Morire come Bobby Sands
Le parole dal carcere del martire del conflitto anglo-irlandese, tra gli Scritti dal carcere e Hunger di Steve McQueen
Se chiudo gli occhi posso vederlo lì, nel ventre di una cella dalla finestra oscurata. La luce di una lampadina cade dal soffitto, colpisce il suo corpo nudo, avvolto solo in una coperta, immerso nell’aria irrespirabile fatta di umori di urina, cibo putrido, escrementi che occupano gli angoli, insozzano le pareti. La schiena curva – se potessi scorrere le dita su quella schiena, basterebbero i profondi solchi tra le vertebre a testimoniarne la magrezza – sopra un lurido materasso, gli occhi stanchi, le mani impegnate a scrivere con la ricarica di una biro lettere minuscole su minuscole cartine di sigaretta e pezzi di carta igienica, questi sottratti al loro uso primario per diventare l’unico supporto di scrittura possibile nella bestiale realtà carceraria dell’Her Majesty’s Prison Maze, o semplicemente The Maze, prigione di Long Kesh, a 13 chilometri da Belfast. Nella sua cella simile a tomba, scrive:
Sono stanco come un vecchio, la mia testa è leggera e la fatica mi ricade addosso come un’ombra. Non posso credere di non essere neanche capace di camminare sul pavimento per cinque minuti. Io che correvo per chilometri nelle gare di corsa campestre, che nuotavo per chilometri e giocavo a calcio, adesso posso a malapena fare tre passi e col trascorrere del tempo divento sempre più stanco, non solo nelle gambe ma in tutto il corpo, e forse presto la mia mente lo seguirà, e penso che nelle gabbie delle tigri di Saigon almeno si può vedere il cielo.
Siamo a inizio anni Ottanta in Irlanda del Nord – in piena fase moderna del conflitto anglo-irlandese, definita storicamente “The Troubles”, ‘i disordini’ – e quel corpo «stanco come un vecchio» appartiene al giovane Bobby Sands, repubblicano irlandese della Provisional IRA, lo stesso ragazzo che verrà eletto al Parlamento britannico durante la sua incarcerazione e che, morendo a soli ventisette anni dopo sessantasei giorni di sciopero della fame il 5 maggio 1981, divenne il volto della strenua resistenza portata avanti dal suo popolo per la liberazione dell’Irlanda del Nord e per la riunificazione dell’intero territorio irlandese in quegli oscuri anni di storia britannica. La citazione proviene da La solitudine del mezzofondista storpio, uno tra i tanti testi che compongono i suoi Scritti dal carcere, raccolta di poesie e prose arrivata finalmente in Italia a settembre scorso grazie alla casa editrice paginauno, curata e tradotta per la prima volta in italiano da Riccardo Michelucci ed Enrico Terrinoni. Pagine e pagine redatte da Bobby Sands che denunciano le strazianti condizioni di vita dei prigionieri.
Bobby Sands si trova nel Maze dal 1977. Qualche anno prima, nel 1974, il governo del Regno Unito ha cominciato ad applicare la propria politica di criminalizzazione dei gruppi paramilitari irlandesi, una strategia volta a depoliticizzare la loro lotta per la libertà che consisteva nella revoca dello status speciale di prigionieri politici: nelle carceri, i repubblicani rinchiusi venivano così trattati alla stregua di comuni criminali e non godevano più del diritto ad indossare i loro vestiti, alla libera associazione, all’accesso ad attività ricreative e molto altro. In accordo con questa strategia, nel 1976 alla prigione di Long Kesh furono costruite in tempi brevissimi delle strutture dove chi si rifiutava di allinearsi alle regole vigenti veniva internato: i famigerati ‘H-Blocks’, blocchi a forma di H, con un’area amministrativa centrale e 4 ali di celle. Ricorderà anni più tardi un cappellano della prigione: «L’intera architettura dei Blocchi H non è una classica tipologia di architettura. È un’architettura che nacque come estensione dell’orribile situazione conflittuale», come se l’insieme della realtà di Long Kesh, della lotta, del Maze fosse stato «con violenza estruso dal dolore e dall’ostilità di quel periodo» per poi esser riposto dentro quelle costruzioni.
