Parigi distopia presente
Sulle tracce della Parigi contemporanea con il fumettista Enrico Pinto, autore de Lo schermo bianco
L’uscita della metro Saint Paul sbuca tra un’edicola e un carosello, corcondata dalle sedie dei caffè del IVe arrondissement e dal traffico di Rue de Rivoli. Attraversando l’incrocio, il via vai frenetico della folla che popola il Marais nell’ora di punta sfuma lentamente alle spalle. Subito dietro l’angolo, mossi i primi passi in Rue du Roi de Sicile, spunta l’insegna blu notte con la scritta giallo crema: Librairie italienne Tour de Babel. Le vetrate spaziose, da fuori si intravedono le luci e le mensole con i libri. La vecchia porta fa un po’ di resistenza, bisogna aprirla con convinzione. “Permesso!”. Patrizia, la proprietaria, si nasconde dietro al computer, sembra quasi che non voglia essere disturbata oggi, nel giorno del suo compleanno. “Tanti auguri, Patri! Dov’è il vino?”. Patrizia non lo sa, ma per l’occasione ci sarà una festicciola a sorpresa dopo la presentazione di stasera. Metto giù zaino e cappotto, nel silenzio educato che avvolge la libreria. È da sei anni che frequento questo posto, mi fa sentire chez moi, come direbbero i francesi. Sarà che in bella vista ci sono testi a cui sono molto affezionata, come Le galline pensierose di Malerba o Venezia, forse di Zanzotto, nella sua traduzione francese, saranno il pavimento in cotto e le travi a vista, o ancora gli scaffali colorati che mi ricordano la biblioteca del mio paese in Italia. Col suo fascino démodé, La Tour de Babel mi ha conquistata dal primo momento. È un luogo autentico, perché desidera condividere un’immagine della letteratura e della cultura italiana al riparo dai cliché, dove è possibile trovare pubblicazioni selezionate con impegno e cura, rispettose sia del gusto del lettore italiano che di quello francese.
Stasera in libreria ci sarà la presentazione de Lo schermo bianco (Coconino Press), il fumetto d’esordio di Enrico Pinto, autore e architetto, italiano che vive a Parigi, come me. E che il mondo sia piccolo, si sa. Che Parigi sia un paesotto rispetto ad altre grandi città, anche questo è noto. Quello che tuttavia non sapevo è che Enrico abita a qualche minuto di distanza da me, in zona Gambetta, nel XXe arrondissement. Lì, tra i caffè del quartiere, c’è l’Aux Ours, un bar animato che entrambi conosciamo e frequentiamo e che scegliamo per sederci a parlare del suo libro.
Lo schermo bianco racconta la storia di Salvo, giovane architetto italiano immigrato con la passione per il disegno, e di Sistine, sua eccentrica collega e compagna, che fa parte di un gruppo di dissidenti antigovernativi. Un gruppo che, in segno di protesta contro le politiche reazionarie della Presidente della Repubblica in carica, alza al cielo lo schermo bianco del cellulare che con un’applicazione nascosta registra le violenze della polizia. La Parigi che fa da sfondo alla vicenda è una città sempre più militarizzata e violenta, colpita da una serie di attacchi terroristici, e divisa tra politiche nazionaliste e xenofobe e atti di insurrezione.
Lo schermo bianco racconta la storia di Salvo, architetto con la passione per il disegno, e di Sistine, collega e compagna che fa parte di un gruppo di dissidenti
Un’ambientazione in cui, per chi vive nella capitale francese da qualche anno, è facile riconoscersi: dalle proteste dei Gilet gialli agli scioperi dei trasporti pubblici fino alle manifestazioni contro la riforma delle pensioni e alle più recenti émeutes («rivolte») delle banlieue a seguito della morte di Nahel Merzouk, diciassettenne ucciso a Nanterre lo scorso 27 giugno da un agente di polizia ad un posto di blocco. Una città che sembra costantemente sul punto di esplodere, e che ora attende con la stessa tensione la contestata edizione dei Giochi olimpici previsti per il 2024.
Il quadro storico, politico e sociale in cui ambienti il racconto de Lo schermo bianco non è poi così distante da ciò che vediamo e sentiamo ogni giorno, rispecchia in modo piuttosto fedele la realtà contemporanea. In che misura ti ha ispirato l’attualità?
