Nuove forme per tempi nuovi
Finis Gloriae Mundi: il fotografo e il suo tempo - Conclusioni
«Son qual nave che agitata,
da più scogli in mezzo allʼonde
si confonde e spaventata
va solcando in alto mar.»
(Riccardo Broschi, Artaserse)
È stato osservato che lʼimmagine fotografica, nella sua spoglia esattezza, tanto esatta da risultare conturbante (come negli scatti di Eugène Atget), traspone sul piano della visione quella definita, precisa, categorica puntualità propria del ricordo. Con esso condivide la mancanza di aura, avrebbe detto Benjamin; la mancanza di quel calore vicino, proprio in quanto lontano e inafferrabile, tutto contemplativo, che invece è proprio della memoria.
Il ricordo, al pari della fotografia, si offre alla classificazione, alla definizione verbale, alla didascalia: un raggelante rigor mortis pervade queste immagini senza tempo – al proposito Pavel Florenskij affermò: «Si alza una gamba, e così resta nei secoli, senza mostrare alcun tentativo di abbassarsi; e il sorriso raggelato che non proviene da nulla e non si rivolge a nulla diventa la maschera di un anima morta»[1].
Non partecipi di alcuna storia, le immagini del ricordo e dellʼapparecchio fotografico permettono la più totale e incondizionata libertà nellʼapproccio a esse.
Tutte calate nellʼoggi, senza ieri (figurarsi un domani!), rendono ciò che esse ritraggono diverso da quello che fino ad allora era stato: la fotografia reinventa il mondo semplicemente osservandolo, anzi, facendosi da esso plasmare, imprimere.
È unʼosservazione, questa, da non sottovalutare. Seduce, infatti, tra tutti i pensieri, lʼidea che la fotografia non sia solamente lʼimmagine diretta di ciò lʼobiettivo fotografico si è trovato davanti.
La tecnica fotografia, lo si è visto, in nulla può essere attaccata: essa ritrae effettivamente le cose come ci appaiono e come esse ci possono apparire; perché è la stessa luce che consente di distinguere forme e colori che, attraversato lʼobiettivo, ci permette di ottenere unʼimpressione fotografica.
Eppure, sebbene questa tecnica non presenti (a quanto pare) difetti, è certo che le manchi una volontà; una mancanza supplita, ovviamente, dal fotografo, il quale, premuratosi di indirizzare adeguatamente le lenti dellʼobiettivo e di metterle a fuoco, quando il risultato gli appaia soddisfacente, si curerà di innescare il dispositivo fatale.
E se il meccanismo fotografico, lʼimmagine stessa che ne è il prodotto, potessero essere frutto di una volontà piuttosto che di un tirar di leve e di un annerir di sali? Che la fotografia possa essere specchio, ancor prima che del mondo, del fotografo stesso (infranto, sʼintende, se non addirittura cieco)?
Su questo piano, meno evidente, di un mutuo gioco di rimandi, la fotografia ci appare anche e soprattutto lʼimmagine tangibile di ciò che il fotografo si è trovato ad essere e, col tempo, a diventare compiutamente.
I profondi sconvolgimenti che segnano la maturità dellʼera moderna assegnano a quegli uomini un mondo dilaniato.
La tradizione, vetusta e soffocante per i nuovi tempi, appare oramai incomprensibile; la distanza sacrale che aveva contraddistinto lʼuniverso aristocratico, si dimostra incapace di piegarsi alla prospettiva di homines novi, elevatisi dalle angustie della tecnica a inedite vette conoscitive – la scienza, disciplina vicina per eccellenza, non a caso nata come branca della più antica filosofia (philosophia naturalis), se ne era ben presto distaccata raggiungendo una propria dimensione autonoma.
Se dunque, come sembra, la tecnica fotografica rispecchia nei suoi prodotti, più ancora che il mondo in sé, lʼuomo che innanzi a quel mondo si è ritrovato, il fotografo, anziché un sovvertitore dellʼordine prestabilito, appare come il figlio di un tempo di profonda crisi. Egli, disperso in questa umanità, lacera dei profondi conflitti, sembra volersi destreggiare nellʼinstabilità del presente (straniero in terra patria), quasi in una ʻterra di nessunoʼ che si staglia tra il compiuto ieri e lʼineffabile domani.
Smarrito il senso antico della tradizione, sconosciuto quello del nuovo orizzonte che gli si sta spalancando davanti, il fotografo, figlio del suo tempo, uno e nessuno, cerca di immobilizzare il presente caotico, in continua trasformazione, come a voler fissare per sé un nuovo se stesso e, per il ritrovato sé, un nuovo mondo, una posizione nei nuovi orizzonti.
Tutto quello che sembra volere è reintegrare il senso perduto, rimpossessandosene con la forza del ricordo: riconoscersi nuovamente in quelle cose in cui non riesce più.
Ma così facendo, non cerca uno sfogo per la sua ingorda libido dominandi; tutto ciò che egli cerca non sta in ciò che non ha mai avuto, ma in ciò che non ha più: cerca se stesso.
Pare, così, risuonare in questo uomo, spaesato nella temperie del suo secolo, lʼimperativo delfico del conosci te stesso.
In questa ottica, le forme volte allʼimpossessamento e alla dominazione dellʼobiectum, proprie dellʼimmagine fotografica, appaiono ora non più come dimensione squisitamente dominativa, bensì come parte di un inedito orizzonte teoretico, in funzione del quale applicare quelle particolari forme e quelle determinate strategie di avvicinamento e di possesso della cosa.
Lʼeccezionale intensità con cui la fotografia viene vissuta è espressa da Benjamin nel termine del bisogno: lʼuomo ne ha bisogno, perché essa colma un vuoto che non egli non può trascurare; perché ne va della sua stessa esistenza, del suo stesso essere.
«Ora, il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, o meglio alle masse, è intenso quanto quello di superare lʼirripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione. Giorno per giorno si fa valere sempre più incontestabilmente il bisogno di impadronirsi dellʼoggetto da una distanza minima, nellʼimmagine o meglio nella riproduzione.»[2]
Lʼuomo del XIX secolo, persa la memoria che la tradizione gli aveva consegnato, cerca, con la fotografia, di ricordare. Ricordare per ricordarsi; ricordarsi per rimemorarsi; rimemorarsi per riconoscersi.
Che si sia perduto o, peggio, dimenticato?
[1] P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nellʼarte, trad. it. Adelphi, Milano 1995, pp. 176-177
[2] Walter Benjamin, Piccola Storia della fotografia, trad. it. in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica – Arte e società di massa, con una nota di Paolo Pelluga Einaudi, 1955, p. 70
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