Per prendersi cura di qualcuno bisogna raccontare la sua storia
Famiglia e malattia mentale nella vita e nel romanzo Il figlio delle sorelle di Leonardo G. Luccone
Quei pochi giorni trascorsi in ospedale mi parvero un’eternità. Vuoi perché mai avrei creduto di arrivare fino a quel punto, vuoi a causa dell’insonnia: in un posto dove i pazienti dormivano per gran parte della giornata, venni trasportato in una dimensione nella quale le lancette dell’orologio si muovevano a una lentezza irreale. Per la felicità dei fisici, ma pure di Proust e di Bergson, ero del tutto consapevole della soggettività e dell’inesistenza del tempo. Ero ricoverato in un reparto psichiatrico per via di una crisi depressiva; e una volta fuori di lì, mi venne diagnosticato un disturbo bipolare. Pur convivendo da anni con certi problemi, la diagnosi fu destabilizzante, poiché avevo sempre creduto di soffrire di una malattia differente: io ero lo stesso, si capisce, ma fu come se una parte di me fosse irrimediabilmente cambiata. Questo ristretto ma a dir poco intenso momento della mia vita mi permise di osservare e capire da vicino la malattia mentale e le sue sfumature, dandomi addirittura modo di conoscere persone con le quali sono tuttora in contatto – in particolare con una, divenuta preziosa, direi quasi indispensabile.
F. mi disse: «Io sento le voci». Non ebbi il coraggio di chiedergli quali voci sentisse o a chi appartenessero, né volli indagare su cosa provasse a sentirsele rimbombare in testa
Oltre a lei, c’era un mio compagno di stanza, che qui chiamerò F. Appena arrivai, mentre stavo sistemando le mie cose, F. mi disse: «Io sento le voci». Abbastanza spiazzante, inutile negarlo. Non ebbi il coraggio di chiedergli quali voci sentisse o a chi appartenessero, né volli indagare su cosa provasse a sentirsele rimbombare in testa. Lui però continuò: «Se mi vedi fare dei versi strani, non ti preoccupare: è solo un modo per scacciarle via». Io mi limitai ad annuire; dopodiché lui si presentò con una stritolante stretta di mano. Da lì in poi, le nostre surreali conversazioni furono scandite dal suo gesticolare, e io mi ci abituai nel volgere di qualche ora. Ecco, non so se F. leggerà mai Il figlio delle sorelle: qualcosa mi dice di no. Perché nel vedermi (tentare di) leggere Cancroregina di Tommaso Landolfi confessò di non esser mai riuscito a finire un libro, tranne uno sulle moto da cross. So di certo però che il secondo romanzo di Leonardo G. Luccone mi ha fatto comprendere meglio, almeno in parte, cosa avveniva e avviene nella testa di F. e di altri come lui, dato che il protagonista della sua storia manifesta lo stesso disturbo. È sorprendente la delicatezza con cui Luccone delinea e tratta la malattia mentale: in mano a tanti suoi colleghi, il rischio di patetismo e di pleonastiche spiegazioni sulla straordinarietà del tutto sarebbe stato alto. Qui, al contrario, il tema viene inserito dentro la narrazione quale parte di una verità ad oggi impossibile da ignorare: qualcosa di normale, appunto, come normali sono le donne e gli uomini affetti da tali patologie. Né pazzi né schizzati, ma spesso costretti a nascondersi per sfuggire allo stigma e al pregiudizio.
Ma questo tema non monopolizza per intero il romanzo, anzi si rivela un espediente per il dipanarsi di un racconto familiare del nostro tempo, dove l’anello debole della catena è incarnato da un uomo attorno al quale, tolte delle sporadiche comparse maschili, ruotano soltanto donne. Il titolo un po’ lo suggerisce, così come lo scatto di copertina di Anke Zhuravleva, citazione di uno dei più indimenticabili fotogrammi bergmaniani: anche nel film Persona (1966) ci sono i disturbi mentali, il ricovero psichiatrico e una maternità indesiderata; elemento che, come vedremo, si sviluppa in maniera opposta ne Il figlio delle sorelle.
