Non dimentichiamoci di Giulio
Il caso Regeni a due anni dalla sua scomparsa
Quando sentii la notizia della scomparsa in Egitto di un ricercatore friulano, tal Giulio Regeni, ero a Roma per motivi di studio, appena uscito dalla doccia del mio albergo di ultima categoria. Rimasi impietrito: non lo avevo mai conosciuto, ma sapevo vagamente chi fosse, considerata la vicinanza dei nostri due paesi d’origine e i numerosi amici comuni. Per giorni rimasi con il fiato sospeso, convinto che sarebbe riapparso dicendo «sto bene, nessun problema». Rimasi ancora più impietrito quando, nella solita stanza d’albergo di Roma, seppi dell’omicidio.
In quella prima parte di 2016 la mia vita era in una fase di svolta: mi trovavo nel turbine di cambiamenti radicali ed ero il tipico provinciale che scopriva la metropoli, con l’entusiasmo di chi al massimo era stato nella capitale in vacanza, a Parigi in gita di maturità e in Olanda a trovare i parenti. Giulio Regeni era invece un cittadino del mondo, fuori da qualsiasi retorica: abituato a muoversi in contesti internazionali, dal New Mexico a Cambridge, dall’ONU ai quartieri del Cairo, capace di passare dall’italiano all’inglese all’arabo (e immagino altre lingue ancora) con una facilità spaventosa, aveva già vissuto esperienze per me inimmaginabili. Prima di qualsiasi dolore, lo ammetto, provai un viscerale senso d’inadeguatezza: quanta miseria in me, quanta straordinaria vitalità in un ragazzo così formidabile, ritrovato ai bordi di una strada come un sacco dell’immondizia, nudo e mutilato al punto da far dire a sua madre Paola Deffendi: «Non vi dico cosa hanno fatto a quel viso. Vi ho visto tutto il male del mondo. L’unica cosa che vi ho ritrovato era la punta del suo naso».
Giulio Regeni, ritrovato ai bordi di una strada come un sacco dell’immondizia, nudo e mutilato al punto da far dire a sua madre Paola Deffendi: «Non vi dico cosa hanno fatto a quel viso. Vi ho visto tutto il male del mondo»
Nei giorni successivi osservai il dolore degli amici di Giulio: persone con cui avevo viaggiato, frequentato l’università, conversato in treno, cenato allegramente, erano improvvisamente diventati protagonisti di interviste, dibattiti, comunicati stampa. Non riuscii a dire una sola parola, né a partecipare al funerale a Fiumicello: c’era qualcosa, in quella storia atroce, che avevo deliberatamente scelto di tenere lontano, tanto più che negli stessi giorni ero stato trafitto da un’altra notizia tragica, completamente diversa ma molto più vicina a me (la morte assurda e inspiegabile di un amico attore, altro caso finito sui media nazionali). Ripensai alle parole di un altro amico che sarebbe scomparso meno di due anni dopo: «il dolore tuo proprio, quello e non altro». Il dolore mio proprio, quello e non altro, si manifestò nella distanza, nel non voler aderire a gruppi, movimenti, sit-in, manifestazioni, a cui invece parteciparono persone a me carissime, con un coraggio che io non ebbi; si manifestò nel silenzio di chi, sgomento, vede la crudeltà della storia entrare nel cortile di casa.
Oggi, a due anni di distanza, l’elaborazione di quel dolore non è ancora completa. Di recente ho visto la sorella di Giulio e non sono nemmeno riuscito a sostenere l’incrocio del suo sguardo: rimane vivo, in me, quel senso di inadeguatezza assoluta. Ma arriva un momento in cui parlare è un dovere verso se stessi e verso gli altri, nonché – per quello che vale – un modo per onorare la memoria di Giulio Regeni e la straordinaria dignità della sua famiglia, che lotta senza sosta per la verità.
