Non è successo niente

Uno sguardo collettivo sul coronavirus (e sulla quarantena) che ha sconvolto le nostre vite: per ricordarci

Usciamo, mangiamo al ristorante, incontriamo gli amici per una birra. Tutto è tornato normale, andiamo in giro come se non fosse successo niente, solo con qualche mascherina al braccio e, al limite, sul volto. Una rimozione collettiva di uno degli eventi più traumatici dell’Italia del dopoguerra. La voglia di tornare alla normalità – qualunque fosse – era tanta, ma non possiamo far finta che non ci siano stati più di 200mila casi e 35mila morti, che le nostre vite non si siano fermate, che la Lombardia per un periodo non abbia avuto, da sola, il 9% delle morti per Coronavirus del mondo intero, dove il virus ancora cavalca. Negli Stati Uniti, in Brasile, in India, in Russia, in Perù: i primi tre stati hanno appena toccato, insieme, i 6 milioni e mezzo di casi complessivi. Per questo, anche se la nostra rivista si ferma per la pausa estiva, abbiamo deciso di lasciarvi con questo pezzo collettivo che raccoglie le voci della nostra redazione. Uno sguardo sul passato, sul presente e sul futuro di questa pandemia che ci ha fermati per provare a ricominciare le nostre vite in modo più consapevole, per smettere di far finta. Non è vero che non è successo niente.

Siamo milioni di schermi
La quarantena ci ha divisi non soltanto dagli altri, rinchiudendoci nelle nostre case, ma tra gli altri. Un pezzo di noi in ogni persona, in ogni videochiamata, in ogni messaggio inviato per restare in contatto e non perdere i rapporti, anzi per recuperarli con il tempo lento del lockdown. Abbiamo fatto a pezzi la nostra immagine in tanti Horcrux digitali, disseminando noi stessi in milioni di schermi, e invece di recuperarci ci siamo smarriti ancora di più. Questa parcellizzazione delle immagini, questa frammentazione delle esperienze era già la vita di tanti. Cosa sono le amicizie Erasmus o fuori sede? Le nostre conoscenze lontane in altre città, in altri paesi? Ci incontriamo due giorni l’anno, gli altri 363 sono un’amicizia virtuale mai vissuta fino in fondo, il ricordo di una vita passata. Ci aggrappiamo a una foto o a una storia per sentirci vicini come se stessimo ancora condividendo le stesse esperienze; vorremmo essere con Giulio e Juliette, con Emily e Astrid, con Alma e con John, ma siamo a casa con le nostre vite, i nostri impegni, i nostri lavori se ci va bene. Su Facebook abbiamo migliaia di amici, su Instagram centinaia di follower. Sono troppi, non ci stanno dentro di noi. E noi, a dividerci tra tutti, ci perdiamo. Invece che la spinta alla vita di prima, da questo stallo improvviso dovremmo imparare a rallentare la frenesia di condivisione, ad andare in pezzi con più lentezza. Viaggiare di meno, scattare di meno. Guardare di meno, guardare meglio. Conoscere meno, conoscere meglio.

Andrea Caciagli


Ridere per non impazzire
Questo è stato l’anno del meme. Accanto alla cronaca dei media, alle proteste, alle statistiche dei contagi e dei morti, in pochi mesi sui social questa pratica è diventata, ancor più di prima, un codice condiviso. C’era già De Martino che parlava dei rituali messi in pratica dall’essere umano per scongiurare la fine del mondo; ecco, il meme è stato il nostro linguaggio-rituale. Più la situazione precipitava, e più ci sentivamo in dovere di esorcizzare il terrore con la risata. I più belli? Be’, il «non posso» salviniano; il «Koronavairus» di Cardi B; le infinite battute sull’ansia sociale fatte per preservare la nostra sanità mentale, la nostra dignità terremotata. Forse è per questo che ancora non siamo impazziti, per i meme. Ci siamo inabissati nei social per non impazzire, per confermare che esistevamo ancora, nonostante tutto; il che non so se sia stato un bene. Se da una parte mi è capitato di ridere, in questo periodo ho anche pianto molto dentro di me. Ho pianto quando ho visto le bare ammassate nel Bronx, quando sono successi i fatti del Pio Albergo Trivulzio, luogo che dal ’92 sembra non trovare pace. Ho pianto per Floyd, per il kebabbaro chiuso sotto casa, e per mio padre, che ha perso il lavoro dopo il lockdown. Io non mi sono ammalata, ma non so se mi sono salvata, anche se il supporto reciproco con mia sorella, amorevole e mai scontato, forse sì, mi ha salvato. L’estate prossima mi sono ripromessa di visitare la Cornovaglia, cascasse il mondo. O è già caduto?