Nella vicenda si intersecano due piani spazio-temporali: uno a Roma tra la fine del ventesimo secolo e il principio del terzo millennio, l’altro tra Roma e la Sicilia nell’anno 2018. Nel primo, il protagonista e la moglie Rachele, non più giovanissimi, fanno di tutto per avere un figlio: il sesso tra loro diviene meccanico e non dà i risultati sperati. Sabrina, la loro figlia, nasce infine con la fecondazione assistita.
Ti sei presa la mia solitudine e l’hai usata contro di me. Ci ho messo dieci anni a farti entrare. Te lo dicevo che non dovevamo andare dai dottori, che dovevamo fregarcene, lasciare perdere, chiudere il negozio per tre o quattro mesi all’anno o chiuderlo del tutto. Avevamo la felicità a portata di mano. Dovevamo dare retta a tuo padre. E invece sei entrata dentro di me, mi hai chiuso dentro e te ne sei andata sbattendo la porta.
D’improvviso, le voci iniziano a palesarsi nelle orecchie e nella mente dell’uomo; così scappa dalla famiglia, dappoco consolidatasi con la nascita di Sabrina, figlia abbandonata e che lui non rivedrà per anni. Nel lungo periodo che separa il graduale ricongiungimento tra padre e figlia – la base del secondo piano narrativo –, lui va in California tentando di ritrovare se stesso, e lì conosce Gilda, sua futura compagna e madre di Carlotta, in seguito amica – e poi qualcosa di più – di Sabrina. Sabrina è senza dubbio il perno sul quale viene costruita una sostanziale parte del testo, a partire dalla sua volontà di riavvicinarsi al padre a piccoli passi per capire cosa lo abbia spinto a fuggire, indagandone poi a suo modo la psiche e stabilendo un contatto privilegiato con le sue voci interiori: è come se lei volesse incontrarle, conscia del loro indissolubile legame col suo genitore imperfetto ma parimenti desideroso di riabbracciare la figlia e di tornare a essere un padre a tutti gli effetti, nonostante le tappe della crescita e della maturazione di Sabrina siano per lui irrecuperabili.
L’allontanamento e la fuga di questo padre e marito sono giustificabili dalla paura, da un senso di inadeguatezza, dall’inspiegabile male che invero può sorgere a causa di molteplici fattori così come non sorgere affatto. Come scrive Vittorio Lingiardi in Diagnosi e destino (Einaudi, 2018):
Se la medicina è una scienza inesatta, la psichiatria lo è ancora di più. Le cause dei disturbi mentali e le possibilità di prevederne corso e decorso, sono poco conosciute. Quando si tratta di fare ipotesi eziologiche, la formula bio-psico-sociale va per la maggiore: un po’ di genetica, un po’ di anatomia e di neurochimica; un po’ di relazioni familiari e di attaccamento, un po’ di contesto socioeconomico.
Leggendo le parole dello psichiatra-psicanalista, il lettore potrebbe tentare d’individuare le cause del disturbo del personaggio, specie quando si fa riferimento alle «relazioni familiari e di attaccamento». Perché la famiglia è l’altro tema-cardine del testo; un testo scritto da un lato per sottrazione, con lo show a prevalere fortemente sul tell, dove il non-detto gioca un ruolo determinante anche e soprattutto nei dialoghi, magistralmente orchestrati e talmente poco artificiosi da farci immaginare la scena davanti agli occhi, con Sabrina e il padre a conversare bevendo un Moscow Mule.
«Le hai sentite pure stanotte?».
«Sì».
«Chi parlava?».
«Non lo so».
«Che voce aveva?».
«Di donna».
«Che diceva?».
«Non lo so. Cose brutte».
