Padroni del nostro futuro

Prospettive economiche e ecologiche per la nostra vita sulla Terra nel saggio di Marjorie Kelly

«Io ne ho viste cose che che voi umani non potreste immaginarvi», è la frase che chiude uno dei dialoghi più celebri della storia del cinema. Impossibile da non ricordare anche per i non avvezzi, Blade Runner è l’ouverture del futuro che la distopia è andata ad affermare massicciamente nei prodotti culturali di largo consumo. Le narrazioni che oggi ci raccontano del domani parlano infatti per gran parte di una futuribilità chiusa nel reiterarsi dell’eterno presente, ingabbiata da un avvenire che è restituito sotto forma di passato logoro, posticcio, immobilizzato da multinazionali tiranniche o personaggi incapaci di scongiurare i propri macabri destini: un chiaro riflesso del sentimento collettivo verso l’alternativa a prospettive auspicabili. Per riprendere le parole di Debord, sembrerebbe che “l’essere” sia stato definitivamente sostituito dal “sembrare”, una mimesis oscura dove l’identità è negata e l’azione appare solo in risposta di un corrispettivo ormai assente, quindi impraticabile sul piano effettivo del reale.
 

Le narrazioni che raccontano del domani parlano per gran parte di una futuribilità chiusa nel reiterarsi dell’eterno presente, ingabbiata da un avvenire che è restituito sotto forma di passato logoro, posticcio


Senza mai scendere in classifica e lungi dallo scalfire i migliori tormentoni estivi, è infatti il ritornello della Lady di ferro “There is no alternative” che canta a denti stretti delle nostre più trite convinzioni, della forma che abbiamo dato al futuro; una poltiglia smembrata delle sue possibilità costruttive, appiattita su un orizzonte senza profondità. Davanti a questa terra desolata viene da chiedersi: se sospendessimo per un attimo il giudizio sull’imminente ovvietà della fine del mondo, cosa potremmo pensare, cosa dovremmo leggere per spingere il pensiero oltre il limite del livello in cui siamo, per rompere il soffitto di questa sconfinata amarezza politica e poterci dire: “ci sono cose che noi umani possiamo davvero immaginarci”?

Padroni del futuro è un saggio scritto da Marjorie Kelly ed edito da Aboca Edizioni che racconta di futuri possibili in un’economia nuova, nata all’interno della struttura capitalistica come un virus e capace di farci pensare come superare la cultura estrattiva a condizioni determinate, per favorire la vita di tutti gli esseri viventi attraverso il radicamento ad un luogo, al vivere in comunità. Un sapere che è andato perso con la cultura capitalistica e disintegrato poi dalla finanza, dominata da investimenti che operano scollegando la proprietà alla vita dell’impresa, e da strumenti finanziari che vengono comprati e venduti come astrazioni, senza alcun rapporto con la realtà. Mescolare, contagiarsi l’un l’altro, dare vita a, per riprendere le parole di Donna Haraway “mondeggiare”: nell’economia generativa la vita fiorisce grazie alla cura multispecie, al riassetto della proprietà privata e all’introduzione del pensiero sistemico nella produttività, che pone dei limiti alla crescita attraverso il controllo diretto dei beni e all’esclusione di finanziamenti esterni che non hanno peculiare interesse a soddisfare specifici bisogni collettivi e diritti fondamentali umani ed ambientali, per il semplice fatto che non vi appartengono.
 

Dall’eolico di comunità della Danimarca alle community land trust delle foreste del Messico, Kelly scandaglia piccoli mondi economici che stanno adeguando il lavoro e il ritmo della vita all’abbastanza, al necessario



Attraverso un superamento della dissociazione tra il bene comune e il mercato dei capitali, Kelly analizza diversi pattern organizzativi viventi di proprietà allargata che hanno abbandonato la ricerca del profitto illimitato per la sostenibilità, la comunità e la sufficienza. È il caso delle proprietà a governance di beni comuni, i cui beni sono appunto detenuti e governati in comune, in una forma indivisibile di comunità che ha un interesse umano per un’impresa privata e sono al servizio della vita; imprese di natura sociale o ambientale; società controllate da trust o famiglie che hanno a cuore la missione sociale: dall’amministrazione fiduciaria della pesca delle aragoste del Maine alle community land trust delle foreste del Messico, dall’eolico di comunità della Danimarca alle resident owen community del New Hampshire, Kelly scandaglia piccoli mondi economici che stanno adeguando il lavoro e il ritmo della vita all’abbastanza, al necessario.

 

«Che tipo di economia è coerente con il fatto di vivere all’interno di un sistema vivente?», è la domanda che porta avanti l’indagine di Kelly, che nel suo viaggio suggerisce: «non dobbiamo cominciare dalle società per chiederci come riprogettarle. Dobbiamo cominciare dalla vita, la vita umana e la vita del pianeta e chiederci: come possiamo creare le condizioni per il fiorire della vita?». Una domanda che non sembra essere stata presa veramente in considerazione nella fantomatica “transazione ecologica”. Nel guazzo della politica post-ideologica dove i tecnici sono gli unici eletti, degni traghettatori di anime e condottieri di programmi politici dal cui impegno politico sono paradossalmente svincolati – lo stesso ministro della transizione ecologica Cingolani dichiara a mani alte nell’incipit delle sue interviste: «Sono un tecnico e sono chiamato per un compito specifico, scrivere un progetto» (e ci manca poco che aggiunga: “Ehi, non guardate me!”) – è l’ossessione per la quadra dei bilanci pubblici, i programmi di spesa NGEU e i grandi investimenti che confondono l’idea di “transazione ecologica” con “innovazione ecologica”: una modificazione del medesimo piano, non un mutamento di piano. Rimangono quindi inalterati i meccanismi dei flussi finanziari, privi di impostazioni etiche ed esenti da una riflessione politica per un cambiamento ecologico radicale, in grado di riflettere sul senso della crescita, che resta a conti fatti prerogativa di un movimento illimitato in un sistema finito, vestito in nuovo verde.
 

Dobbiamo cominciare dalla vita, la vita umana e la vita del pianeta e chiederci: come possiamo creare le condizioni per il fiorire della vita?


Transitare verso un’economia di qualità, generativa, non può prescindere da uno sguardo multidisciplinare e olistico. È un errore credere di poter diventare ecologicamente sostenibili senza essere socialmente equi. Stando ai rapporti dell’Ipcc, anche raggiungendo l’obiettivo del 55% di riduzione della CO₂ entro il 2030 l’impatto del surriscaldamento porterà ad ulteriori diseguaglianze tra nord e sud Europa: nelle zone che si affacciano sul mediterraneo, le alte temperature saranno di anno in anno sempre più inconciliabili alla vita. Di fronte a questo scenario la politica istituzionale resta incapace di designare nuove basi strutturali per la nostra economia, che non può dirsi sostenibile fintanto che il divario tra ricchi e poveri andrà ad aumentare senza soluzione di causa. Dobbiamo chiederci come tornare a generare la vita, come passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere, per disincantarci dall’individualizzazione dell’homo oeconomicus che si ostina a negare la vita come un sistema complesso. Come canta Giovanni Truppi: «Bisogna pensare quello che non è mai stato pensato. Fare quello che nessuno ha mai avuto ancora il coraggio di fare», perché il cambiamento non arriverà soltanto dalla tecnica, se non si vogliono scongiurare i sintomi di un problema che continuerà ad agire in senso più profondo, nonostante il Green Deal.

 

In copertina una foglia fotografata da Shayan Koundinya


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