Angela Marino
 

Le immagini del futuro
Buio. Blackout. Lockdown. Il Coronavirus ha modificato le esistenze di tutti. L’essere sociale per antonomasia, l’uomo, è stato chiuso sottochiave tra le mura della propria casa. Una “prigionia sanitaria” ha creato una sospensione del tempo che ha messo tra parentesi la nostra vita. Sono stati i film, le serie tv ad accarezzare e abbracciare l’uomo in quei mesi. Le storie viste hanno colmato il bisogno di normalità rendendoci ancora parte di qualcosa: rivedere i classici, scoprire il nuovo sono panacea della paura e consolazione nell’ansia. Costruendo stanze da cui osservare il meraviglioso, ci raccontano un mondo che sembra tanto lontano da risultare irreale. Mentre fuori la realtà sembra un film, nelle case la finzione si fa paradossalmente nuova realtà. L’arte, creatrice di mondi, ha avuto un ruolo fondamentale ricongiungendoci al mancante, rompendo il silenzio fragoroso; ed è proprio la sua spinta salvifica e curiosa a dover diventare costante in questi e nei prossimi mesi. Sono le immagini in movimento a essere giusto mezzo per narrare e narrarci. È questa “passione culturale” ora a essere necessaria sia per creare e per guardare l’opera d’arte sia per riorganizzare un’industria che vive di presenza, di comunione e comunità. Le piazze e i festival pieni di gente sono e dovranno essere ripensati in una diversa ottica per fruire di nuovo dello spettacolo, per costruire un archivio di immagini non solo per e dell’oggi ma anche per il domani.

Eleonora Degrassi


Guarire con l’apocalisse
Quando il virus è arrivato a Berlino, dove vivo, ho ripreso fiato dopo un’apnea durata una vita. Finalmente tutto quel rumore era cessato. Il rumore onnipresente degli aerei e delle macchine, delle fabbriche, delle masse che vanno a lavoro senza volerlo. Mentre la primavera sbocciava – e il numero di morti cominciava a prendere dimensioni inquietanti – io potevo starmene a casa disoccupato, svegliarmi la mattina e andare a correre, leggere, pensare alle cose e sentire la realtà che si scioglie come sotto un potente acido, prepararmi una zuppa, giocare con i miei coinquilini. In una parola: vivere. Ho potuto farlo perché sono un privilegiato che vive nella capitale più ricca d’Europa che ha elargito sussidi a pioggia, e dove una vera e propria quarantena non c’è neanche mai stata. Ma sono gli ultimi spiccioli di una civiltà in agonia, di un sistema che è collassato ben prima del Covid-19. Lontano da noi, altrove, nella terra bruciata che ci siamo fatti intorno per sostenere i nostri consumi. Adesso il mondo, con tutti quanti noi, è entrato in un nuovo stato della coscienza. Dove non sai più se salutarti con una stretta di mano, un gomito, un pugno o una capriola; un mondo di abbracci tossici e responsabilità collettive, sorveglianza e polizia. Si sente un odore di anni ’60 – quando i Beatles cantavano I look at the world and I notice it’s turning – ma non ci saranno boom economici a rimpiazzare il vuoto di senso. Le risorse sono finite e l’economia non serve a nulla su un pianeta infetto. L’apocalisse è già in atto: non c’è più tempo per lavorare. È l’ora dell’attivismo. No masters. Be gay. Do crime.

