Morire senza nome in un carcere italiano

Il suicidio di un 23enne nel carcere La Dogaia di Prato e il silenzio generale dei giornali e delle istituzioni

Parlare di carcere in pubblico provoca sempre reazioni interessanti negli interlocutori. Le idee più diffuse sul carcere prevedono che non sia necessario promuovere un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti: la privazione o restrizione della libertà personale è generalmente vista come un’adeguata misura punitiva nei confronti di chi ha infranto la legge, con poche distinzioni rispetto alla violazione commessa. Per alcuni, anzi, la via giusta è una recrudescenza della carcerazione. In linea di massima quanto più aspra è una condanna tanto più si registra soddisfazione nell’opinione pubblica. A questi luoghi comuni si accompagna quasi sempre una profonda inconsapevolezza della realtà carceraria italiana: i due mondi della detenzione, penale nelle carceri e amministrativa nei centri per il rimpatrio, sono dimensioni parallele che non devono mai incrociare la vita delle persone al di fuori, quelle che non delinquono e si presume quindi siano persone per bene. Scriveva Angela Davis – attivista e docente statunitense a sua volta detenuta in California tra il ’70 e il ’72 – in un passaggio del suo Aboliamo le prigioni? che è assai utile recuperare oggi, a più di 15 anni dalla pubblicazione italiana:
 

In generale, si tende a dare il carcere per scontato. È difficile immaginare la vita senza di esso. Al tempo stesso, c’è riluttanza ad affrontare le realtà che nasconde, si ha timore di pensare a ciò che accade al suo interno. [...] Siccome sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che chiunque, compresi noi stessi, possa diventare un prigioniero, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita.


Questo antefatto può aiutare a comprendere il clima di indifferenza in cui si è verificato un mese fa il suicidio di un giovane detenuto di nazionalità turca alla Dogaia, la casa circondariale di Prato. Il ragazzo aveva 23 anni e si è impiccato nella sua cella nel pomeriggio di domenica 24 maggio; trasportato in ospedale, è morto tre giorni dopo. Questo e pochissimo altro è quanto si sa di lui, perché il primo dato che si propone in maniera evidente a qualsiasi osservatore è il velo di disinteresse mediatico da cui questa vicenda è coperta. Quasi nessuno tra gli organi di informazione locali ha registrato la notizia nel momento del suicidio, nonostante avessero ricevuto l’agenzia Ansa che ne dava atto; pochi e brevi trafiletti sono stati stampati o pubblicati online al momento del decesso. Un solitario necrologio del Tirreno, il 29 maggio, segnala a pagina 19 la singolare concomitanza tra il suicidio e la morte di un altro detenuto il giorno precedente, causata a quanto sembra da un malore improvviso. Un suicidio in carcere dunque non è una notizia di particolare rilevanza, né una questione da approfondire in un’inchiesta giornalistica. Tantomeno lo era un tentativo di suicidio: i casi sono più di 1000 all’anno, come registrano i rapporti dell’associazione Antigone e del “notiziario dal e sul carcere” Ristretti Orizzonti. Il detenuto senza nome della Dogaia è stato il diciottesimo del 2020, in Italia, a fare questa fine; dopo di lui altri nove commetteranno lo stesso gesto, portando il totale, per ora, a 27.

Nei giorni successivi alla tragedia si sono fatte notare alcune eccezioni all’incuranza generale che hanno permesso una ricostruzione almeno parziale di quanto accaduto. Oltre alla Procura, che ha subito aperto un fascicolo d’indagine e ordinato l’autopsia sul corpo, una settimana dopo la morte il deputato Roberto Giachetti, eletto nel vicino collegio di Sesto Fiorentino, ha presentato alla Camera un’interrogazione scritta rivolta al Ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Nell’atto, ancora in attesa di risposta, si chiede conto di un’eventuale indagine interna «al fine di verificare se nei confronti del detenuto morto suicida siano state messe in atto tutte le misure di sorveglianza previste e necessarie»; difficile pensare che la vicenda avrebbe avuto questo esito, se il ragazzo avesse ricevuto tutte le tutele previste dalla legge e dalla costituzione. Giachetti cita anche la risposta del Ministro a una precedente interrogazione, anch’essa riguardante il carcere di Prato, in cui Bonafede minimizzava le criticità presenti ricordando che non si era verificato alcun suicidio nell’ultimo triennio, per poi essere nettamente smentito tre mesi dopo.
 

In diverse occasioni, nei giorni precedenti il tentativo di suicidio del ragazzo turco, gli stessi detenuti avevano segnalato il pericolo che lui potesse compiere gesti autolesionisti


A tentare di gettare luce su quanto accaduto in quel pomeriggio di fine maggio, però, sono soprattutto due vicini di cella del ragazzo senza nome, e la loro legale Sara Mazzoncini, penalista che si occupa di esecuzione penale. I due compagni di sezione, avendo assistito alla scena del rinvenimento del corpo del giovane da parte degli infermieri, hanno redatto a mano una memoria di quattro pagine, che Mazzoncini ha provveduto a consegnare alla Procura di Prato. Dal racconto emergono chiaramente i dubbi sulla gestione di questo caso; si scopre così che il giovane aveva già mostrato in passato attacchi d’ira e altri segni evidenti di sofferenza e come riferisce Mazzoncini «in diverse occasioni, nei giorni precedenti il tentativo di suicidio del ragazzo turco, gli stessi detenuti avevano segnalato il pericolo che lui potesse compiere gesti autolesionisti. All’amministrazione carceraria, secondo quanto riportato nel memoriale, era stato riferito che il 23enne appariva fragile, che soffriva molto la carcerazione». Nonostante questo, al momento del gesto il detenuto si trovava in cella da solo, una circostanza non usuale e per ovvie ragioni comune a moltissimi altri suicidi. Perché, una volta riconosciuta la sua condizione, non si è provveduto a trasferire questo ragazzo in una struttura più opportuna, o quantomeno a evitarne l’isolamento?