I Blocchi H erano il ricordo e la testimonianza tangibile, strutturale della natura orrorifica del conflitto che Londra ai tempi vide come “soluzione architettonica” per rompere la schiena al morale dei gruppi paramilitari irlandesi. Ma Londra si sbagliava. All’impossibilità di indossare i propri vestiti, i prigionieri si spogliarono e si coprirono solo con una coperta, divenendo blanketmen; ai soprusi dei secondini, i prigionieri cominciarono a rifiutare di uscire dalle proprie celle per lavarsi, da qui la dirty protest. Tutti tentativi di resistenza che innescarono una escalation di violenza da parte dei gestori del carcere, inflessibili come fu inflessibile il governo nei confronti della mancanza di umanità che si stava sempre più accentuando tra le mura dei Blocchi H, una mancanza di umanità formalmente taciuta all’opinione pubblica in favore di una propaganda dai toni sempre più intransigenti. È in questa atmosfera tragica, in questo clima politico segnato nel 1980 anche dall’arrivo di Margaret Thatcher a Downing Street, che Bobby Sands scrive dalla sua cella del Maze. E la prima domanda da porsi è quella che si pone anche Michelucci nella splendida introduzione alla raccolta:
Viene da chiedersi come sia stato possibile, in circostanze simili, mantenere la concentrazione e la lucidità necessarie alla scrittura di testi politici, e ancor più comporre opere letterarie […]. Eppure Bobby Sands riuscì a raccontare al mondo la sua condizione e quella dei suoi compagni, consegnandoci una testimonianza memorabile, che è anche uno straordinario atto d’accusa nei confronti dello Stato britannico.
A Long Kesh la scrittura venne usata come arma suprema di resistenza all’oppressione, non solo perché fu svolta in totale clandestinità – all’interno del carcere non erano consentito scrivere, avere penne, fogli o altro; i prigionieri nascondevano ciò che avevano dentro i loro corpi –, ma perché rappresentò l’unico strumento possibile per conservare la propria dignità tanto ideologico-politica quanto, più in essenza, esistenziale. Nelle mostruose condizioni a cui i detenuti furono costretti a vivere non era semplice procurarsi anche solo il materiale per scrivere e per Bobby Sands, mentre scriveva stando attento a non essere scoperto, persino rispettare le più basilari regole grammaticali, «la forma e la correttezza ortografica erano diventati un lusso che non poteva più permettersi» – tant’è che Michelucci e Terrinoni non sono intervenuti con alcun editing nei testi, così da non tradire lo spirito e le condizioni precarie in cui furono concepiti. Ed è proprio a partire da tutte queste considerazioni che le prose e le poesie del giovane militante sono diventate, man mano che venivano pubblicate dai giornali repubblicani, non solo il simbolo della causa irlandese, destando finalmente l’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche la voce di tutti i carcerati dei Blocchi H, il racconto corale di una predisposizione d’animo per cui, nonostante i soprusi, anche a costo della propria vita i detenuti proprio non ne volevano sapere di darla vinta al «tiranno eterno».
Man mano che venivano pubblicate dai giornali repubblicani, le prose e le poesie di Bobby Sands sono diventatenon solo il simbolo della causa irlandese, ma anche la voce di tutti i carcerati dei Blocchi H
Lo «spirito di resistenza», espressione che ricorre spesso nei testi, è infatti la spina dorsale dell’intera raccolta. Bobby Sands imprime sui fragili supporti che ha a disposizione tutta la determinazione nel non vedersi sconfitto di fronte al nemico, poiché sa di lottare per una giusta causa: la libertà. Con crudo realismo descrive nel dettaglio le torture subite: i pestaggi gratuiti ai cambi di cella, i lavaggi forzati con spazzole dalle setole come lame che non puliscono la pelle, ma la raschiano via, la violenza psicologica usata dai carcerieri per sfiancare la mente dei detenuti.
Quaranta ore, sudato fradicio
In lotta con il panico.
