Pensare il mondo oltre l’Antropocene

Chtulhucene. Sopravvivere su un pianeta infetto di Donna Haraway, una proposta di fuga dalla prospettiva antropocentrica

È ancora possibile raccontarci una storia diversa dall’Antropocene o dal Capitalocene? È possibile entrare in scena non come primi protagonisti, ma reinventarci uomini «responso-abili», come scrive la Haraway nel suo ultimo libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto tradotto da Nero edizioni (2019), capaci di «con-patire» e «con-dividere» la Terra per quella che è – un reticolo multispecie, un hummus di creature striscianti, fangose, unite? Se non vogliamo abbandonarci alla disfatta dei nostri deliri imperialisti, la risposta non può che essere positiva. Imparare a «mondeggiare», creare connessioni vivaci, salti tra specie, unire nuovi link, è una proposta per sciogliere l’immaginario comunemente accettato dell’uomo, star di narrazioni che lo separano dalla natura.

Arduo però credersi “umani-poco-umani”, mischiati e infetti. Nell’economia dello spreco e della distruzione ci preferiamo incantati dalla nostra immagine, piazzati accanto a esseri che consideriamo vivi quanto gli oggetti che arredano la casa da cui adesso scrivo. La frigida intelligenza dell’ultimo modello Sapiens Ultra System ci ha fossilizzati in un’integrità ottusa: incapaci di pensare ancora come entità dinamiche in collaborazioni attive interspecie, ci preoccupiamo non oltre l’orizzonte del comune quotidiano, fatto tendenzialmente di dispositivi retroilluminati e persone in polivinilcloruro. La fantasia si è addormentata. Da questa prospettiva, non suonano folli le entusiaste proposte geo-ingegneristiche che incoraggiano a fare di più: perché non stendere su tutto il Sahara dei teli bianchi e aumentare così l’effetto albedo? Oppure è meglio fare un aerosol di microparticelle all’atmosfera con jumbo jet militari? Qualcuno spari della neve finta su quella neve vera! Ubriachi di un positivismo andato a male, alcune delle soluzioni più plausibili per risolvere la crisi planetaria paiono tenerci aggrappati con le unghie alla stessa mentalità che ha generato i problemi nei quali adesso affoghiamo.
 

Incentivare racconti stratificati e sotterranei, simulare gesti cthulhucenici, serve ad attribuire al non umano stati mentali come i nostri: ricreare memorie condivise


«È importante capire quali idee usiamo per pensare altre idee», metteva in guardia l’etnografa Marilyn Strathern, stessa frase che la Haraway ripete in continuazione, leitmotiv che incoraggia a riemergere dalla crisi dell’immaginazione per reimparare ad osservare e accettare le contingenze con mondi inaspettati e tentacolari. Fare un bel tuffo fuori dalla nostra storia non è rinnegare totalmente i modelli presenti della memoria per contemplare un esotismo frivolo da annoiati colonialisti New Age con Siddharta di Hesse sotto il braccio e l’incenso acceso in casa. Incentivare racconti stratificati e sotterranei, simulare gesti cthulhucenici, serve ad attribuire al non umano stati mentali come i nostri: ricreare memorie condivise. Cthulhucene è infatti «un posto caldo che accoglie tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili» e ci invita a partecipare alla viscosità di racconti che tengono in contatto le biodiversità della terra, a patire emozioni meno antropomorfe che generano a loro volta sentimenti oltre-umani. Non è delirio fantascientifico, parabola di un Eden a fiori sotto le note di Imagine di John Lennon, ma l’input per un metodo progettuale che segue le direttive del pensiero «simpoietico»: una spinta verso la riconquista di un valore oggettivo riconoscibile.

In Da cosa nasce cosa (1992) l’inventore Bruno Murari scriveva: «Cosa sono i valori oggettivi? Sono valori riconosciuti da tutti come tali. Per esempio, se io affermo che mescolando il color giallo limone con il blu turchese si ottiene il verde, sia che si usino i colori a tempera, a olio o acrilici, oppure pennarelli, e pastelli, io affermo un valore oggettivo». In Chtulhucene il nostro macro valore oggettivo come «con-partecipi» della narrazione terrestre è imparare a morire e vivere bene, umani e non umani, pastelli o pennarelli, animali, batteri, piante, tutti. Per Donna Haraway imparare a «ri-vivere» insieme un pianeta danneggiato è anche «prendere le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie. […] Generate parentele! Non bambini!» (slogan ripreso anche dal Manifesto Xenofemmista del 2015) non significa negare la nascita ma disincentivarla, incoraggiando complessi che non si basano sul rapporto di consanguineità ma su sistemi di solidarietà coevolutiva. Prendere in considerazione un quadro concettuale simile vuol dire anche spingere il tasto rosso del tapis roulant capitalistico sopra cui corriamo sudati fradici, non cadere nel peccato di perseverare nella crescita illimitata in un sistemas-finito”. Sostanzialmente evitare di arrivare a undici miliardi di persone entro la fine del secolo e scampare all’infarto collettivo.

 

Generate parentele! Non bambini!



Le fabulazioni filamentose e speculative della Haraway si muovono in storie di “gioco mondo” di pratiche indigene, serpeggiano tra collaborazioni di piccioni intelligenti, in mezzo a improbabili alleanze tra specie vulnerabili, fuori e dentro tessuti stratificati di interregni che mancano di confini spaziali o temporali. Sono esempi di storie passate e in divenire che scappano dall’autocommiserazione e dal pigro fatalismo dell’Antropocene, dal gong nauseabondo dell’“ormai è troppo tardi”: incoraggiano invece all’ «humusità», alla tentacolarità dove l’eccezionalismo umano è escluso perché, solo, soffre di pessima recitazione. Scrive la visionaria Ursula Le Guin in The Author of Acacia Seeds (1974): «“Ti rendi conto”, dirà il filolinguista al critico di estetica, “che tanti anni fa non sapevamo neanche leggere in Melanzana?”. E sorrideranno della nostra ignoranza, mentre zaino in spalla scaleranno una montagna per leggere i versi dei licheni appena decifrati sulla parete settentrionale del Pikes Peak».

Se vogliamo davvero l’eco-giustizia multispecie non abbiamo più tempo per affondare nell’utopia solipsista e nell’angoscia impotente. Con un po’ di coraggio, per stimolare dei comportamenti che ci sveglino dall’indifferenza, dalla diffusa ingratitudine per la vita, possiamo imparare altri linguaggi e assumere un atteggiamento che guarda a una complessità piena di analogie, melanzane parlanti e interpolazioni che non ci danno per spacciati. Siamo vivi, e se c’è anche la minima possibilità di smettere di trattare il pianeta come un contesto, non dovremmo esitare a provarla.


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