I compagni aggiungono ulteriori informazioni al quadro, rendendo la vicenda ancora più cupa. Il ragazzo, condannato in primo grado, aveva già scontato circa due anni di reclusione dei tre previsti dalla sentenza e aspettava la discussione dell’appello il 28 maggio, quattro giorni dopo il suicidio. Non si hanno notizie sulla sua famiglia. Sempre dalla memoria si apprende che il giovane avrebbe espresso la volontà di tornare a casa; un diritto, quello di scontare la pena nel proprio paese d’origine, garantito dalla convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato nel 1989, ma attuabile solo quando la condanna è definitiva e non si è sottoposti a misura cautelare detentiva. Come se non bastasse tutto questo, i due detenuti manifestano rimostranze anche sui soccorsi prestati al momento del ritrovamento del corpo, definiti «inadeguati» e «non tempestivi».
 

I problemi della Dogaia di Prato sono ben noti alle autorità competenti. Al 29 febbraio, prima dell’emergenza Covid-19, il carcere di Prato contava 629 reclusi a fronte di una capienza di 589


Com’è possibile che si verifichi una serie così lunga di errori o negligenze, fino al tragico esito? Qual è il contesto che porta un ragazzo di 23 anni con problemi psichiatrici a togliersi la vita nell’indifferenza generale? I problemi della Dogaia di Prato sono ben noti alle autorità competenti e soprattutto a chi il carcere lo vive quotidianamente: già nel 2017 la sezione locale della Funzione Pubblica, sindacato Cgil dei dipendenti statali, aveva chiesto pubblicamente le dimissioni del direttore Vincenzo Tedeschi in seguito a una rivolta dei detenuti, per denunciare il sovraffollamento e le gravi carenze di personale. Al 29 febbraio, prima dell’emergenza Covid-19, il carcere di Prato contava 629 reclusi a fronte di una capienza di 589. Come riferisce Lorenzo Tinagli, consigliere comunale di Prato intervistato per Radio Radicale da Rita Bernardini, presidente della Ong Nessuno Tocchi Caino, nella Dogaia «si contano due psichiatri a tempo pieno e uno a tempo parziale»; «si riscontra un disagio diffuso, dal momento che tre detenuti su quattro assumono psicofarmaci». Anche gli educatori, figure fondamentali di ogni penitenziario, sono fatalmente insufficienti: solo tre a tempo pieno e uno part time, un rapporto quindi di 180 detenuti per ogni educatore.

Si direbbe che sia un mistero come la struttura possa funzionare in una situazione come questa; e difatti non funziona. A impedirne il collasso l’instancabile lavoro quotidiano e totalmente volontario di associazioni come il Gruppo Barnaba, che fin dall’inaugurazione del penitenziario nel 1986 cura una grande quantità di progetti e attività: a partire dal primo programma di istruzione secondaria fino a protocolli di reinserimento lavorativo e corsi professionalizzanti di panificazione, meccanica o cucito, passando per servizi imprescindibili come i colloqui e il guardaroba. Tutte queste attività sono state sospese allo scoppio dell’emergenza Covid-19, a peggiorare una situazione resa già estremamente difficile dall’interruzione dei colloqui con familiari e affetti in presenza. Alla luce di tutto questo, le cause potenziali del gesto del 23enne diventano più chiare, e con le sue quelle di numerosi altri che, nelle stesse sue condizioni, commettono gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio ogni anno, largamente ignorati dalle cronache.
 

Manca una visione politica complessiva su quello che si richiede al carcere. In pratica non interessa a nessuno, tranne che quando scoppiano rivolte o si verificano evasioni


La Garante dei diritti dei detenuti nel comune di Prato, Ione Toccafondi, ha terminato il suo mandato già da mesi, ma l’ha esteso in via ufficiosa in attesa di un nuovo bando che tarda ad arrivare. Commenta così l’accaduto: «In questi sei anni durante i quali ho svolto la mia funzione di Garante la situazione carceraria ha subito un’involuzione notevole. Manca, a mio avviso, una visione politica complessiva su quello che si richiede al carcere. In pratica non interessa a nessuno, tranne che quando scoppiano rivolte o si verificano evasioni, quello che succede tra le mura del carcere, e quale sia l’impegno e la fatica degli operatori e la volontà di cambiamento dei detenuti». La stessa disattenzione da parte della città è registrata da Tinagli nell’intervista a Radio Radicale. Rischia così di cadere nel dimenticatoio anche questa vicenda, ignorata dai giornalisti ed evitata dai politici di ogni livello, forse perché considerata una perdita di tempo, un argomento tabù, o coperta forse una forma di omertà socialmente accettabile. Oggi, a un mese e mezzo dall’accaduto, né il sindaco di Prato Matteo Biffoni né il direttore del carcere Vincenzo Tedeschi hanno rilasciato alcun commento sulla morte di un detenuto di 23 anni, che probabilmente resterà senza nome.

 

Fotografie di Mirko Lisella


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