Il gioco dell’attesa è la prova peggiore,
Le loro tecniche io le conoscevo,
Ma non serviva a placarmi e calmarmi
Anzi mi logorava di più.
Crea analogie tra la logica carceraria dei campi di concentramento nazisti e quella messa in pratica dai secondini nel Maze. «I suoni della tortura e della morte. Li sento bene. Mi stanno strillando in faccia da ogni dove. I lupi di Dachau non sono diversi dai lupi di questo inferno». Le celle sono tombe, i Blocchi H dei gironi infernali da cui non si può uscire.
Accanto al senso di oppressione, alla costante contemplazione della morte e alla lotta quotidiana contro l’umiliazione, è il rapporto teso tra il corpo imprigionato e la libertà di mente e spirito a farsi sempre più insistente mentre si legge, poiché oltre alle violenze fisiche, ciò che più mina il morale dei detenuti è la privazione di luce naturale e l’oscuramento delle finestre, facendo insorgere quella che Sands definisce semplicemente “depressione”, il profondo sconforto derivante dall’impossibilità di distrarsi potendo anche solo guardare fuori dalla piccola finestra della cella. In Una volta avevo una vita, I frutti che la Gran Bretagna ha seminato, La finestra della mia mente e la speculare La finestra della tua mente, la visione verso l’esterno attraverso la finestra è l’innesco, la porta per potersi immaginare altrove, lontano da ogni patimento fisico e psicologico, magari immersi nella placida tranquillità della Natura, entità distensiva e benefica che spesso appare nei ricordi nostalgici della propria terra e dell’infanzia, e che altre volte muta nelle sembianze dello storno o dell’allodola, metafore alate di liberazione.
Penso che per molta gente, alcuni uccelli o il canto di un’allodola, un cielo blu o una luna piena, siano là, ma passino spesso inosservati. Per me significano esistenza, serenità, conforto, divertimento, qualcosa da osservare per aiutarmi a dimenticare le torture, la brutalità, le umiliazioni e i mali che circondano e aggrediscono la mia vita di tutti i giorni.
La qualità terapeutica della scrittura non si esplicita solo nei riferimenti alla Natura, ma pervade la raccolta prendendo molteplici forme: nelle poesie-canzoni di Sands – scritte spesso seguendo gli schemi ritmici e musicali delle ballads e che, come afferma Terrinoni in postfazione, «nascono da uno spirito di libertà che è in sé l’essenza del poetico» – si percepisce tutta la speranza affidata alle generazioni future, l’ottimismo riposto in una comunità che, da secoli, continua a non arrendersi: «Giace nel cuore degli eroi morti / E strilla in faccia al tiranno / Ha raggiunto le vette delle montagne / E bruciante si leva nei cieli. / Illumina il buio di questa cella / Rimbomba il tuono della sua forza / è “il pensiero che mai dispera,” amico mio / Quel pensiero che dice “Sono nel giusto”». C’è persino la voglia di prendersi gioco del “gioco del terrore” col sorriso, come nella poesia-canzone Giustizia Poetica, in cui Sands immagina di incontrare Dio alle porte del paradiso insieme a Roy Mason, ministro per L’Irlanda del Nord che in quegli anni inasprì le condizioni di vita dei carcerati, e che Dio non manderà in paradiso, bensì a scontare la sua pena nell’inferno dei Blocchi H.
È inconcepibile provare a immaginare l’esperienza di un ragazzino diciottenne, nudo, quando i secondini lo massacrano con i manganelli
Eppure, tra i canti al crepuscolo delle poesie-canzoni volti a instillare senso di condivisione e sopportazione tra i compagni, «in una quasi simbiosi tra etica ed estetica che è alla base del suo resistere permanente», per il giovane repubblicano alle volte persino la parola sembra non essere sufficiente per descrivere le atrocità, la lotta interiore per la preservazione della propria sanità mentale alla luce delle violenze. In Battaglia per la sopravvivenza, Bobby Sands si rivolge direttamente ai lettori e li invita ad un esercizio di empatia e immaginazione della loro condizione, cosa che però già in partenza sembra essere impossibile: «È inconcepibile provare a immaginare l’esperienza di un ragazzino diciottenne, nudo, quando i secondini lo massacrano con i manganelli […]. Per me è inconcepibile descrivere, figuriamoci per voi immaginare il nostro stato mentale quando siamo seduti ad aspettare che ciò accada».
