Orrore bianco

Su Mandibula di Mònica Ojeda, horror al femminile tra ossessioni e divinità transgender

Adolescenti e figure materne immerse in un bianco abbacinante sono le figure che restano conficcate nella testa del lettore una volta terminata la lettura di Mandibula di Mònica Ojeda. L’autrice ecuadoriana, già autrice di alcuni romanzi e vincitrice di alcuni premi letterari, è stata portata quest’anno in Italia, per la prima volta, da Polidoro Editore. La storia di Mandibula è quella dell’orrore che si annida nei luoghi della ricchezza, nelle ville di antiabortisti e omofobi, nelle scuole elitarie, ma anche nei piccoli appartamenti isolati di un’insegnante ormai sprofondata in una spirale ossessiva. Ambientato in una cittadina della provincia sudamericana, Mandibula vede come protagoniste un gruppo di sei ragazze iscritte in un collegio femminile dell’Opus Dei, due in particolare spiccano in mezzo alle altre: Fernanda e la sua gemella non di sangue, migliore amica, complice, Annelise. Dall’altro lato sta Clara, nuova insegnante della scuola in cui le ragazze sono iscritte.

Entrambe le parti si nutrono di ossessioni, timori e desideri che non riescono a prendere forma. Il gruppo di Fernanda e Annelise adora, letteralmente, l’orrore. Passano i pomeriggi in un edificio abbandonato a raccontarsi creepypasta, storie horror che diventano virali online, e a destreggiarsi in prove punitive come ferirsi a vicenda, camminare sui cornicioni più alti, diventare l’una schiava dell’altra. È lì che Annelise fonda la loro religione, l’ode e la preghiera al vuoto lovecraftiano, che prende corpo nella figura del Dio Bianco. Clara invece è una trentenne sola, paranoica, già vittima di due studentesse nella scuola precedente, che l’hanno sequestrata nella sua casa e sottoposta a torture. Il lettore conosce le principali protagoniste nel momento in cui avviene l’esplosione, il climax. Senza sapere cosa è successo prima si viene immediatamente catapultati nella casetta isolata di Clara, dove ha condotto Fernanda, dopo averla rapita.

Mandibula si struttura intrecciando la sequela di eventi che ha condotto al rapimento: dall’arrivo di Clara alla Scuola Bilingue Delta, High-School-for-Girls, alla fondazione del culto del Dio Bianco, una divinità transgender, multiforme e imprevedibile alla quale le ragazze raccolte nell’edificio, in una stanza bianca e per questo pura e pronta ad accoglierle, dedicano componimenti. Annelise in particolare si erge come una sorta di sacerdotessa. È lei che è stata accettata per prima dal Dio, o forse lei stessa lo ha invocato:
 

Mi ha chiamato “figlia” e io l’ho chiamato “madre” per il suo sorriso vaginale a occhi aperti. Mi ha detto: «Solo i fianchi larghi possono partorire le dimensioni dell’universo». Con le palpebre ha sollevato dal mio cuore tutta la terra umida.


In Mandibula le preghiere e i voti al Dio Bianco diventano segreti e l’obbligo e la morale diventano bombe pronte ad essere innescate per far sì che ciò che resti sia solo la violenza e l’ossessione. L’adolescenza, già territorio di frontiera e soglia da varcare, si unisce al bigottismo del luogo in cui crescono, al disagio famigliare, alla consapevolezza di vivere in una società che permette soprattutto alle storie dell’orrore di sopravvivere in mezzo alle altre. I timori delle ragazze, i loro desideri e la loro sessualità ancora incerta si ergono enormi, diventando un Dio pronto a divorare ciò che incontra. Le proibizioni vissute diventano aggressività, diventano desideri famelici che Annelise impone a lei stessa e agli altri. Lo spazio bianco è il luogo in cui le ragazze possono ammettere di avere un corpo: ferendolo, mettendolo in gioco, guardandosi e sfiorandosi, ammettono di avere dei desideri, che sono lì, nel bianco che può contaminarsi e trasformarsi. Annelise è tra loro quella che ormai è arrivata al confine ultimo, ha saputo arrivare al fondo del reale, fino all’osso: vuole di più da ciò che è materiale e corruttibile, vuole comprendere quanto ancora dei corpi si può scoprire e rivelare.

 

I timori delle ragazze, i loro desideri e la loro sessualità ancora incerta si ergono enormi, diventando un Dio pronto a divorare ciò che incontra


Uno degli episodi più intensi nelle avventure del gruppo è quando, dopo essere finite a una festa di ragazzi universitari, li sfidano a camminare sul parapetto di una terrazza. Eppure, per i ragazzi, la vera paura arriva dopo, quando Annelise tramite una foto confida loro un segreto che li mette in crisi e li sconvolge. I segreti quindi non sono solo preghiere, ma anche armi, o forse le invocazioni stesse al Dio, al Bianco che smangia e ritaglia via tutto ciò che sta intorno, sono le vere ferite e gli inganni che Annelise può tramare. Ed è qui, in queste «gioie violente che hanno violenta fine», che entra in gioco Clara.
 