«Che cosa?».
«Che nella testa ho solo cose brutte».
«Te l’ho detto che dobbiamo dare un ordine alle parole».
«Quando me l’hai detto?».
«L’altra volta, papà. Dobbiamo rimettere in ordine le parole».
Il figlio delle sorelle, nel suo essere un libro terminabile in un paio di sessioni di lettura, un po’ per la brevità dei capitoli e un po’ per l’alto coinvolgimento emotivo, potrebbe sembrarci un’opera semplice – e parzialmente lo è, ed è tutto men che un difetto. Nondimeno, dietro la semplicità si cela una narrazione essenziale, con dei vuoti da riempire, posta all’interno di un intreccio complesso e architettato in modo magistrale. I suddetti vuoti sono lasciati all’interazione tra i personaggi, che entrano con rapidità sotto la pelle del lettore: ci vengono presentati attraverso le loro piccole grandi azioni e i loro pensieri, senza indugiare in descrizioni o scivolare in paragrafi didascalici. Pure questo aspetto potrebbe trarci in inganno: è senz’altro vero che un’opera del genere appaia lontana dalla narrativa nostrana, ma non è in fondo anche un valore la capacità di emanciparsi dal panorama culturale in cui si è immersi?
Ovvio, sono innegabili i debiti con Carver e Cheever – Luccone ha peraltro tradotto il secondo –, ma pure con Richard Yates per la rappresentazione del nucleo familiare, in questo caso disgregato, liquido, anti-tradizionale. Ma è anche impossibile non pensare, benché l’accostamento possa sembrare bizzarro, al Lessico famigliare di Natalia Ginzburg: Il figlio delle sorelle potrebbe esserne un contraltare aggiornato all’oggi privo del risvolto autobiografico – per ciò che ci è dato sapere.
In più, ad avvicinare il libro al nostro paese è la prosa di Luccone, abile nel personalizzare le cifre stilistiche d’oltreoceano e nel contempo libero da ogni cedimento alla non-lingua di alcuni traduttori, della quale parecchi autori coevi rimangono vittime: il suo è invece uno stile che valorizza l’italiano con un concentrato di ricchezza e asciuttezza, nonché mai banalmente punteggiato, come del resto lo scrittore e editor ci ha insegnato col suo Questione di virgole (Laterza, 2018).
Sono innegabili i debiti con Carver, Cheever e pure con Richard Yates per la rappresentazione del nucleo familiare, in questo caso disgregato, liquido, anti-tradizionale
L’opera seconda di Luccone è un libro assolutamente da leggere, innanzitutto per chi volesse far pace col romanzo italiano contemporaneo, per tutti coloro che si sono fatti fregare dai troppi prodotti mid-cult, per dirla con Dwight Macdonald, di cui le librerie sono ahimè piene. Il figlio delle sorelle è uno dei romanzi più originali e interessanti usciti in Italia negli ultimi mesi – ma facciamo pure negli ultimi anni –, e dimostra la bravura a tutto tondo di un autore capace di prendersi cura delle parole degli altri riuscendo nell’impresa di fare altrettanto con le sue, qui necessarie come non mai.
Per prendersi cura di qualcuno bisogna raccontare la sua storia, anche solo un pezzettino. Molti credono che le storie debbano essere dette dall’inizio alla fine, in bella copia, nel modo più preciso possibile. Sarà che sono negato – lo ero perfino a nel raccontare le favole a Sabrina –, perché mi perdo sempre qualcosa, soprattutto perché non riesco a rinunciare a niente: penso che il tempo vada sparpagliato su un lenzuolo lunghissimo (non infinito, d’accordo, e nemmeno estremamente lungo – a dieci piazze) e che ci possano essere centinaia di divagazioni. Tanto quelle che contano sono le dominanti, esplicite o no.
Tutti gli F. d’Italia e della Terra naturalmente ringraziano.
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