Nella mia ora di libertà

Nel Belpaese persino la giustizia è sottoposta al giudizio. Quello del bar


In Galleria il servizio fotografico della manifestazione
del Popolo della Libertà a cura di Alfredo Lembo


Dike, inclita dea della Giustizia, assolvili. Assolvili perché non sanno quello che fanno.

Più di duemila anni dopo, di te, Dike, pare che non rimanga niente. Il tempo obnubila la memoria, e forse non ricordano più di quando sedevi composta di fianco agli dèi, e dall’Olimpo osservavi i mortali. Forse in loro è sbiadita l’immagine di te che eri principio regolatore della vita sociale, fondamento imprescindibile per tutti gli uomini che rifiutano la violenza, solida base della democrazia. Oppure non rimembrano di quando eri insindacabile, e di quando anche Socrate dovette accettare la pena che gli inflissero i giudici ateniesi, e andò incontro alla morte per volere della città. Di certo, in quella piazza di Ferrara, qualche giorno addietro, si sono dimenticati di te.

Perché la protervia con cui un sindacato di agenti di polizia ha manifestato la propria “solidarietà, amicizia, speranza, affetto” nei confronti dei colleghi condannati alla reclusione dopo sei anni di processi è inusitata. In seguito a tre gradi di giudizio e alla conferma della colpevolezza dei poliziotti accusati di omicidio colposo, la protesta inscenata è deprecabile. Soprattutto se avviene sotto le finestre dell’ufficio della madre del giovane, come un atto di gratuita offesa. Come un’ulteriore violenza. Tanto da costringere la donna a scendere in strada e mostrare la foto del figlio ucciso a quei poliziotti che adesso difendono caparbiamente dei comprovati criminali, anziché schierarsi dalla parte dello Stato. Una fotografia, però, basta per indurli a distogliere lo sguardo. Per lo meno, un minimo di speranza che non tutto sia perduto sussiste ancora. E la speranza acquista vigore nel momento in cui si levano le critiche e il biasimo, con le istituzioni che si dissociano dall’accaduto, circoscrivendolo ad un’iniziativa personale. Dal mondo della politica, il ministro degli Interni valuta provvedimenti disciplinari, la presidente della Camera esprime vicinanza alla madre, e il Senato propone un applauso per testimoniare la propria partecipazione alla vicenda. Persino il Popolo della Libertà prende posizione contro il sindacato, tramite le parole della senatrice Bonifrisco. E per una volta si trova in sintonia con la magistratura.

Ma nel Belpaese, ormai, si giudica la giustizia, e si assolve in piazza coloro che il tribunale condanna. Con un vocabolario minimo, si formulano verdetti senza appello davanti alla televisione, e ciascuno scrive la propria sentenza. Qualche volta, addirittura, indignati, si butta via la chiave. Al bar o dal parrucchiere, tra una sforbiciata e l’altra, non mancano le occasioni in cui si auspichi la pena di morte come rimedio assoluto, perché i criminali dopo un giorno sono già fuori un’altra volta. Ma nonostante una predisposizione pressoché naturale alla condanna più spietata e risoluta, c’è anche chi si dimostra indulgente.

Una bella foto ricordo davanti al tribunale di Milano. Qualcuno dei parlamentari del Pdl, magari, lo ha anche pensato, mentre cercava il proprio posto sulle scale del palazzo di giustizia, per fare bella mostra di sé, e posava per la stampa sotto una gigantografia di Falcone e Borsellino. Da quelle scale riempite di cravatte intonate alle camicie giungono dirompenti le parole di esacerbato sdegno del segretario Alfano per quella che definisce “emergenza democratica”, suscitando poeticamente l’immagine di una “gragnola giudiziaria” contro il Cavaliere. Una dimostrazione di dissenso che porta i deputati a disobbedire per una volta a Berlusconi e a manifestare senza il suo placet, come enfaticamente sottolineato dall’ex-ministro dell’Istruzione, Gelmini. Perbacco: ha quasi l’apparenza di una mobilitazione spontanea. Quel che ci vuole, nello spettacolo, è un tocco di ricercato ed ostentato patriottismo, sempre d’effetto, nonché di cauto rispetto delle istituzioni e della tradizione democratica: ecco che i dimostranti intonano l’Inno di Mameli. Un’occupazione lampo del tribunale, poi tutti a casa, alla spicciolata. Per oggi, basta così. Ma una messinscena così fine non è sufficiente. Contro la dura lex, sed lex, dunque, non resta altro che rispondere fuori dei tribunali, in strada, onde arrogarsi il plauso della gente, in luogo di quello della corte.

Sulla scia di un garantismo strumentale e presunto, e di una devozione personalistica senza eguali, allora, tutti a Roma. In treno o in autobus, a spese del Pdl. Compreso il tragitto in metropolitana. Forse Berlusconi è davvero così munifico come lo dipingono le Olgettine. Il fiume di manifestanti si insinua per le strade romane. Fino a piazza del Popolo, dove si riuniscono infine tutti i difensori del motore immobile della macchina del fango, per pendere dalle sue labbra. Eccolo, sale sul palco. Il suo personalismo si riconferma indiscutibilmente non appena prende la parola. Berlusconi si prodiga in un’ora di arringa contro le opposizioni del Pd e di Grillo in parlamento e l’opposizione della magistratura in tribunale. Cerca continuamente l’approvazione degli spettatori con domande retoriche, poi incomincia la predica. È pronto a dar battaglia ancora una volta a quei giudici comunisti che gli fanno venire la congiuntivite e a quelli coi calzini turchesi, fino in fondo. Grazie all’ars oratoria che lo contraddistingue, infiamma l’uditorio. E si dice pronto anche a battersi di nuovo, auspicando elezioni in breve tempo. Proprio come ai vecchi tempi. L’atmosfera è così nostalgica che qua e là spunta anche qualche bandiera di Forza Italia. La partita non è ancora conclusa, il Cavaliere è ancora in sella.
 


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