Lorenzo Masetti


Arrabbiamoci di più
Nel 2018, più o meno dopo Natale, mi ero ripromessa due cose: nel 2019 avrei riletto Il Signore degli Anelli e mi sarei arrabbiata il meno possibile. Mi arrabbio troppo, spesso, e come diceva la mia nutrizionista ma anche la mia carta astrale, ho un temperamento che non giova ai sonni tranquilli e a un’esistenza altrettanto pacifica. Lo scorso anno mi sono arrabbiata davvero poche volte, ho cercato di mantenere la calma anche quando avrei voluto rompere tutti i vetri che avevo intorno. Da marzo in poi ho imparato ad arrabbiarmi di nuovo: un pacifico incendio ambulante. Ho imparato anche che oltre a sognarmi quei soliti luoghi che incontro sempre mentre dormo, come un parco divertimenti le cui leggi sulla sicurezza mi lasciano sempre un po’ allibita, ho imparato che posso sognare anche un bel po’ di treni, tutti molto strani, ma sarà perché ho letto in quel periodo Anna Karenina. Ho anche imparato, o meglio ricordato, che a luglio Marte sarebbe entrato in Ariete e che per questo, in definitiva, mi sento di dire che è giunto il momento di arrabbiarci tutti quanti un po’ di più, forse. Mi sembra di essere stata in letargo su una nave spaziale diretta chissà dove e nel frattempo ho scoperto di essere nel team delle creature braccate, creature che alla fine riusciranno sempre, spaccando tutti i vetri che le circondano, a spuntarla.

Diletta Crudeli


Si stava bene
Lo confesso: io in lockdown sono stata da dio. Certo, mi ero ripromessa di fare la dieta e non ho fatto la dieta, ma ho imparato a fare il bloody mary e agli aperitivi su zoom ho risentito persone che nella vita normale mi ripromettevo continuamente di sentire e poi non ci si sentiva mai e invece eccoci qua. Certo, ho perso qualche altro decimo di vista perché sono rimasta appiccicata al computer una media di ore alquanto inquietante, però siccome le Cure è il quartiere più bello del mondo potevo anche farmi le passeggiatine nei miei 200 metri e vedere sempre cose molto belle. Certo non mi sono messa le scarpe nuove e i vestiti nuovi ma ehi, non ne ho nemmeno comprati, e comunque i gatti me li avrebbero riempiti di pelo. E poi mi sono data al giardinaggio, ho fatto rivivere due gelsomini, un agrifoglio e due viti americane (così intense e così italiane – sì, abbiamo anche rivisto Boris) e ci ho aggiunto un basilico, una monstera deliciosa, una fragola, una menta e un aggeggio buffo tipo spiumino amaranto che ho chiamato Mosè, per quella storia del cespuglio in fiamme. Prendevamo il sole davanti casa, leggevamo poco e guardavamo tanti film, non c’erano le macchine, la natura era rigogliosa e sì, si stava bene. Forse pure troppo, perché riprendere a lavorare ‘come prima’ (ma non doveva cambiare tutto?) è faticoso e ancora non ci stiamo orientando, e perché il mondo fuori talvolta è odioso, ed è facile chiudersi nella bolla.