Avrebbe potuto sconfiggerle, si disse. Avrebbe potuto controllare il sudore e la sensazione di deliquio.
Benché avesse esperienza con adolescenti di ogni tipo, il rumore di centinaia di voci che parlavano in cortile, nei giardini, nei corridoi e nel parcheggio la fece trasalire come se un dito di gorilla le accarezzasse le gengive.


Se Annelise è una sacerdotessa, una semplice figlia che cerca di avvicinarsi al bianco colore degli dei, Clara è madre e figlia insieme, una creatura anch’essa liminale, proprio come quel gruppetto di adolescenti che sembrano tormentarla. Questo perché Clara è ancora attaccata in maniera malata, ossessiva, alla figura di sua madre, ormai defunta. È diventata insegnante perché sua madre lo era, la imita nei modi di fare, indossa i suoi vestiti e anche il busto che la donna era costretta a infilarsi. Con Clara è ancora più evidente quanto la questione dei corpi sia importante. Per lei ogni corpo, primo tra tutti il suo, è quello della madre. È un luogo in cui ritornare fedelmente, un punto fermo in mezzo al caos là fuori. La madre l’ha generata, quindi desiderata un tempo, e per Clara questo è ciò che conta. Non c’è niente da desiderare, nessun obbligo o soglia da varcare se si sta al sicuro dentro il grembo materno. Le ragazze che la tormentano e che l’hanno tormentata scardinano questa visione placida.

Annelise crea non solo con le amiche, ma anche con la sua insegnante una gerarchia dove lei è l’unica iniziata alla comprensione. In questo Annelise potrebbe anche configurarsi come la tipica mean girl. È ricca, privilegiata, tiene sotto scacco le amiche e anche gli adulti che la circondano. Ma Annelise è davvero cattiva? È possibile essere crudeli se si è sacerdotesse? Inoltre, come sottolineato in questo pezzo tradotto di Sarah K. Day, Mean girls end up dead, Annelise continua a ribaltare i ruoli, maneggiando il bianco sacro. Forse sia Annelise, ma anche Fernanda, ribaltano soprattutto la figura delle dead blondes, le ragazze sconfitte dagli uomini, costrette a perire, menzionate anche ne Il mostruoso femminile di Judy Sady Doyle. Sono loro a conquistarsi lo spazio che hanno intorno. Diventano vulcani, coccodrilli famelici.

 

Non c’è spazio per le figure maschili in Mandibula, tutto è un rito sacro tenuto in vita dalle donne



Ed è l’orrore che diventa quindi un bianco territorio di confronto. Bianco è il mondo di Annelise, dove può sperimentare e osare sempre di più, bianco è il territorio che deve raggiungere Clara se vuole liberarsi dagli affanni e dalle paranoie. Bianco è anche lo spazio all’interno del romanzo stesso in cui manca la risposta dello psicologo di Fernanda. Nel lungo dialogo che scorre nelle pagine, lei continua a raccontare la sua storia, ma accanto al nome del medico stanno solo i due punti, poi il vuoto. Così, non comparendo mai alcuna risposta da parte del dottore, Fernanda tiene con lui, e con noi lettori, un lungo monologo. Del resto nessuno, se non la sua amica Annelise, può comprendere dove si trova e di cosa è fatto questo bianco. Non c’è spazio infatti per le figure maschili in Mandibula, tutto è un rito sacro tenuto in vita dalle donne. Non esistono figure maschili capaci, o degne, di affrontare un orrore simile.
 

«Cosa succede quando vediamo qualcosa di bianco?» chiese Annelise a Fernanda senza aspettare risposta. «Che sappiamo che si macchierà» le disse con un sorriso biancheggiante. Quando dormivano insieme, allacciavano tra loro le gambe e si toccavano naso con naso e poi, nel buio, Annelise le chiedeva con tenerezza di strangolarla.


Il rito a cui prenderanno parte le coinvolgerà tutte quante, Annelise, Fernanda, Clara. Anche per questo, a causa di questa sorta di rito o evocazione, Mandibula è stato paragonato dalla critica alle opere di King. Mandibula si avvicina a pellicole dove tali riti di passaggio avvengono in forme altrettanto evanescenti, dove non c’è qualcosa da distruggere, un mostro nascosto da stanare, ma dove il mostro è già qui, dobbiamo solo imparare ad avvicinarci a esso. Picnic a Hanging Rock di Peter Weir del 1975 tratto dal romanzo di Joan Lindsay, Le Vergini suicide di Sofia Coppola del 1999 e Ham on Rye di Tyler Taormina del 2019 sono tre film che mettono parecchi anni di distanza uno dall’altro, ma in tutti l’adolescenza, la crescita in luoghi dove vige disciplina, ordine, routine, sono elementi che conducono in territori altri. In questi luoghi scompaiono le ragazze, eppure la loro presenza continua a infestare chi è rimasto.

Il mantra del romanzo Qual è l’unico animale che nasce da sua figlia e concepisce sua madre? trova risposta nel circuito corpo/carne/desiderio, un meccanismo che va a innescare un rito che sembra avere forza centrifuga ma in realtà è solo un’enorme bocca aperta, accompagnata da una forza centripeta che ci invita a finirci dentro, eliminando una volta per tutte le distinzioni tra madre e figlia, tra corpo e desiderio.


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