Perché Metalhead è uno dei migliori episodi di Black Mirror 4

La serie di Charlie Brooker e le polemiche su uno degli episodi più interessanti della quarta stagione

Tra la valanga di accuse che la quarta stagione di Black Mirror sta ricevendo – tra cui alcune meravigliose come “La quarta stagione di Black Mirror non è una stagione di Black Mirror” (nonostante sia sempre dello stesso autore, Charlie Brooker) o anche il sempreverde “Netflix ha rovinato Black Mirror” (nonostante sia la stessa casa di produzione della terza, che ha dato vita ad episodi straordinari come San Junipero e Odio universale) – il bersaglio prescelto è spesso il quinto episodio Metalhead, la storia di una donna in fuga da uno spietato cane robot in un mondo post-apocalittico. In primis potremmo liberarci della questione bianco e nero. Sembra impossibile, ma nell’era della serialità globalizzata c’è davvero chi ancora si chiede “Ma perché il bianco e nero?” – come se il colore dell’immagine non fosse uno strumento come un altro in mano ad un autore, un dispositivo narrativo come lo è il formato dell’immagine stessa o il volto di un attore. “Perché Wes Anderson ha scelto un formato diverso per ogni parte di Grand Budapest Hotel?”, forse perché ogni formato è abbinato al periodo storico in cui il film è ambientato? “Perché Sydney Sibilia ha girato Smetto quando voglio con dei colori acidi?”, forse perché il film parla di allucinogeni? D’altra parte, basta un piccolo sforzo di riflessione per comprendere come mai per un episodio intitolato Metalhead si sia scelto un bianco e nero metallico. La scelta fotografica gelida e impersonale dell’episodio, illuminato da Aaron Morton – già direttore della fotografia di Black Mirror in Playtest / Giochi pericolosi e di quasi tutta la serie fantascientifica canadese Orphan Black –, è perfettamente coerente a una messa in scena che racconta la totale assenza di compassione delle macchine.
 

Molti dicono che Metalhead sia poco riuscito perché non spiega il contesto in cui si muove la storia. Eppure non era la stessa scelta di 15 million merits, uno degli episodi più apprezzati di tutta la serie?


Secondo molti poi, Metalhead è un episodio poco riuscito perché non spiega il contesto in cui si muove la storia. Eppure non era la stessa scelta di 15 million merits, il secondo episodio della prima stagione e tra i più apprezzati di tutta la serie? Ci ha mai spiegato, quell’episodio, com’è possibile che parte dell’umanità sia stata schiavizzata, rinchiusa all’interno di stanze minuscole con pareti composte da enormi schermi e costretta a vivere una vita a punti come se tutto fosse un grande videogioco? Eppure non abbiamo mai chiesto di più, ci siamo immersi all’interno del contesto narrativo accettandolo grazie a quei pochi elementi che ce lo rendono comprensibile. Perché i protagonisti pedalano tutto il giorno su delle ciclette lo possiamo soltanto intuire: producono energia per quel qualcuno (una società, uno stato forse?) che li ha costretti a vivere in quelle condizioni, e in cambio ricevono dei punti con cui alleviare le sofferenze della loro condizione di prigionieri. Ma non è tutto così chiaro: chi li ha imprigionati? Com’è accaduto? Perché? L’episodio non lo dice, e non ci interessa. Quello che racconta 15 Million Merits non è la riduzione degli uomini in cattività, ma la ricerca di uno spiraglio di umanità all’interno di un mondo asettico e anaffettivo.

Metalhead, che ribalta la claustrofobia della stanza schermata nell’agorafobia di ampi spazi brulli e inospitali, parla dello stesso sentimento. Mettiamoci l’anima in pace: l’episodio non spiega com’è accaduta l’apocalisse che ha dato vita al mondo in cui si muovono i personaggi, e non lo spiega perché non gli interessa. Il punto dell’episodio, concentrato nella potente inquadratura finale, è di nuovo la grandezza di quel sentimento che spinge l’uomo a combattere e a mettere a rischio la propria sopravvivenza per mantenere acceso un bagliore di umanità. Come siamo arrivati al contesto in cui prende vita questo sentimento non è importante; in più, la spiegazione di un avvenimento all’interno della trama è una scelta autoriale, e qui la scelta di non mostrarlo, oltre ad essere perfettamente coerente, non sottrae niente alla storia. Le basi d’altronde le abbiamo già (a sfavore di chi accusa l’episodio di non riflettere sul mondo contemporaneo): i robo-dogs della Boston Dynamics sono realtà da più di un decennio, e le loro abilità vengono affinate ogni anno di più per scopi militari. È così difficile immaginare un futuro distopico in cui questi cani robotici da battaglia, programmati per la guerra o per la sicurezza delle case, sfuggano di mano ai propri creatori umani? È così lontano dalla contemporaneità pensare che queste invenzioni possano un giorno non distinguere più il loro obbiettivo e siano talmente ben progettate per il loro scopo – uccidere – da risultare inarrestabili e impossibili da neutralizzare?
 

È così difficile immaginare un futuro distopico in cui questi cani robotici da battaglia, programmati per la guerra o per la sicurezza delle case, sfuggano di mano ai propri creatori umani?


Tutta la struttura dell’episodio, impostato come un survival horror ferreo e compatto, si regge sull’impossibilità dei protagonisti di far fronte alla spietata efficienza dei cani robot. Qui si innesta la critica tecnologica, la cui assenza alcuni, forse guardando fin troppo all’aspetto puramente narrativo della storia (la fuga della protagonista), hanno rimproverato agli autori. I cani robotici di Metalhead rappresentano la perfezione della tecnologica umana, l’estremo raffinamento della tecnica che crea oggetti perfetti e indistruttibili, in grado di svolgere le proprie funzioni al meglio e all’infinito. Ma se quella funzione fosse l’omicidio? La storia della fantascienza è piena di esempi di ribellione robotica, ma qui non si tratta il deragliamento o la presa di coscienza di un’intelligenza artificiale, come in 2001: Odissea nello spazio o in Blade Runner, e nemmeno il malfunzionamento di un robot, come l’ED-209 nelle sequenze iniziali di RoboCop, ma piuttosto l’eccessiva efficienza delle macchine. Metalhead racconta una versione amorale dell’Ordine 66 di Star Wars, privando le azioni dei robot del lato umano e quindi della volontà di agire nel male – in quel caso rappresentato dalla scelta del senatore Palpatine di usare i cloni contro i Jedi. Come nella drammatica sequenza di sterminio che segue l’Ordine 66, questo episodio di Black Mirror ci mette di fronte alla tragicità di una programmazione talmente perfetta da diventare inarrestabile, di una roboticità che trascende la propria derivazione umana e diventa funzione pura. Ecco, se proprio vogliamo immaginarci l’apocalisse di Metalhead, immaginiamocela come un Ordine 66 di cui noi stessi siamo i mandanti.


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