In effetti, è vero: per una persona che abita a Parigi e legge il mio fumetto, il termine “distopico” o “futuro” fa quasi sorridere. Mi sono ispirato moltissimo alla realtà che viviamo tutti i giorni, a volte cambiandola, estremizzandola. Si tratta di piccole forzature che fungono più che altro da espedienti narrativi per rendere la storia più estrema in tutti i sensi, per creare delle dinamiche che portano i personaggi a fare scelte forti o a trovarsi in situazioni assurde. Come Sistine che sceglie di abbandonare il suo lavoro o Salvo che finisce al commissariato dopo essere stato coinvolto in uno scontro con la polizia. Ecco, forse un lettore italiano può percepire come molto distante la dimensione della protesta presente nel fumetto, perché in Italia si protesta pochissimo, ma a Parigi azioni di questo tipo, con le persone che scendono in strada a manifestare, sono all’ordine del giorno.
Una cosa della società francese che di sicuro mi ha ispirato è proprio la voglia di farsi rispettare e di far rispettare i propri diritti: purtroppo a noi italiani può sembrare una cosa fantascientifica e, guarda caso, all’inizio ero partito dall’idea di fare un fumetto di fantascienza, molto più distopico e lontano dalla realtà, ambientato in un futuro dove anche la realtà virtuale giocava un ruolo più importante nella trama. Piano piano, però, mentre disegnavo, mi sono reso conto che la tecnologia era molto più veloce di me, penso a Facebook e al Metaverso, quindi mi è sembrato più interessante parlare del presente. Prima c’erano riferimenti più espliciti all’identità della presidente di destra che viene evocata nel libro, che aveva un nome simile a quello di Marine Le Pen. Poi, con la casa editrice, abbiamo lavorato per creare una realtà alternativa, facendo in modo che il contesto politico risultasse più astratto, quasi etereo. Se ci pensi, la realtà politica del fumetto è sì importante, ma resta sempre in secondo piano rispetto alla storia: ci sono per lo più slogan o eventi precisi che servono a mettere in moto la narrazione, come il referendum popolare voluto appunto dalla presidente, di cui però non sappiamo molto, se non che punta ad una maggiore violenza della polizia, alla militarizzazione della città e a un controllo sempre maggiore dei cittadini da parte dello stato.
Parlando del movimento di protesta: come ti è venuta l’idea dello schermo bianco? Hai voluto evocare un’immagine in particolare o è il frutto di varie associazioni che hanno a che vedere con la tecnologia o con le innumerevoli manif, le manifestazioni di piazza a cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Francia?
Proprio oggi mi chiedevo in bici “ma come ti è venuta l’idea dello schermo bianco?”. In realtà non so dirti esattamente come ha preso piede nella storia lo schermo bianco e come poi è diventato addirittura il titolo del libro, sia perché ho una pessima memoria, sia perché le idee si sono aggregate in modo piuttosto naturale – quasi insondabile, a dire il vero. C’era sicuramente l’idea del personaggio che faceva ritratti in metropolitana, tant’è che pensavo più a “ritratti dal sottosuolo” piuttosto che all’idea dello schermo bianco, qualcosa che richiamasse la dimensione sotterranea della città, il ventre di Parigi. Ripensandoci però devo esser stato influenzato dalle centinaia di immagini delle manifestazioni che consumavo ogni giorno sullo schermo del telefono e alle quali a un certo punto ho iniziato a partecipare: da un lato perché, stando qui, si è risvegliato il mio interesse per la politica, dall’altro, molto più triviale, per avere delle foto di riferimento delle proteste. Ma soprattutto mi è servito per capire questa rabbia che pervade la Francia e in particolare le persone della nostra età, oltre che l’atmosfera di violenza esasperata da parte della polizia anche contro chi manifesta pacificamente, una cosa che mi ha colpito molto e che spero di aver restituito nel libro.
L’autore Enrico Pinto davanti alla Bibliothèque nationale de France, che ha ispirato l’illustrazione di copertina del suo fumetto Lo schermo bianco / Fotografia di Fulvio Risuleo
L’idea dello schermo era quindi importante perché simbolo non solo della nostra generazione, ma del nostro modo di partecipare alla vita pubblica, di affacciarci alla politica, poi si è caricato anche di una funzione tecnologica, legata all’importanza della realtà virtuale attraverso cui i manifestanti condividono le immagini catturate durante le proteste. Nel fumetto, Salvo è molto scettico nei confronti del movimento dello Schermo bianco, che vede come un misto fra Gilet gialli e V per Vendetta: non capisce bene la sua identità, poi man mano scopre – e noi con lui – che è l’unico strumento per documentare la violenza delle forze armate. In questo, mi ha ispirato il documentario Carlo Giuliani, ragazzo sugli scontri del G8 di Genova, in cui si vedevano per la prima volta delle persone comuni riprendere tutto con le loro telecamere. Un altro spunto me l’ha dato la piattaforma di un collettivo multidisciplinare, che si chiama Forensic Architecture e che fondamentalmente fa la stessa cosa dello Schermo bianco, raccoglie tutti i video e le foto di determinati eventi o manifestazioni – come l’esplosione a Beirut o, più di recente, il bombardamento di un ospedale in Palestina – per ricostruire una mappa 3D di cosa è successo davvero.