Già, la famiglia Regeni. Quanto è facile sputare sentenze sul fatto che i genitori «rompano le palle con il loro figlio», commenti letti e sentiti da fior di educatori e intellettuali. Ma si sa che in Italia le vittime e i loro familiari sono sempre colpevoli: alla sorella di Stefano Cucchi, alla mamma di Federico Aldrovandi, al padre di Gabriele Sandri si guarda con fastidio; il padre di Ilaria Alpi è morto, mentre la madre è ancora viva, con sommo disappunto di molti “servitori dello Stato” che la vorrebbero fuori dai coglioni; ai familiari delle vittime del terrorismo rosso si continua a chiedere comprensione, perdono, riappacificazione, mentre in tv sfilano ancora i brigatisti e i loro ideologi. È un paese che è riuscito a creare i morti ‘di destra’ e i morti ‘di sinistra’, quelli di serie A di serie B, quelli corretti e quelli scorretti: un paese che si è dimenticato la lezione civile e morale del comunista Pavese, quando nel finale de La casa in collina invocava il rispetto – non certo la giustificazione – per i cadaveri dei repubblichini («dalla parte sbagliata si muore / in una bella giornata di sole» dirà Francesco De Gregori nel Cuoco di Salò, proprio nello spirito di Pavese).
Giulio Regeni era marxista, dicono, aveva intrapreso (ma la questione è dibattuta) una collaborazione con Il manifesto, era vicino alle ragioni del terzo mondo. È bastato questo per renderlo antipatico a molti
Giulio Regeni era marxista, dicono; aveva intrapreso (ma la questione è dibattuta) una collaborazione con Il manifesto; era vicino alle ragioni del terzo mondo. È bastato questo per renderlo antipatico a molti, nell’epoca della presunta ‘caduta delle ideologie’, e far dire ad alcuni che in fondo era un ragazzino, un sognatore ingenuo (come se l’ingenuità fosse una colpa, anziché una caratteristica degli animi gentili), quando non un sobillatore di popoli in un momento di forti proteste antigovernative. Abile, da questo punto di vista, la mossa dell’establishment egiziano, che a un anno dalla morte di Giulio ha fatto uscire un video in cui la sua futura spia lo riprendeva con una microcamera nascosta in un bottone: un estratto di 4 minuti da una ripresa di un’ora e 55 minuti in cui, tu guarda il caso, Regeni parla di denaro inglese destinato ai sindacati egiziani. Chi ha un po’ di familiarità con i grandi misteri italiani sa che questa è una delle modalità tipiche del depistaggio: far uscire un tassello di verità tenendo ben coperto tutto il resto del mosaico (la vicenda delle carte di Aldo Moro è forse l’esempio perfetto). Perché a spulciare le trascrizioni complete del video si scopre che, in realtà, Regeni non ha mai promesso alcunché, semmai si è opposto a improbabili richieste di denaro a fini personali. Ma quanti sono, ormai, quelli che leggono le notizie dalla prima all’ultima riga, nell’era della condivisione istantanea? Intanto, però, il fango è arrivato a destinazione: nella memoria collettiva di molti Giulio Regeni rimarrà quello che offriva soldi inglesi a un sindacalista egiziano per chissà quali fini. Uno che, nella migliore delle ipotesi, «se l’andava cercando», come disse Giulio Andreotti in merito a Pier Paolo Pasolini e a Giorgio Ambrosoli. Opinione diffusa anche a livello politico, manifestatasi in gesti incommentabili come l’eliminazione dello striscione in ricordo di Regeni dal comune di Trieste.