Silvia Costantino


Cos’è cambiato?
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», diceva Tancredi allo zio, don Fabrizio principe di Salina, ne Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Cos’è cambiato dopo la quarantena e cosa è rimasto come prima? Immutabilità e cambiamento, due forze storiche in eterna tensione fra loro, convivono con una certa ambiguità anche nel vortice mediatico di belle parole, buoni auspici e retorica che in questi mesi ha generato l’identikit dell’italiano coraggioso e severo che, cantando e suonando sui tetti, ha insegnato all’Europa e al mondo intero come ci si comporta nel rispetto delle regole, al grido vago e consolatorio dell’ANDRÀ TUTTO BENE. Quando e come le cose andranno bene, però, è ancora poco chiaro.
Le forze politiche, che dovrebbero creare i pilastri di una risposta concreta a questo quesito, con una visione e una programmazione precise per il futuro, sembrano ancorate al breve termine e a una visione ristretta, quasi desiderassero di tornare immediatamente ai “fasti” precedenti alla pandemia. Come il più ingenuo dei fessi, allora, anche l’impavido super-uomo italico non può che tornare al suo “prima” e, rotte le righe, trasgredisce come gli è più congeniale, magari inseguendo un buon gin tonic. Pensare al futuro, però, non significa rifare le cose com’erano prima, anche perché prima non è che si stesse così bene.
La quarantena c’insegna così, in scacco al concetto stesso di democrazia, che bisogna far paura agli italiani perché siano cittadini coscienziosi e ligi, niente di più; perché finiti la paura e il coprifuoco, il coraggio svanisce e l’italiano torna ai suoi fasti traffichini e pasticcioni di sempre. Nei confronti del futuro resta purtroppo solo una certa disillusione che, dietro allo slogan patinato del cambiamento, lascia ancora tutto immutato.

Antonio Costa


Ripetere tutto dal principio
La prima volta che ho sentito la parola “quarantena” probabilmente era il 2005, quando nelle sale italiane usciva The Aviator di Martin Scorsese nel quale Leonardo Di Caprio, forse nella sua miglior performance attoriale, interpretava il miliardario Howard Hughes. Le sequenze del film che sin da subito mi hanno affascinato non sono quelle dove si mostrano passioni e imprese del protagonista, bensì quelle dove si percepiscono la sua follia e le sue paranoie. Uno squilibrio mentale che lo porta ad un autoisolamento in una stanza, tra deliri e proiezioni di vecchie pellicole.
Durante queste settimane, divenute mesi, mi sembrava di vivere quell’incubo, chiuso in una casa senza possibilità di uscire, costretto a sopportare quella quotidiana incertezza, conscio che qualsiasi errore poteva avere un impatto deflagrante. Cercavo di non essere pessimista ma ogni tanto mi tornavano in mente le parole di Hughes nel film: «Se c’è una variazione, sia pure infinitesimale, l’intero procedimento – di quarantena – deve essere ripetuto dal principio».
E la paura era e rimane proprio quella che la brama di tornare alla normalità, l’incuranza delle restrizioni e delle precauzioni da adottare rendano vani gli sforzi fatti fino ad ora. Però, schiacciati nella morsa di un sistema economico fagocitante che non può temporeggiare né rallentare il suo moto perpetuo, la fine del lockdown non poteva essere più posticipata.
Adesso muovendosi per le strade delle città, tranne che per i tanti turisti in meno, la situazione sembra essere tornata alla normalità, in alcuni casi la mascherina sembra essere già stata catalogata come pezzo da museo antropologico post-pandemico. Forse avevano ragione quelli che sostenevano che terminata la grande emergenza, in Italia, i cittadini avrebbero ricominciato a comportarsi come prima, come se nulla fosse mai successo, incuranti del fatto che se qualcosa dovesse andare storto tutto quello che faticosamente abbiamo passato, e velocemente dimenticato, dovrà essere «ripetuto dal principio».

Giulio Nassi


Restare a galla
C’era un prima e ora c’è un dopo. C’era un prima che ci portiamo dietro anche nel dopo, e un dopo contenuto anche nel prima, l’essenza del cambiamento, ma in Italia il cambiamento è sempre in atto, da noi il prima e il dopo sono due facce di una moneta con lo stesso stemma. Da noi, come diceva un famoso letterato, tutto cambia affinché tutto resti come prima. E mentre la maggioranza dei politici si spertica in illibati voli pindarici sull’Italia che verrà, sull’Europa che cambia il suo volto – da matrigna severa ad amorevole nutrice, pronta a far colletta per aiutare la povera, piccola Italia –, mentre ci si riempie la testa d’ideali, di svolta verde, di digitalizzazione, di un’Italia più inclusiva, mentre accade tutto questo, la pandemia continua a metterci in ginocchio, costringendoci a guardare dentro lo specchio di noi stessi, a essere vittime di un welfare malfunzionante, di un’amministrazione pubblica disorganizzata, di un fisco iniquo, ad assistere a un’importante crescita del debito pubblico per la mancata crescita del prodotto interno lordo. Il mondo cambia, il mondo è già cambiato, siamo noi che non vogliamo cambiare, che non vogliamo accettare un cambiamento endogeno al nostro sistema, un cambiamento in grado di governare, di prendere le redini del mondo che verrà. Perciò finirà come sempre, ci lasceremo travolgere dal cambiamento, lo subiremo come un fattore esogeno, come una forza esterna che ci trasporterà alla deriva, non si sa bene dove, nella speranza di restare a galla quel tanto che basta a non annegare del tutto. Si sa, la speranza è l’ultima a morire, ma non vuol dire che prima o poi non faccia una brutta fine anche lei.