Sono le 19:30, la libreria comincia a riempirsi. “Quanti ritals ci sono?”, chiede ironicamente Massimo Colella, direttore editoriale della Revue dessinée, che conversa con Enrico – ritals è un termine dell’argot popolare con cui venivano designati in tono dispregiativo i lavoratori italiani immigrati nel dopoguerra. E di ritals, questa sera, ce ne sono tanti. Dagli amici e colleghi di Enrico ai clienti fedeli della libreria, e non solo. C’è qualche francese tra il pubblico, ma la presentazione si fa in italiano, è una decisione che arriva spontanea. Dietro la cassa, Patrizia mi guarda: “ma quanta gente c’è?! Non avremo mai bicchieri per tutti”, la sua prima preoccupazione riguarda il piccolo brindisi che, come da rito, seguirà l’incontro. Molti ragazzi, studenti, lavoratori più o meno giovani, quasi tutti uniti dalla stessa condizione di expat a Parigi. Gli sguardi sono curiosi, seguono con attenzione la presentazione, il pubblico sorride ascoltando le parole di Enrico, i suoi calchi dal francese – tutti noi ci immedesiamo in ciò che racconta e come lo racconta.
Abiti a Parigi da qualche anno ormai. In che modo la tua personale esperienza in questa città ha influenzato la scrittura e la rappresentazione figurativa della storia?
Se ci penso, Salvo è un po’ la fotografia di me stesso appena arrivato qui: non parlavo ancora bene francese, mi sentivo un po’ escluso rispetto a certi gruppi che il francese lo parlavano già, non riuscivo bene a integrarmi. Ovviamente la mia esperienza è stata molto meno drammatica di quella di Salvo, però di sicuro deve esserci qualcosa che ho assorbito nei primi mesi in cui mi trovavo a Parigi, o comunque nelle mie precedenti esperienze all’estero. Prima di venire a Parigi ero a Berlino, dove sono rimasto pochissimi mesi, perché sono quasi scappato dall’ufficio in cui lavoravo, che poi è un po’ l’ufficio di cui parlo nel fumetto.
Volevo parlare della condizione di un architetto giovane che si trova a lavorare in un contesto internazionale che non si pone troppe domande sulla dimensione etica del suo lavoro
Il personaggio di Auguste, che trovo uno dei più divertenti, così cinico e tragicomico, è ispirato a uno dei miei ex capi; il licenziamento di Sistine ricorda quello di un mio ex collega di Berlino, che è partito dallo studio in modo un po’ rocambolesco. Tutte queste esperienze personali si ritrovano condensate, più o meno volontariamente, in alcuni episodi del fumetto. Si sono incastrate bene perché volevo parlare della condizione di un architetto giovane che si trova a lavorare in un contesto internazionale, su progetti di cui spesso non condivide davvero i principi etici e morali – progetti a Dubai o in paesi che non sono di certo famosi per le loro politiche umanitarie – e che però all’inizio non si pone troppe domande sulla dimensione etica del suo lavoro. Il ruolo dell’architetto invece è molto sociale: il settore della costruzione produce circa il 40% della CO2 emessa nell’atmosfera, quindi è importantissimo pensare di cambiare il modo in cui costruiamo e in cui abitiamo.
Questa è effettivamente una delle tematiche principali del fumetto, esemplificata dal progetto “Les Halles de la Biodiversité” che ho immaginato nel cuore di Parigi, alle Halles, e che prevede di separare la natura dall’architettura, smascherando i falsi miti della biodiversità e il greenwashing, il verde in città come pura strategia di marketing. Oltre alle Halles di Parigi ho voluto raccontare uno dei miei luoghi preferiti, cioè la BnF – la Bibliothèque nationale de France –, che a un certo punto prende molto rilievo nella storia fino a diventarne un po’ protagonista.
