Nerone
Anzio, 15 dicembre 37 – Roma, 9 giugno 68
Al potere Lucio Domizio Enobarbo sale per l’ascendente che la madre Agrippina ha su quel Burro, praefectus praetorii, che morto Claudio (54) lo saluta imperatore col nome d’adozione, Nerone: salverà le apparenze con l’ordine senatorio per cinque anni d’oro, devoto all’immenso Seneca. Ma smania di far greca la persona del potere tra versi canti e corse, mentre pervertono quei conflitti al vertice che divorano il fratellastro Britannico (55), quindi Agrippina, ostile all’amata Poppea, e Burro, morto nel sospetto del veleno (62). Se ai confini cade Budicca britanna e Corbulone riprende l’Armenia subito riformata in vassallo partico, a Roma Seneca s’è ritirato sgomento e fibrilla il Senato: così, anche rivalutando l’argento contro l’oro dei latifondisti, il principe cerca e trova tra l’esercito e le classi popolari quel consenso che dopo l’incendio di Roma e gli espropri per la domus aurea il Senato gli nega, ormai congiurando con Pisone, Lucano, Seneca, Trasea Peto. Morti, com’è morto Nerone, fin da quando proclama la libertà della Grecia, nell’ebbrezza dei Giochi istmici, scatenando il malcontento nelle province: allora insorgono i generali d’estrazione senatoria, dal domato Vindice all’ancora indomito Galba, tradiscono i pretoriani di Tigellino; di qui il suicidio assistito e l’abbrivio d’un’immortale leggenda nera dell’Occidente.
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