D’altro canto credo che non giovi nemmeno il peana celebrativo. Mi chiedo quale senso abbia trasformare il ricercatore friulano – come ho visto fare in alcuni casi – in una specie di romantico guerrigliero terzomondista, figura che mai avrebbe voluto incarnare. Non si riesce, in questo paese assurdo, ad affermare un concetto semplicissimo: Giulio Regeni è morto semplicemente perché faceva il suo lavoro. Un lavoro rischioso, complesso, molto più di quanto gli era stato prospettato dai suoi simpaticissimi relatori a Cambridge – il cui comportamento reticente meriterebbe una riflessione –, ma comunque il suo lavoro, svolto con tenacia e rigore, in un Egitto dove un progetto di ricerca equivale a un attentato al potere. Quello stesso potere che, attraverso la sua polizia, al momento del ritrovamento del cadavere ha parlato alternativamente di incidente stradale, di omicidio a sfondo omosessuale e di assassinio legato allo spaccio di stupefacenti, per poi passare ai depistaggi veri e propri, come l’episodio dei documenti di Giulio miracolosamente trovati a casa di un rapinatore ucciso dalla polizia (per quale motivo un rapinatore dovrebbe conservare i documenti della sua vittima? per farsi scoprire?).
Non si riesce, in questo paese assurdo, ad affermare un concetto semplicissimo: Giulio Regeni è morto semplicemente perché faceva il suo lavoro
Chi ha ucciso, quindi, Giulio Regeni? Questa la posizione di Amnesty International (dal rapporto Egitto: ‘Ufficialmente, non esisti’. Scomparsi e torturati in nome della lotta al terrorismo):
Amnesty International non dispone di informazioni a sufficienza per poter determinare se il rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni siano stati perpetrati da forze di polizia egiziane, individui che si oppongono al governo egiziano, criminali o altri. Tuttavia, le circostanze della scomparsa di Giulio Regeni e la corrispondenza tra le ferite riscontrate sul suo corpo e i metodi di tortura utilizzati di frequente dalle forze speciali in sede di interrogatorio indicano che sussiste un’effettiva possibilità che le forze di sicurezza egiziane siano coinvolte nella scomparsa, nella tortura e nell’omicidio del ragazzo. La mancata volontà delle autorità egiziane di condurre indagini appropriate e complete sull’omicidio di Giulio Regeni ha rafforzato tali sospetti. In seguito all’orrore che la morte dello studente italiano ha suscitato a livello internazionale, le autorità egiziane hanno annunciato di aver avviato un’inchiesta sul decesso di Regeni. Tuttavia, la fiducia nelle indagini è stata ulteriormente minata quando si è saputo che il capo del dipartimento investigativo scelto dalle autorità ha avuto una precedente condanna nel 2003 per aver torturato un uomo e che è sotto accusa per aver torturato attivisti, falsificato verbali della polizia e ucciso dei manifestanti durante le proteste di gennaio. Inoltre, il mancato riconoscimento da parte delle autorità egiziane delle centinaia di sparizioni forzate di cittadini egiziani e il rifiuto di condurre inchieste indipendenti in merito alle accuse di tortura alla quale sarebbero stati sottoposti gli individui detenuti dalla Nsa e dalle forze dell’ordine, nonché di perseguire penalmente i responsabili di tali torture, mettono in discussione la buona fede del governo e il suo impegno a voler determinare, oltre ogni ragionevole dubbio, chi si celi dietro il rapimento, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni.
Una posizione molto più complessa rispetto alla vulgata che parla di Amnesty come accusatrice, senza ‘se’ e senza ‘ma’, del governo al-Sīsī: ancora una volta basta leggere i documenti per capire che fra il bianco e il nero esistono svariate sfumature. In un paese dove l’esercizio della ragione viene scambiato per cerchiobottismo, rivendico il diritto alla complessità del pensiero: la stessa che non mi fa rimpiangere minimamente l’Egitto di Morsi, leader dei discussi, discutibili e tutt’altro che moderati Fratelli Musulmani (ci siamo già dimenticati le violenze perpetrate ai danni delle minoranze religiose durante la sua presidenza?). E nonostante questo sfido chiunque ad affermare che gli attuali vertici dello stato egiziano siano esenti da responsabilità: se anche non vogliamo credere alla testimonianza di Omar Afifi, ex dei Servizi segreti egiziani che da Washington ha descritto dettagliatamente l’assassinio di Giulio attribuendolo agli apparati di sicurezza del governo (la sua testimonianza è stata raccolta da Giulia Bosetti per la trasmissione Presadiretta), i depistaggi della polizia gettano un’ombra nerissima sul regime militare che dal 2013 tiene in pugno il paese delle piramidi. C’è anche chi ha parlato di un omicidio perpetrato dagli oppositori di al-Sīsī per destabilizzare e screditare il regime agli occhi del mondo, ma questa tesi ricorda piuttosto le teorie del complotto secondo cui le Torri Gemelle sarebbero state abbattute dagli stessi americani. Non c’è dubbio tuttavia che nell’Egitto di oggi sia in atto uno scontro interno fra i servizi segreti militari e quelli civili: una faida violentissima nella quale potrebbe essere finito, suo malgrado, proprio il ricercatore friulano.