È una visione, quella che rappresenti, che sa riproporre le sensazioni, i presentimenti di chi abita qui. Con l’episodio dell’esplosione in metro hai messo nero su bianco una delle mie paure inconsce quotidiane. Leggendolo, mi sono subito chiesta se fosse così anche per il suo autore.
Tutto è nato da una frase che mi ha detto un’amica e che ho riportato nel fumetto: «Immagina adesso di morire in un attentato» – eravamo in metropolitana – «sarebbe il modo più contemporaneo di morire». Questo è successo nel 2019, ed è da quel momento che ho iniziato a pensarci, anche se questa paura alleggia sempre nell’aria. Parigi vive con gli spettri degli attentati del 2015, che hanno effettivamente cambiato il modo in cui si vive la città: quando sei al ristorante o seduto in una terrasse, quando vai al cinema o a un concerto, hai sempre questo piccolo, insistente pensiero in qualche angolo del cervello. Per questo mi aveva colpito quella frase in metropolitana, perché aveva espresso qualcosa che, di solito, per paura o quasi per superstizione, non si dice. E qui sta anche il bello del fumetto, perché puoi dare voce e forma a qualcosa che resta nascosto nell’inconscio.
Inizialmente il fumetto si apriva sulla schermata bianca del FATAL ERROR, un banale errore di AutoCAD che spesso fa bestemmiare noi architetti. Mi sono accorto tuttavia che c’era bisogno di un prologo, di un pretesto narrativo per innescare l’azione e renderla coinvolgente: in questo senso, l’attentato come elemento thriller mi sembrava funzionare, proprio perché partiva da una riflessione, da una paura personale e autentica ma condivisibile per chi abita a Parigi o in un’altra città europea. Dobbiamo purtroppo farci i conti, con questa visione militarizzata della città: la viviamo spesso, quando dobbiamo visitare un museo, quando dobbiamo depersonalizzarci lasciando i nostri effetti personali in una vaschetta. Così, nel fumetto, ho immaginato che ci fossero i controlli anche in metropolitana, in un ipotetico step successivo della situazione attuale della città.
Sul fatto che Enrico abbia saputo restituire le sensazioni di chi vive Parigi nel quotidiano, senza toni drammatici né sensazionalismi, non ci sono dubbi. Vedendoli annuire mentre ascoltano le sue parole, penso a tutti questi giovani presenti che come lui, come me, sono lontani da casa, e mi chiedo se anche loro, in fondo, temono di rivivere l’incubo degli attentati, aspettano delle nuove proteste, l’ennesima manifestazione, l’incremento dei controlli. Penso sia così normale, per noi esuli, ricevere le telefonate allarmate da parte dei familiari. È così normale spiegare che no, abitiamo in un quartiere tranquillo. È così normale scherzarci su, ironizzare sul fatto che, di certo, “qui non ci si annoia”. È normale per me, lo è per tutte queste persone che continuano ad affollarsi in libreria, mentre altre cercano di capire da fuori le vetrate se c’è ancora spazio per entrare, fanno cenno agli amici dentro, più fortunati di loro – fuori, infatti, fa un freddo cane.
Il tuo fumetto ci racconta diversi spaccati di contemporaneità, di una società che muta, con i suoi traumi, le sue incertezze, le sue speranze. Che spazio occupano questi sentimenti nel libro?
Una delle sfide più difficili è stata proprio quella di scrivere un fumetto su un tema così pesante in modo più o meno leggero, di trovare dell’ottimismo e dell’humor anche in situazioni molto complicate. Il direttore editoriale di Coconino Press, Giovanni Ferrara, mi ha seguito da vicino in questo: la storia è piuttosto complessa, per cui non è stato semplice evitare di sfociare nel drammatico mantenendo un tono sarcastico, a tratti anche divertente. Spero di esserci riuscito con l’aiuto di alcuni personaggi, come quello di Constantin, che è la spalla comica del protagonista e che incarna in modo certo più cinico, ma sempre disincantato e positivo, ciò che succede – basti pensare al modo in cui racconta a Salvo le trasformazioni della città e del quartiere delle Halles. Il movimento dello Schermo bianco, nonostante le sue contraddizioni, incarna dei valori positivi: la speranza del cambiamento, della rivoluzione. La stessa Sistine, malgrado la sua parte d’ombra, resta comunque un personaggio luminoso, e infatti spinge il protagonista a migliorarsi, a essere più attivo politicamente, a uscire dalla sua inerzia.
