ghosh, «il petrolio puzza. Puzza di inevitabili intrighi d’oltremare, puzza di preoccupante dipendenza dall’estero, puzza di incertezza economica, puzza di azioni militari costose e rischiose; puzza di migliaia di bambini e civili morti, puzza di tutte le domande inopportune che giacciono sepolte nelle loro tombe». Nella sua recensione di Città di sale di Ar-Rahman Munif 'Abd, Ghosh sottolinea quanto «sia stato investito per assicurare che l’Incontro col Petrolio rimanesse silenziato: dal lato statunitense (o occidentale), attraverso severi regimi di segretezza aziendale; dal lato arabo, attraverso la separazione fisica e demografica delle strutture petrolifere e dei lavoratori del settore dalla popolazione locale». Sostiene poi che «il territorio del petrolio è estremamente multilingue e quindi difficile da capire» e che «le esperienze associate al petrolio sono vissute all’interno di uno spazio che non corrisponde a nessuno spazio, un mondo che è intrinsecamente dislocato, eterogeneo e internazionale». Sembra appropriato qui pensare alle isole di Singapore, con le loro comunità rimosse e le loro terre forzatamente ridotte a mero valore economico. Per quanto riguarda gli operai del settore petrolifero, la pandemia ha esposto le loro condizioni di vita inaccettabili quando le infezioni si diffondevano senza sosta nei dormitori sovraffollati, isolati dal resto del Paese. Le forze di estrazione trasformano territorio e comunità.

Con cosa ci lasciano? Di quali forme culturali abbiamo bisogno per riconsiderare lo scontro col petrolio a Singapore? Inoltre, per elaborare un quesito posto da Jennifer Wenzel, se Singapore è una storia di successo scritta in larga parte dal petrolio, come troviamo una lente di lettura per quest’ultimo? La narrativa sul petrolio prodotta a Singapore, che affronta di petto sia il prodotto che l’industria, è rara e sfuggente proprio come aveva predetto Ghosh. Non ci sono lunghi poemi sulle raffinerie, o grandi romanzi sulle macchinazioni che sono servite per lanciare il mercato dei futures, e di certo nessun grande editore muore dalla voglia di lavorare con chi si affatica nei pericolosi labirinti di ciminiere e tubazioni. Il problema va al di là della semplice mancanza di accesso agli spazi fisici delle raffinerie e si estende alla riluttanza dello Stato di pubblicizzare la presenza dell’enorme industria fossile in favore del miraggio di una città giardino globale. Vedo sempre di più Singapore come un ovvio testo culturale, una petrofiction di per sé. La sua vera natura emerge di tanto in tanto, nel rombo delle macchine sportive lungo le strade incredibilmente pulite e ordinate e nell’odore del greggio che soffia sulla costa. L’anno 1961 vide sia l’apertura della prima raffineria dell’isola sia la prima edizione del Grand Prix di Singapore. L’annuale gara automobilistica continuò fino al 1973, dopo di che fu considerata troppo pericolosa per poter essere portata avanti. Il circuito includeva una vecchia strada coloniale alberata appena a nord della mia casa d’infanzia. Avevo inconsciamente guidato lungo quella strada dritta e piena di foglie innumerevoli volte. Fotografie in bianco e nero di quella gara inaugurale mostrano il primo presidente di Singapore, Yang di-Pertuan Negara Yusof Ishak, mentre viene portato in auto lungo il percorso dal presidente del Motor Club. È tutto in ghingheri col suo completo e i capelli perfettamente pettinati. Sua moglie, la ventottenne Noor Aishah, è vestita col sarong kebaya tradizionale mentre consegna il trofeo a Ian Barnwell, vincitore del primo Grand Prix di Singapore.


Il consorzio della Formula 1 ha riportato in essere la competizione nel 2008. Sponsorizzata da aziende filogovernative come Singtel e Singapore Airlines, la Singapore F1 notturna è petrofiction al suo meglio. Le sue qualità essenziali di velocità, prodezza tecnica, competizione, pericolo e brivido incorporano gli effetti e il potere del petrolio. È un incontro seduttivo e desiderabile, narrato attraverso il dramma dei piloti e delle squadre e costruito sulla finzione del rifornimento infinito, senza fondo. Mentre le raffinerie sono invisibili ai turisti e alla popolazione generale, la gara automobilistica notturna è impossibile da ignorare: il distretto commerciale centrale è chiuso, in giro ci sono centinaia di migliaia di turisti, il lamento acuto dei motori si sente fino in centro; e poi quello che la CNN chiama «un imperdibile finesettimana pieno di eventi: da concerti di cantanti famosi a livello mondiale a feste lussuose». Le vedute aeree del circuito illuminato, con 1.600 fari che simulano l’illuminazione diurna per i piloti, sono le arterie luminose del petrolio che vengono rese visibili nel misto di architettura coloniale e contemporanea del centro di Singapore. Nel 2019, 268.000 spettatori hanno assistito alla competizione nonostante il pericoloso livello di polveri che riempivano l’aria dovute agli incendi forestali nella vicina Indonesia.