Luca Galasso


Il diario di un altro
Durante la quarantena ho imparato a scrivere: è stata una reazione alla stanchezza d’avere sempre un’opinione su tutto, una disconnessione consapevole dalla realtà. Sono partito da un assunto: tutte le cose di cui ho bisogno stanno sulle pareti della mia stanza; il resto è roba tossica buona per chi ha fiducia nel domani. Metto da parte la speranza, così ho scritto nel diario che ho cominciato tenere; ho ripensato a una frase detta anni fa da un saggio, dove la speranza era descritta come una puttana che ci distoglie dalla rivoluzione: forse aveva ragione, anche se a me della rivoluzione non è mai fregato nulla.
Che palle, mi son detto, non mi succede mai nulla, sicché ho cominciato a inventarmi delle storie, tanto il diario non l’avrebbe mai letto nessuno. Le mie giornate si sono ripetute una uguale all’altra come in quel film con Bill Murray finché non sono trascorsi tre mesi, ma non c’è stato alcun finale conciliante. Sono poi andato a stampare il mio diario in copisteria: troppa roba, ho pensato, non ho mica voglia di leggerlo daccapo, sarebbe quasi meglio tornare a lavorare. Invece poi l’ho riletto: quelle cose le avevo davvero scritte io? A furia di scrivere son diventato più saggio; anche più simpatico, credo. Mi sento come il vecchio divenuto più allegro perché, per l’appunto, ha perduto ogni speranza. Ah, finalmente ho qualcosa di vero da scrivere: domani si va a cena fuori. Mi sento meglio. Viene anche Roberto: ha detto che le mascherine le porta lui.

Marco Renzi


Crescere da fermi
La prima lezione di questi mesi è stata: non rimandare. Due anni a Roma e non ero mai entrata al Colosseo. Poi un giorno, col sole di marzo e il silenzio pre-pandemico, lo vedo senza code e dico: entro. Il Palatino no, lo vedo domani. L’indomani era già chiuso. Il susseguirsi dei giorni non è che questo, cogliere e perdere l’attimo.
Anche i programmi meglio farli con parsimonia: quelli belli, se saltano, ci deludono, e un impegno cancellato non ci solleva mai del tutto, lascia un senso di “ho sprecato una buona preoccupazione”. Nel qui e ora c’è sempre qualcosa da fare, e non dico leggere libri o imparare a suonare la chitarra. Qui e ora è anche un pensiero o un’emozione inaspettata, rimanere spiazzati e senza parole anziché dare per forza una spiegazione a tutto. Difficile accettare che il tempo non è un secchio da riempire.
Dubito che la quarantena ci abbia realmente cambiati, al massimo ci ha restituito il nostro riflesso: di consumatori, pacman che devono mangiare per andare avanti, andare avanti per poter mangiare. Invece si cresce anche da fermi, anche solo chiedendosi come se la passano gli altri o nella frustrazione di qualcosa che manca e poi, in fondo, non serve (ve lo dice una che ha traslocato quand’era tutto chiuso e, dopo aver misurato ogni millimetro di spazio arredabile, si è affezionata al vuoto).
Per la prima volta penso alla rinuncia come a qualcosa di fecondo: vorrei poter dire di star guarendo dalla FOMO, la Fear of missing out psicosi del nostro tempo, o che sto imparando a scegliere. Ma la normalità torna già troppo in fretta.