Il movimento dello Schermo bianco, nonostante le sue contraddizioni, incarna dei valori positivi: la speranza del cambiamento, della rivoluzione
Sarebbe bello se ci fossero più persone come Sistine nel mondo, magari non così folli, non così estreme, neanche necessariamente delle persone reali, ma dei personaggi, delle voci che possano parlare alle persone e a far vedere loro il mondo da un’altra prospettiva. Magari, seguendo il suo esempio, ci sarà qualche altra architetta che abbandonerà la ricerca di prestigio per lavorare in studi più piccoli e più sostenibili, senza greenwashing. Sono tutte possibili chiavi di lettura e spunti di riflessione, ma non voglio di certo dare une lezione con il mio fumetto, spero semplicemente che lettori e lettrici possano rivedersi in certe situazioni o in certi personaggi che possano risvegliare in loro l’interesse per dei temi attuali.
Per i disegni de Lo schermo bianco hai scelto una certa irrequietezza del tratto e il bianco e nero: sono l'espressione del tuo stile oppure la volontà di raccontare la storia in un modo particolare?
Avevo iniziato il fumetto su uno schermo, perché per assurdo mi sono rimesso a disegnare grazie al digitale. Da ragazzo, anzi già da bambino, disegnavo, facevo qualche fumetto, qualche schizzo qua e là nei diari dei miei compagni di classe: niente di che, fumetti molto brutti che, però, se li rileggo ora, trovo divertentissimi! Poi, come tutti – tutti da bambini disegniamo, poi a un certo punto smettiamo – ho abbandonato gradualmente la pratica di disegnare per puro piacere e ho scelto di fare architettura, sperando di incanalare la creatività in qualcosa di più concreto – una speranza che era soprattutto dei miei genitori. Mi sono ritrovato a Milano in una facoltà molto più tecnica di quanto credessi, che però mi ha dato molti strumenti creativi e una visione critica del mondo, per cui tutto sommato non me ne sono pentito. È stata una professoressa a Barcellona, dove ho svolto un Erasmus per l’ultimo anno di università, che mi ha motivato a riprendere il disegno per puro piacere, consigliandomi di disegnare su bloc-notes in metropolitana o di testare il disegno digitale. Inizialmente mi sono esercitato soprattutto su iPad, per riscoprire in seguito il piacere della carta: ho ritrovato così lo stile che avevo quando disegnavo le persone in metro. Da un lato questo stile, come dici tu, un po’ nervoso, molto veloce, ha dato più spontaneità al disegno – anche nel modo in cui si costruisce la storia, che inizia con qualche tratto, per diventare sempre più densa – e dall’altro il bianco e nero, che è il codice per eccellenza del fumetto, e in particolare del fumetto thriller, mi ha permesso di dare alla storia quel tocco grezzo, che fa pensare anche al fumetto underground americano oppure agli schizzi di architettura. Un lavoro non per forza preciso, ma che mi rispecchiava e con cui mi sentivo à l’aise. Nel fumetto, ci sono poi le parti con il carboncino blu, una specie di pastello molto grasso, che mi serviva a raccontare la realtà virtuale vista attraverso il visore e che è in parte ispirata ai motori di rendering, con i pixel che lentamente compongono l’immagine. Due tecniche diverse per raccontare due diverse realtà.
«Se non ci sono altre domande, lascerei Enrico cominciare il firmacopie», un applauso caloroso risuona in libreria dopo le parole di Colella. I tanti amici e lettori circondano Enrico per avere un autografo, mentre Patrizia ordina di portare fuori vino e bicchieri. È una serata gioiosa, piena di risate, di bottiglie stappate e degli accenti più disparati; tutti rimangono in piedi a chiacchierare, sembra che nessuno abbia intenzione di andarsene. Solo quando si fanno le dieci e la libreria comincia piano piano a svuotarsi, con i pochi rimasti, tiriamo fuori la torta a sorpresa. Patrizia non capisce subito che spetta a lei soffiare quelle candeline, continua a guardarsi attorno confusa ed emozionata, mentre da fuori qualcuno si ferma e guarda dentro, incuriosito dai festeggiamenti. Anche Enrico, che ha da poco finito la sessione di dédicaces, si ferma a fare due chiacchiere. Poi, con il polso dolorante per i tanti disegni, ringrazia Patrizia che l’ha ospitato, saluta e se ne va. Ma dopo qualche minuto eccolo tornare di corsa. «Dimenticavo di lasciarvi il disegno della locandina!»: è Salvo, il protagonista de Lo schermo bianco, intento a salire su una torre di libri per depositarne uno in cima. La torre di libri su cui si arrampica Salvo, affollata e barcollante, rappresenta la Tour de Babel.
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