Mio nonno fumava la pipa, giocava a cricket, e ascoltava il BBC World Service. Il suo piatto preferito era il “chicken stew”, un piatto inglese, una sorta di spezzatino di pollo un po’ più brodoso e con le spezie malesi: stecca di cannella bollita, noce moscata, pepe e anice stellato. La sua pelle era marrone scuro a causa delle ore passate fuori a lavorare e a fare sport. Portava occhiali neri con la montatura spessa e i capelli tutti ben pettinati all’indietro. Ho un video di lui mentre legge il giornale scandendo bene le sillabe e chiudendole sempre un po’. Mi ha lasciato una copia usurata di Imitazione di Cristo, un tagliacarte a forma di kris e un accendino Ronson con incise le sue iniziali fatto in Inghilterra. Provo a immaginarmelo con l’accendino, l’odore della pipa e le camicie inamidate, lavate a mano e stirate da mia nonna. È andato a Londra una volta nella sua vita, nei primi anni ‘60. Mi ricordo ancora il suo disgusto e lo shock palpabile, nonostante siano passati così tanti anni. Mi raccontò con sgomento che aveva visto delle persone così povere che tutto quello che potevano permettersi erano patate in un cartoccio senza pesce, che era la fonte proteica più economica dell’arcipelago in cui era cresciuto. Come poteva essere questo il cuore dell’Impero?

Echi della metropoli gettano le fondamenta del racconto distopico The Wheel, scritto dalla singaporiana Clara Chow. In un futuro prossimo Singapore è uno stato carcerario iper-sorvegliato, con le raffinerie circondate da rovine tossiche e inquinate, e la popolazione resa inspiegabilmente sterile. Chow è stata ispirata dall’installazione Ride of a Lifetime! dell’artista Chun Kai Feng, che trasforma la Singapore Flyer, la ruota panoramica di Singapore, un simbolo facilmente riconoscibile del turismo (e una copia del London Eye), in una forma di prigione di massima sicurezza. Chow inizia il racconto con questa premessa:
 

Ci sono ventotto capsule, ognuna delle dimensioni di un piccolo bus. Sono barili di petrolio glorificati, che rotolano mentre la ruota gigante gira – un trucchetto brillante di ingegneria, così non finiamo mai a testa in giù e non siamo nemmeno ridotti a criceti sul tapis roulant.
Ventotto persone in ogni capsula, muri di metallo che ci separano dentro delle celle. Di notte dormiamo in piedi legati a delle barelle verticali. La moquette è spelata in alcuni punti. Di giorno stiamo in piedi, passando dalle punte ai talloni, poi dai talloni alle punte, cercando di non toccare niente di luccicante, il metallo rinchiude la nostra carne. Le bruciature, quando ce le prendiamo, ci mettono tantissimo tempo a guarire… l’odore della carne bruciata va dall’odore di bistecca rosolata a quello del carbone.

 

Qui l’attrazione turistica, come nell’opera d’arte di Chun, è ridotta ai suoi costituenti, pezzi apparentemente senza senso, una ruota gigante che non va da nessuna parte, punteggiata di «barili di petrolio glorificati» – uno dei molti riferimenti al petrolio nel racconto. La ruota è in stasi nonostante sia costantemente in movimento – due facce della stessa medaglia, da una parte il progresso economico dall’altra la continua repressione dei diritti umani a Singapore. Il movimento è accostato alla prigionia, e l’occultamento statale delle lunghe pene detentive senza processo è messo a nudo attraverso questo panopticon al contrario, coi prigionieri sempre in vista.

Come primo racconto che Chow scrive per la sua raccolta desordio, The Wheel a volte sembra una collisione di tutte le contraddizioni, dei sussurri e delle cicatrici della storia recente di Singapore: incarcerazioni arbitrarie, torture dei dissidenti politici, apprensione per il corpo delle donne e la loro fertilità, la realizzazione di uno stato-tata che prende i bambini dalla Cina come parte di un accordo economico. Il racconto inizia con un’evasione improbabile e la creazione di una colonia utopica temporanea sull’isola Pulau Hantu, una fuga che alla fine si rivela essere parte di un elaborato reality show messo in atto dallo Stato: «Il signore delle mosche incontra La fattoria degli animali, con un finale sanguinoso. Una storia che mette in guardia dal comunismo e da qualsiasi tipo di rivoluzione». Mentre è possibile leggere le ansie e gli eccessi presenti nel racconto in numerosi modi, rimango colpita dai continui riferimenti al paesaggio post-industriale e post-petrolio delle isole che circondano la costa di questa Singapore immaginaria. Nell’universo del racconto c’è stato un catastrofico incidente industriale alla «raffineria petrolifera Clam a Pulau Bukom», che ha lasciato le isole vicine con suolo e acqua contaminati. Nel racconto si accenna che questo potrebbe anche aver contribuito alla sterilità della popolazione. Mentre i fuggitivi scappano dalla Singapore continentale per costruire una piccola comune, uno dei personaggi ricorda la Singapore dei giorni nostri:

 