Silvia Seminara


Cosa sarà la normalità
Devo ammettere di non aver mai sentito un bisogno tale della mia normalità come quello che ho provato durante il confinamento sociale che mi ha relegato in casa che era ancora inverno e me ne ha fatto uscire che era già praticamente estate. Non intendo ovviamente quella normalità banale e patetica che è disposta ad ingannarsi pur di non ammettere quanto fosse sgradevole una situazione del genere. Ma una normalità che si riduceva il più delle volte alla pura e semplice possibilità di disporre della propria persona: uscire per fare due passi con un amico (quando ancora era possibile) senza venire insultati perché non era decente “fumare come se niente fosse”; comprarsi una vaschetta di gelato e un paio di birre in un minimarket semideserto senza che questo gesto potesse essere giudicato disumano e irrispettoso; non doversi fare i patemi d’animo per arrivare al tabacchi trecento metri più giù lungo la via piuttosto che fermarsi a quello sotto casa regolarmente a corto dei tabacchi che fumo io.
Ora che, bene o male, per tanti quella normalità sembra essere di nuovo una realtà, mi auguro che chi ne è tornato in possesso colga l’occasione per non farsi riassorbire completamente, ciascuno per sé, delle proprie minute miserie. Mi auguro che in un presente forse più normale ma assai meno promettente di quanto non fosse la normalità (già non troppo rosea) cui eravamo abituati, si sceglierà – in un quotidiano da non dare comunque per scontato – di non farsi erodere margini di vita sempre maggiori fino a spostare l’asticella della normalità.

Niccolò Sbolci


Il trionfo dell’incapacità
Per anni i populisti (di qualunque colore) hanno manipolato spudoratamente i dati economici, addebitando alle forze progressiste persino i suicidi di imprenditori stritolati dalla crisi. Ora una parte rilevante del mondo è nelle mani di governi che non credono nelle democrazie come le abbiamo conosciute, e qual è il risultato? Nelle prime tre posizioni per numero di contagiati svettano paesi guidati da presidenti reazionari: gli Usa di Trump, il Brasile di Bolsonaro, l’India di Modi. Al quarto posto la Russia, autocrazia guidata da un ex membro del Kgb. Al quinto c’è il Perù, dove il parlamento è in stallo da mesi. Quanto al numero di morti, al primo posto ci sono nuovamente Usa e Brasile; al terzo e quinto il Regno Unito e il Messico, amministrati da presidenti populisti (di destra, Johnson, e sinistra, Lopez Obrador) che per settimane hanno stretto mani e abbracciato gente senza muovere un dito; al quarto posto l’immancabile Italia, governata per metà da un partito-setta che da anni predica l’inutilità del Parlamento e l’ostilità nei confronti dell’Ue. Con la stessa logica verrebbe da dire che sovranisti, populisti e sostenitori del ‘caos antisistema’ sono degli assassini, ma ancor più che nelle loro intenzioni malevole la colpa sta nella loro totale incapacità. Quando l’emergenza sarà finita dovremo affrontare questa continua manipolazione con le armi del voto, per risbatterli nel nulla da cui provengono.

Vanni Veronesi


I corpi assenti del virus
Corpo. Mai come in quei mesi di segregazione causa Covid abbiamo sperimentato la brutale problematicità dei nostri corpi. Corpi addensati, corpi appiccicati alla fila per il supermercato, eufemisticamente ‘distanti’ per quel solo metro che dovrebbe proteggerci l’uno dall’altro; corpi stipati in case diventate ora improvvisamente minuscole, soffocanti. Corpi assenti, infinitamente separati dall’impossibilità di potersi congiungere con il corpo altrui. Corpi esiliati, corpi stigmatizzati: il corpo è il primo veicolo del contagio, e non a caso nel suo etimo porta con sé la memoria di quel contatto bandito. Corpi che ardono a vuoto, segnati dall’invincibile nostalgia delle altre epidermidi; corpi che così appassiscono, diventano insensibili, goffi, e perciò devono nuovamente essere addestrati prima di essere reintrodotti nelle file della società. Corpi estremamente perfezionati e curati, ai quali si dedica una forsennata ascesi onanistica al ritmo dei personal trainer su Instagram. La normalità è la nostra piccola Itaca, e non possiamo smettere di sognarla. Corpi immobili, sfatti come i loro letti; corpi che parlano dimenandosi; corpi che sognano rivolti alla finestra. Ma cosa può, alla fine, un semplice corpo?

