Nei sogni oscuri di David Lynch
Come l’incubo sfiora la realtà nell’opera del regista di Mulholland Drive e Twin Peaks, Strade perdute e Velluto blu
«Ho fatto un sogno che riguarda questo posto». Una sirena della polizia svanisce sullo sfondo mentre Dan, seduto al tavolo di un diner, racconta il suo incubo all’uomo che ha di fronte. «All’inizio del sogno io sono qui dentro, ma non è né giorno né notte, è tarda serata, diciamo. È tutto uguale a qui dentro, a parte le luci, e io ho una paura… una paura che non le dico. Tra tante persone, c’è lei in piedi laggiù, proprio dietro la cassa. E ha paura. Io mi spavento ancora di più quando vedo che lei ha paura, poi capisco di che si tratta. C’è un uomo, nel cortile qui sul retro. È lui la causa di tutto. Io lo vedo attraverso il muro, vedo la sua faccia. Spero di non dover mai vedere quella faccia, quando sono al di fuori del mio sogno». Dan la vedrà, comparirà all’improvviso da dietro il muro, nel cortile, e il suo incubo diverrà realtà.
In questa iconica sequenza di Mulholland Drive, premio alla miglior regia al festival di Cannes del 2001 e summa del cinema di David Lynch, c’è tutta la potenza della sua visione onirica della realtà. C’è anche un elemento distintivo della filmografia del regista statunitense, un meccanismo che si ripete ciclico in tante sue opere: la macchina da presa che si muove circospetta, che indaga lentamente intorno a sé nello spazio avvicinandosi piano piano a qualcosa – noi spettatori lo sentiamo – di pericoloso e terrificante. È un meccanismo che ritroviamo spesso nelle sue opere più personali (in Velluto blu e Twin Peaks, in Strade perdute e Mulholland Drive) in cui sembra dare all’occhio della macchina da presa la responsabilità di addentrarsi nel mistero, per svelare le minacce che vivono a poca distanza dai suoi personaggi. Per Lynch, l’incubo è sempre sulla soglia della realtà.
Il fumo sale le scale della casa di Fred in Strade perdute (1997)
Chissà per quale strana coincidenza astrale è toccato a due registi del sogno, Federico Fellini e David Lynch, nati entrambi il 20 gennaio, di diventare aggettivi. Eppure “felliniano” e “lynchiano” sono tutt’altro che sinonimi, anzi i loro mondi onirici sono antitetici. Nonostante si siano cristallizzati nell’immaginario collettivo con il bianco e nero di 8½, i sogni di Fellini erano colorati ed esuberanti, come dimostra il libro dei sogni che il cineasta riminese ha tenuto a cavallo tra gli anni Sessanta e i Novanta, tracciando su carta in verde, giallo e azzurro uomini volanti e mari e nuvole e seni procaci. I sogni di Lynch, invece, sono oscuri. Oscure sono le sue visioni, le sue atmosfere. Nella sua lunga carriera d’artista visivo, che comprende una serie di litografie ispirate proprio al finale di 8½, il Lynch pittore vive di rossi e di neri, di bianchi sporchi e blu notte, di figure distorte che abitano quadri dai titoli strani e inquietanti come Ero un giovane insetto, Donna con piccolo uccello morto o Brucio una pigna e la lanciò dentro la tua casa, scritti direttamente sui dipinti con lettere irregolari e inchiostro sbavato. I quadri di Lynch, fantasmatici e surreali nello stile del suo idolo Francis Bacon, sembrano un’estensione su tela dell’universo di Eraserhead, animati dalla stessa oscurità che anima tanti squarci del suo cinema. Se “felliniano” è un sogno suggestivo, è festoso, caricaturale, un grottesco da carnevale, “lynchiano” è un incubo tattile, oscuro, è un grottesco funebre.
Il primo produttore a rendersi conto del genio di David Lynch fu un’icona del cinema comico come Mel Brooks, che gli affidò la regia di The Elephant Man folgorato dalla visione di Eraserhead
Proprio per questa sua intrinseca cupezza, resta magico e bizzarro il fatto che il primo produttore a rendersi conto del genio di David Lynch fu un’icona del cinema comico come Mel Brooks, che con la sua Brooksfilms negli anni Ottanta produsse gioielli come La mosca di Cronenberg e che gli affidò la regia di The Elephant Man folgorato dalla visione del suo esordio Eraserhead – “You’re a madman! I love you!”, furono le parole che pronunciò abbracciando Lynch non appena uscito dalla sala. «Tutto ciò che voleva dire surrealisticamente e simbolicamente, lo diceva in maniera molto brillante, molto chiara», disse Brooks anni dopo in un’intervista, raccontando come la cosa che lo aveva meravigliato di più era la limpidezza con cui aveva messo in scena il suo universo tanto particolare.