Decenni fa, la gente andava a Pulau Hantu per sfuggire allo stress del continente sovrasviluppato. Prendevi un traghetto al molo sud della marina e lasciavi che la brezza ti spruzzasse addosso l’acqua del mare finché i vestiti leggeri si inzuppavano tutti mentre la barchina zigzagava come un moscerino fra le grandi navi cargo cinesi ancorate vicino alla costa che aspettavano di essere caricate o scaricate di container pieni di merce. Navi con nomi come 秋池 (stagno autunnale) 大球 (grande palla) e 新发 现 (nuova scoperta). Guardi la costa srotolarsi come in un fantascopio: i grattacieli che lasciano il passo alle case dei milionari a Sentosa Cove, e poi le strutture bianche fatte a mo’ di torta dell’industria chimica ed energetica a Jurong Island…
Un sentore di bitume, carburante, cherosene e diesel nell’aria mentre Pulau Bukom scivola sull’orizzonte – segno che ci si sta avvicinando a Hantu.

 

A differenza dei contorni definiti della petrofiction della Formula 1, questa analisi dettagliata del paesaggio marino e delle zone litorali del sud di Singapore ci permette di osservare e di fare esperienza dei suoi strati incongrui. Circuiti transnazionali di greggio nelle navi cargo cinesi, immobili di lusso costruiti senza dubbio in parte grazie all’estrazione, alla raffinazione e al commercio dei combustibili fossili, e le stesse raffinerie qui vengono correlati così come sono correlati nella vita reale. Anche se su un’isola, lontano dalla vista per la maggior parte del tempo, l’elemento rivelatore del petrolio è olfattivo – il «sentore di bitume, carburante, cherosene e diesel» nell’aria, nell’atmosfera, invisibile ma presente. Quando i fuggitivi vengono ricatturati dallo stato e rimessi nella loro prigione rotante, il racconto descrive i raccapriccianti fantasmi che perseguitano uno dei personaggi principali, Mae: quelli che sono stati impiccati dallo stato, quelli che erano danni collaterali nella loro fuga. È curioso, tuttavia, come queste isole siano infestate da un’altra serie di fantasmi: quelli implicati nell’attacco fallito alla raffineria della Shell a Pulau Bukom nel 1974, spacciato come il primo incontro di Singapore col terrorismo internazionale. Due membri dell’Armata Rossa Giapponese e due membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina cercarono di far esplodere la raffineria per assestare un colpo all’imperialismo occidentale e interrompere il rifornimento di petrolio da Singapore al Vietnam del Sud in solidarietà con le forze rivoluzionarie. Nel loro tentativo si fecero aiutare con l’inganno da un pescatore malese, e Chow nel racconto immagina le interazioni fra gli aspiranti bombaroli e il pescatore. Per fare due chiacchiere il pescatore gli racconta dei «Garoupa, ikan batang, ikan bawal hitam, toman . . . udang» che riempiono le acque. Grazie a questa conoscenza fanno un po’ amicizia, suggerendo altri modi anticoloniali di leggere quell’episodio storico, altri modi di vedere le acque costiere nel mezzo delle storie violente e represse del petrolio di Singapore.

 

Penso al pescatore malese e ai suoi passeggeri torvi e irrequieti ora, mentre vedo le luci di un peschereccio, come cirripedi fosforosi che scivolano verso la costa opposta.
Eccoli qui. Altri fantasmi.

 

Il futuro distopico di questa Singapore è infestato da azioni anticoloniali e antipetrolio e dai detriti delle sue ambizioni energetiche. Le raffinerie hanno chiuso i battenti, sono «rovine di acciaio, resti muti… deserto industriale». L’abbandono, per come il racconto lo descrive, è anch’esso una forma di reclamazione.

Come si sfugge alla petrofiction? A questi fantasmi del petrolio? Non so che cosa sto cercando, davvero, mentre scandaglio Internet per trovare i rapporti sulla sicurezza delle raffinerie petrolifere a Singapore e altrove. Non trovo nient’altro se non discorsetti e dichiarazioni aziendali delle varie compagnie sulla loro aderenza al Modern Slavery Act, la legge contro la schiavitù moderna passata al parlamento inglese. Una frase in particolare spicca sulle altre: il mantra di Exxonmobil per il programma di sicurezza è “Nessuno si fa male”. Mio nonno non ha mai parlato di quando faceva il meccanico per la Shell o per i giapponesi. È morto di enfisema quando avevo nove anni – che sia stato a causa degli anni passati a fumare la pipa o degli anni passati a lavorare con idrocarburi volatili nell’aria, non possiamo saperlo.

 



Le foto delle raffinerie di petrolio presenti nel testo sono di Ria Tan. La foto della “Garden City” di Singapore è di CEphoto, Uwe Aranas. La foto del Grand Prix di Singapore è di Dav123719.

Joanne Leow è una scrittrice, giornalista e poetessa. È una professoressa associata presso la Simon Fraser University e la sua raccolta di poesie Seas Move Away è stata pubblicata da Turnstone Press nel 2022. Questo articolo è stato pubblicato su Brick | Numero 107 Estate 2021 ► My Elusive Petrofictions | Traduzione di Erica Francia


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