L’Italia, in tutto questo, si è dimostrata ancora una volta debole e compromissoria. Non penso che reinviare l’ambasciatore al Cairo sia stato un errore (e in questo mi discosto dalla posizione della famiglia Regeni, a cui va comunque il mio appoggio incondizionato): uno stato sovrano non rinuncia alla sua presenza strategica in un paese straniero, semmai manda i suoi uomini migliori a battere i pugni sul tavolo. Sappiamo bene che dopo l’omicidio Matteotti la cosiddetta ‘secessione dell’Aventino’ ha spianato la strada all’affermazione del regime fascista; fatte le debite differenze, abbandonare l’Egitto al suo destino sarebbe solo una dichiarazione di resa al regime di al-Sīsī. Forse, e dico forse (sono pronto ad ascoltare le ragioni di chi la pensa in modo opposto), avere un ambasciatore potrebbe evitare, in futuro, ulteriori casi Regeni. Le colpe dell’Italia, semmai, sono altre. Una sostanziale passività di fronte alle assurde ricostruzioni della polizia egiziana; un’azione politica in Egitto affidata a personaggi improbabili; un eccesso di segnali distensivi quando invece bisognava mostrarsi inflessibili. Perché se è vero che l’Italia ha interessi strategici in Egitto, è altrettanto vero che senza l’appoggio dell’Italia il regime di al-Sīsī perderebbe un partner determinante per la sua politica, sia interna sia estera. Che il nostro paese si dimentichi sempre quest’altro lato della medaglia è quantomeno singolare (a voler essere ingenui), se non vergognoso (a voler pensare male). Anche l’Europa, tuttavia, dovrebbe uscire dal torpore e dimostrare un interessamento effettivo alla vicenda, al di là delle dichiarazioni di rito, ma mi rendo conto che invocare l’azione congiunta dell’Unione è diventato un esercizio di stile completamente slegato dalla triste realtà.
E intanto sono passati due anni. Il tempo, è sempre il tempo l’elemento chiave di queste vicende. Far passare i mesi, le settimane, gli anni, restituendo alle persone la loro quotidianità fatta di piccole cose
E intanto sono passati due anni. Il tempo, è sempre il tempo l’elemento chiave di queste vicende. Far passare i mesi, le settimane, gli anni, restituendo alle persone la loro quotidianità fatta di piccole cose, di vita da vivere, di problemi da affrontare, così da affievolire il ricordo di Giulio Regeni e far uscire allo scoperto le nostre miserie, i nostri «ancora con ‘sta storia’», i nostri «ma chissenefrega, ora basta». Oggi sappiamo come e perché è morta Ilaria Alpi, ma i tempi della giustizia non coincidono ancora con quelli della verità storica: se non vogliamo che il caso Regeni finisca sullo stesso binario, riportiamolo al centro del dibattito. In una campagna elettorale dove tutti gareggiano in promesse mirabolanti, sarebbe bello – pia illusione? – che qualche onorevole tornasse a parlare del ricercatore friulano. E a chiedere, come tantissimi in tutto il mondo, «verità per Giulio».
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