Davide Cherubini


Il cambiamento viene da dentro
Il 2020 è stato identificato come l’anno del cambiamento. Secondo i Veda, antichissimi testi sacri dell’India settentrionale, stiamo vivendo Kaliuga un’epoca buia, oscura e dalla diffusa ignoranza spirituale. Quest’anno, per molti, si rivela essere di grandissima difficoltà non solo sul piano pragmatico, ma anche su quello interiore. Il 2020 è l’anno della scelta e sta noi decidere da che parte stare, e non basta dire “andrà tutto bene”: il cambiamento viene dall’interno di ognuno di noi. La nostra Terra va rispettata, amata, protetta accogliendo noi per primi la capacità di lasciar andare, accettando la sua grandezza, la sua energia molto più antica e istruita della nostra. È raro che ci vengano date delle avvisaglie così chiare per poter cambiare noi stessi, mettendo in dubbio tutti gli aspetti della nostra vita. Per me il 2020 ha significato migliorarsi a livello fisico, mentale, psicologico, spirituale, energetico. Il periodo del lockdown ci ha permesso di mettere in pratica il vuoto creativo: un miraggio in una società come la nostra. Siamo tutti viaggiatori di vita e che, come viandanti, dobbiamo necessariamente fermarci; arrestarci non significa non fare nulla, ma piuttosto recuperare il concetto dell’otium latino. È nel vuoto che arriva la creatività e, anche se questo vuoto spaventa, permette alla mente di rallentare: una bellissima lezione di vita, sta a noi decidere se accoglierla.

Alessia Ronge


Colmare il vuoto
Durante la quarantena ho avuto una marea di tempo: lo userò, mi dissi, per scrivere la mia tesi di dottorato e superarmi come studente. Avevo sempre desiderato un tempo vuoto, un tempo non assegnato che, pensavo, qualcuno era sempre riuscito a sottrarmi: colleghi molesti, amici nottambuli, liturgie professionali, interminabili trasferte da un capo all’altro di Firenze o dall’Arno alla Senna (più lunghe le prime delle seconde). La mia agenda stracolma, i miei biglietti A/R che sembrano mazzi di carte, tutto questo non c’era più – finalmente. Era un’occasione unica. Ho raggiunto i miei obiettivi? No. Così ho capito davvero quello che forse è sempre stato chiaro a chi è meno fortunato di me: il vuoto – di stimoli, di relazioni, di aspettative, di lavoro – ammazza più del pieno. Il vuoto mi ha schiacciato fino a quando, con la fine della quarantena, la mia agenda non ha ricominciato a riempirsi. Al tempo stesso, si è aperto un contrasto doloroso tra l’immagine di un paese che “riparte” e quella ancora imballata degli spazi in cui vivo: università, biblioteche e archivi hanno tolto i sigilli, nel migliore dei casi, solo a metà. Plastica rappresentazione del valore che le nostre classi dirigenti accordano alla ricerca, alla cultura o alla storia, si dirà. Ma anche esempio di ciò che accade in molti altri campi: le eccezioni influiscono sulle regole, il vuoto necessario può diventare preventivo o accidentale, fino a trasformarsi in abbandono, e ammazzarti quel che basta. Per questo ricorderò di tenere l’agenda piena e occupare gli spazi.

Emanuele Giusti

 

In copertina e nell'articolo, Roma e Napoli durante il lockdown fotografate da Alfredo Lembo


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