I cadaveri in cui si imbatte Jeffrey nel finale di Velluto blu (1985)
Per quanto tutto il cinema sia in primo luogo immaginazione, il regista statunitense è stato davvero capace – uno tra i pochi – di mettere in immagini in maniera lucidissima le visioni che abitavano la sua mente, capace di rendere gli spettatori partecipi del suo immaginario dando loro una chiave per il territorio del sogno. Se la psicanalisi ha mostrato le vie in cui il mondo reale può contaminare il nostro mondo onirico, per opposto Lynch ha rivelato un universo in cui il mondo onirico tracima dai bordi dell’irreale e invade la realtà fisica, facendosi fantasia concreta, incubo plastico. È per questo che le sue visioni ci inquietano così tanto. Non per quanto sono terribili o atroci o sanguinolente, ma perché sono così vicine. Il terrore, in Lynch, si nasconde oltre l’anta di un armadio e al di là di una tenda, dietro al muro di un cortile o dietro al divano di casa, sul fondo di un corridoio buio in cui non riusciamo a vedere. È un terrore a portata di mano, che vive dietro l’angolo, e per questo ne sentiamo più forte la stretta.
Nel cinema di Lynch, il mondo onirico tracima dai bordi dell’irreale e invade la realtà fisica, facendosi fantasia concreta, incubo plastico
In universi popolati da uomini che sembrano marionette, solo in parte abitati da loro stessi e molto più di frequente da altri – da controparti oscure, alter ego inconsci, entità soprannaturali –, è la concretezza delle sue fantasie a renderle così vivide. Non è nell’astrazione dal reale che si esprime il suo immaginario onirico, è piuttosto nell’eccesso di realtà che gli incubi di Lynch prendono forma. Le sue inquietudini si manifestano intorno a noi, ma soprattutto nei luoghi che ci sono familiari – già in Eraserhead, dove il protagonista Henry è costretto ad allevare un neonato mostruoso nel suo appartamento – e dentro le mura che dovrebbero proteggerci dalle minacce del mondo esterno. Ma le minacce sono già all’interno. Si nascondono nella placidità dei nostri salotti, nelle stanze in cui non siamo, in corridoi di cui non riusciamo a vedere la fine. Abitano l’appartamento di Dorothy in Velluto blu e l’abitazione di Fred in Strade perdute, abitano, ça va sans dire, la casa di Laura Palmer.
Fred contempla il corridoio buio in Strade perdute (1997)
L’androne del condominio di Henry in Eraserhead (1977), con il pavimento che sarà della Loggia Nera in Twin Peaks
Il piccolo Pierre Tremond in Fuoco cammina con me (1992)
A pensare a tutte le creature particolari del suo universo di nani, fantasmi, demoni e assassini e a metterle a confronto al candore che la figura di Lynch ha sempre espresso – il volto buono, la voce quasi infantile, l’apparente naturale gentilezza, l’ironia peculiare – diventa ancora più evidente e limpido il suo genio. L’uomo che ha partorito alcuni degli incubi più inquietanti del cinema di fine Novecento è lo stesso che negli ultimi anni di vita faceva buffe previsioni del tempo sul suo canale YouTube e promuoveva la meditazione come balsamo spirituale. Una contraddizione che in lui conviveva con grazia e che lui stesso, in un’intervista con il regista e critico Chris Rodley che gli chiedeva come facesse a conciliare questi due lati di sé, spiega con profondità e semplicità: «più oscurità si riesce a raccogliere, più luce si riesce a vedere».
Per il modo in cui esponeva così candidamente la propria contraddizione, per la genuinità con cui aveva sempre condiviso i suoi sogni più proibiti con gli spettatori, il regista statunitense aveva creato negli anni un rapporto privilegiato con il proprio pubblico. Per questo in tanti hanno sentito di perdere qualcuno di importante quando mercoledì 15 gennaio 2025, cinque giorni prima del suo 79esimo compleanno, David Lynch è scomparso per le complicazioni di un enfisema polmonare. Qualcuno di prossimo come prossimi erano stati gli incubi che aveva condiviso con noi, tanto vicini alla nostra realtà da penetrarla e rimanervi dentro per sempre.
Mi sono sempre piaciuti entrambi gli aspetti e credo che per apprezzarne uno bisogni conoscere l’altro – più oscurità si riesce a raccogliere, più luce si riesce a vedere
In tanti, forse, avrebbero voluto salutarlo come lui salutò Fellini, mano nella mano nell’ospedale di Roma dove si incontrarono nel 1993, pochi giorni prima della scomparsa del cineasta riminese. «Signor Fellini», gli disse Lynch, «il mondo intero sta aspettando il prossimo film». Lui invece ha scelto di andarsene con un’ultima apparizione sul grande schermo, in The Fabelmans di Steven Spielberg, che nella sua opera più personale l’aveva voluto per interpretare un altro gigante della cinematografia statunitense: John Ford. Nelle sue vesti, con in bocca un enorme sigaro e sul mobile un ripiano stracolmo di premi Oscar, Lynch lascia un suggerimento al giovane protagonista. Per rendere un’immagine interessante e originale, gli dice, bisogna fare una sola cosa: spostare l’orizzonte. Come lui ha fatto, film dopo film.
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