Perché bisogna sradicare gli ulivi

L'ennesimo comitato per il No blocca il Tap e l'Italia ancora una volta

Per allacciarsi alla rete elettrica, in Italia servono mediamente 124 giorni, secondo la World Bank. Un’infinità, se si considera che in Germania ne bastano 28, in Svizzera 39. Persino la Turchia fa meglio di noi: appena 63 giorni. Per questa ragione, non c’è da stupirsi se il progetto del Trans-Adriatic Pipeline, meglio conosciuto con l’acronimo di TAP, ha sperimentato innumerevoli ritardi. Non c’è da stupirsi, ma di sicuro c’è da indignarsi.

Il giorno dopo il via libera al progetto da parte della Corte costituzionale, che ha bocciato la norma-cavillo congegnata dalla Regione Puglia per ostacolare i lavori del TAP con la scusa del batterio della xylella, il TAR del Lazio ha accolto la richiesta di sospensiva, avanzata sempre dalla burocrazia regionale pugliese. Che il progetto del gasdotto sia di importanza strategica per l’Italia e per il resto d’Europa è chiaro: partirà dal confine tra Grecia e Turchia, collegandosi ad un altro gasdotto, e attraverserà la penisola ellenica, poi l’Albania, il mare, fino ad approdare in Puglia, dalle parti di Melendugno. Un paesino di neanche 10mila abitanti sulla costa, che sta caparbiamente bloccando un progetto volto a favorire l’efficienza energetica dei 503 milioni di abitanti dell’Unione Europea. Non c’è arroganza nel sostenere che un paesino di queste dimensioni non può ostacolare la realizzazione di un progetto transnazionale che l’Unione Europea giudica come «di interesse comune», riconoscendone il ruolo di «contributo chiave alla sicurezza energetica della UE». Gli investimenti ammontano a 5.6 miliardi in cinque anni – sì, il capitale conta, nel mondo occidentale.

Nonostante lungaggini burocratiche e dieci ricorsi su dieci vinti dal Tap, il popolo del no ad ogni costo non vuole darla vinta ad un progetto che ha dimostrato di avere tutte le carte in regola. Allora si raduna platealmente nelle campagne salentine durante i giorni di lavoro per protestare in modo inconsulto contro l’espianto di 211 olivi, che verrebbero ripiantati (provvisoriamente) a pochi chilometri. Peccato che la Puglia, di olivi, ne abbia 60 milioni. Dunque, ne verrebbero trasferiti temporaneamente lo 0.00037 percento del totale. Ciononostante, l’espianto più laborioso e delicato che la storia dell’umanità potrà mai annoverare, in cui ogni pianta è mappata, geolocalizzata ed etichettata per assicurarsi che venga ripiantata nello stesso esatto punto a lavori ultimati, sembra un’odissea. Se la protesta sembra già incomprensibile, lo diventa ancora di più quando vengono lanciate bombe carta contro l’albergo che ospita gli agenti impiegati a difendere gli operai dalla furia frenatrice. La protesta è un affronto, quando tutte le autorità competenti – in primo luogo, il Ministero dell’ambiente – si sono espresse a favore del progetto, a fronte delle dovute garanzie, dopo valutazioni di impatto trasparenti, consultabili su internet da chiunque. Sono state pubblicate relazioni tecniche di centinaia di pagine che, probabilmente, i manifestanti non hanno nemmeno letto. Altrimenti non protesterebbero contro un tubo di meno di un metro di diametro adagiato a 10 metri di profondità nel terreno per circa otto chilometri dalla spiaggia, prima di risalire in superficie, accusato di scempiare irreparabilmente le bellissime campagne pugliesi.

L’Italia è stanca dei NO TAV, dei NO TRIV, dei NO TAP, dei NO CETA. Opporsi ad un metanodotto che rispetta ogni limite di legge in fatto di progettazione, emissioni e sicurezza è semplicemente incivile


Il metano è una delle fonti di energia più pulite. E di energia ne abbiamo disperatamente bisogno, a meno di non credere alle belle storie delle energie rinnovabili per tutti (perché per adesso non esistono, e il motivo è alla base del Green Paradox) e della decrescita felice, che sarebbe tutt’altro che ridente. Nella regione dell’Ilva di Taranto, della centrale termoelettrica Enel di Brindisi (tra le più inquinanti d’Europa), e di ben 498 siti censiti come pericolosi dall’Arpa, l’agenzia per la protezione dell’ambiente, opporsi ad un metanodotto che rispetta ogni limite di legge in fatto di progettazione, emissioni e sicurezza è semplicemente incivile. Mentre su Facebook TAP Italia si affanna a rispondere civilmente a chi grida contro i poteri forti, la battaglia diventa ideologica e politica. «Evolvetevi, risparmiateci l’ ulivi (sic) e fate voi un corso di democrazia, educazione civica e ambientale sulle risorse rinnovabili» strilla qualcuno, che di sicuro non deve aver fatto nemmeno un corso di italiano di base. «Andate a rubare da qualche altra parte» è l’invito rivolto al capitale straniero (l’inglese BP al 20%, così come l’azerba SOCAR, la belga Fluxys, la spagnola Enagás, la svizzera Axpo, ma anche l’italiana Saipem).

L’Italia è stanca dei NO TAV, dei NO TRIV, dei NO TAP, dei NO CETA. Tra sindacati, movimenti e molotov, il Paese è ostaggio della minoranza dei rivoltosi, e perde occasioni, brucia opportunità, e paga anche penali. Sulla scena internazionale si dimostra inconcludente, inaffidabile, incapace di gestire opere pubbliche di rilievo. Il groviglio di competenze amministrative che ha dato prova di tutto il proprio vigore sulla vicenda del TAP è un deterrente micidiale per gli investimenti dall’estero, e spinge le imprese italiane alla delocalizzazione. Dai via libera revocati a distanza di tempo che sono un gran classico dell’Italia, dal Ponte sullo Stretto di Messina fino al McDonald’s in piazza Duomo a Firenze, l’arbitrarietà normativa delle carte bollate regna sovrana. Non riuscire a promuovere progetti di rilevanza strategica è la condanna dell’Italia. Per costruire il futuro servono anche treni ad alta velocità, gasdotti, pale eoliche, vaccini, termovalorizzatori, autostrade, una burocrazia efficiente e una buona dose di responsabilità. Per adesso, in Italia, questi elementi mancano tutti.


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