Non lavorare, non aspettare, non invecchiare

Su Cometa, il romanzo allucinato di Gregorio Magini tra cibernetica, psichedelia e fantascienza

Il piccolo Raffaele si affaccia alla vita con un battesimo luminoso: lo scroto degli amanti di mamma sulla faccia. Peni gocciolanti. Giovani ragazze ricoperte di sperma. La sua prima forma nel mondo è quella di morboso voyeur dei costumi orgiastici dei genitori, che lo allevano precocemente in un Eden ipersessuale privo di censure. Cometa di Gregorio Magini, uscito per Neo Edizioni, si presenta da subito come un romanzo di formazione agghiacciante e allucinato. L’iperbolico e cinico sputo di un’intera generazione, quella nata negli anni ’80 e direi tuttora vivente, che prende visceralmente coscienza di sé nel mondo disgregato e grottesco che l’ha cresciuta. Una generazione che non si rivolge ad alcun genitore, abolito come interlocutore, e procede a tentoni nell’abisso poliedrico della modernità alla nevrotica ricerca di una forma, di un senso che la definisca. Raffaele, dopo la morte dei genitori, cresce col nonno, la cui unica scienza è quella della misoginia, e spende i suoi anni giovanili nel nichilismo e nella sperimentazione sessuale e droghereccia più temeraria, nell’esclusivo rispetto dei Tre Comandamenti non lavorare, non aspettare, non invecchiare. Pretende di essere un artista, ma è terrorizzato dai dubbi sulla propria inettitudine – del resto, annota pensieri. La sua storia s’incrocia con quella di Fabio, ragazzo introverso e geniale, con la passione per l’informatica e il cervello a forma di processore. La sua esistenza si apre nel lugubre presagio della paresi del padre, colpito da ictus, e di una madre incapace di gestire la situazione. Attratto fin da piccolo dalla fantascienza, allena il proprio talento nel giocare ai videogame ed elabora sofisticate realtà parallele in cui le ragazze lo corrispondono – «un mondo futuribile che comprendeva tutte le ambientazioni dei suoi giochi, mescolate o separate da qualche chiloparsec a seconda della compatibilità».

Muovendosi lungo due rette perpendicolari (Magini, in un’intervista su Il rifugio dell’Ircocervo, lo definisce un “romanzo a forma di croce”), i protagonisti corrono sul filo della realtà con un piede nel precipizio, costretti alla solitudine dall’incapacità di stringere rapporti duraturi, specialmente con le ragazze. Raffaele, spirituale e mistico erotomane, si muove verticalmente sull’asse delle ordinate. Oscilla, in una scrittura vertiginosa e delirante, fra momenti di ascesi suprema – agevolato dai trip di lsd – e picchi abissali di depressione. Disperato per la fine della storia con una dea del sesso, si folgora sulla via dell’acido e acquisisce capacità sovrannaturali, come quella di «suicidarmi con la sola forza del pensiero», «cambiare specie vivente, diventare una formica, un pipistrello o un bonobo». Fino a intravedere Dio.
 

Quel cielo! Oh, quello era il cielo che ancora oggi mi ha travolto, come ogni volta che alzo lo sguardo. Se potessi dire agli altri esseri viventi una cosa sola, sinceramente, a viso aperto, se fosse possibile, direi: Vorrei che tu avessi visto quel cielo, così come io lo vidi. Dentro di me non c’ero più io, fuori di me non c’erano più limiti, e sulla superficie della mia coscienza che coincideva con quella dei sensi c’erano dei fiori che sbocciavano all’infinito. Sopra di me, dentro quell’indescrivibile cielo, apparve la testa gigante di un Dio, un Yahweh o forse uno Zeus, una faccia canuta e filamentosa che pendeva e strabuzzava.


Sull’asse delle ascisse Fabio, espanso (anche fisicamente) in orizzontale, si muove, più che verso il cielo, fra gli interstizi della materia, nei meandri della fisica e dei codici informatici, alla ricerca di una forma definitiva in cui riconoscersi ma che inesorabilmente, come il suo peso corporeo e le proprie storie d’amore, sfugge a ogni controllo.
 

Il tempo nuovo si manifestava come un’ossessione. Carla gli aveva occupato il cervello, non nel senso che pensava di continuo a lei, bensì nel senso che lei era la forma di qualsiasi pensiero facesse. Fosse stato meno incline al raziocinio, avrebbe immaginato qualche modalità di fusione o compenetrazione delle anime, tale che una parte della coscienza di Carla si doveva essere staccata per venire a innestarsi nel luogo che ospitava la sua. Ma la sua interpretazione della cosa fu più singolare, e fu che l’amore spingeva la sua mente a cercare di imitare quella di Carla, non solo nel tentativo di assecondarne gli esiti, l’output, cioè di fare gli stessi pensieri, ma più radicalmente, di assumere la sua stessa forma. Il processo di adattamento era involontario e continuo. Era quasi certo che fosse anche irreversibile.


Le due rette si incroceranno fra scintille incostanti, viaggetti psichedelici, abbozzi di progetti, per poi scagliarsi nuovamente lontano, come due comete condannate al proprio sinistro tragitto.

Tutto in questo libro scredita l’affidabilità del reale. Nell’epoca del consumo sfrenato («la sofferenza ci rende più suscettibili al marketing»), dell’esibizionismo sessuale, delle manganellate al G8 di Genova; nell’epoca della semplificazione, delle prime connessioni globali via internet, della felicità canonizzata figlia, anzi nipote, del boom economico, ad emergere sono una inconsolabile solitudine e uno spaventoso disordine di riferimenti. L’unica soluzione appare quella di sgranare l’occhio, distorcere le forme, affidarsi ad allucinazioni, orgasmi e impulsi elettronici per scovare una via improbabile verso lo spazio, dentro e fuori di sé, mai nel mondo. Trovare assunzione a livello cosmico o particellare, sulle rovine sgretolate della realtà.
Magini realizza uno dei romanzi italiani più spericolati degli ultimi anni, raffinato con una scrittura originalissima che ibrida una quantità di linguaggi e generi – lessico informatico-scientifico, psichedelia, fantascienza – e che fa ben sperare nel rinnovamento di una letteratura fantastica moderna in Italia. È un libro disperante, che non giunge ad alcun approdo consolatorio, ma resta sospeso in uno stato allucinato, nell’attesa sognante di qualcosa – o qualcuno – che dallo spazio mandi un segno, una password, per decrittare lo schermo oscuro della realtà. «Siamo già nella merda, disse Rødh. Ogni singolo essere umano su questo pianeta affoga nella merda. Alcuni però hanno i mezzi per tirarsene fuori»


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