È il film Hunger (2008) a raccogliere in spirito l’invito del giovane repubblicano a dare visivamente vita all’inconcepibile. La pellicola d’esordio del regista britannico Steve McQueen racconta lo sciopero della fame di Bobby Sands (Michael Fassbender) facendoci entrare dentro la realtà nauseabonda dei Blocchi H e soffermandosi in prima battuta sul ruolo dei carcerieri nella gestione della dirty protest. Non è un caso dunque che il film si apra proprio con un secondino intento a prepararsi una mattina come tante per andare a lavorare: mentre il lavandino finisce di riempirsi, possiamo osservarlo togliersi gli anelli e infine nell’acqua calda immergere le mani dalle nocche sbucciate per dar loro un po’ di sollievo; gesti secchi e abitudinari che danno l’idea di quanto la sua routine quotidiana sia imperniata sulla ricorsività della violenza. Nel silenzio di quel bagno, il cui candore già si pone in netto contrasto con la sporcizia bestiale che più avanti verrà mostrata all’interno dei Blocchi H, il viso del secondino si scruta allo specchio, in quegli occhi che, lo spettatore ancora lo ignora, già sanno cosa li aspetta. Ma McQueen – al contrario di Sands che nelle sue prose spende parole tutt’altro che lusinghiere nei confronti dei suoi carcerieri, spesso definiti come «fanatici d’odio» settario – spezza una lancia verso i secondini non solo mostrandone il volto umano tra lacrime e panico, ma soprattutto lasciando intendere quanto, tra i fanatici d’odio, ci fosse anche chi si sentiva complice suo malgrado di decisioni politiche prese altrove, in stanze del potere dove il fattore umano era stato totalmente sottomesso alla necessità degli inglesi di riconfermare la propria supremazia sui dissidenti.
McQueen dà risalto a tutti i rumori che rimbombano nel silenzio tombale del Maze, si sofferma sui corpi nudi dei detenuti, quest’insieme denutrito di muscoli e nervi in perenne stato di allerta
In tutto ciò però, per mettere davvero in scena l’inconcepibile, il regista decide di lavorare sui sensi dello spettatore, al fine di creare un’esperienza il più immersiva possibile: dà risalto a tutti i rumori che rimbombano nel silenzio tombale del Maze, dal più flebile sgocciolio al più straziante grido di dolore; fa sentire l’odore marcio delle celle sporche mostrando i prodotti della putrescenza, come i vermi che strisciano tra le mani di prigionieri dalle barbe incolte mentre dormono; si sofferma sui corpi nudi dei detenuti, quest’insieme denutrito di muscoli e nervi in perenne stato di allerta; indugia su tutti quei dettagli che a prima vista possono sembrare inutili e scontati, mentre nella realtà carceraria dei Blocchi H prendono tutt’altro valore, come il semplice giocare con una mosca appena entrata dallo squarcio di una finestra – una di quelle piccolezze che, al pari del «cielo blu» o la «luna piena» di cui parlava Sands, spesso passano inosservate, ma che per i detenuti, in quei momenti interminabili di reclusione, potevano rappresentare un attimo di distensione. All’interno della narrazione corale della realtà carceraria, mentre vediamo i secondini che perpetrano crimini nel Maze e i prigionieri che rispondono con i soli strumenti di cui dispongono – gli scarti dei loro corpi –, Bobby Sands è una figura da principio evanescente, ma che diviene infine centrale. Si contrappone alla sua figura fisica la voce fuori campo di Margaret Thatcher, di cui il regista inserisce le parole provenienti dal famoso discorso a Belfast del 5 marzo 1981, tenutosi quattro giorni dopo l’inizio dello sciopero della fame, a sottolineare quanto il destino di Bobby e i suoi compagni scioperanti fosse nelle mani della Thatcher, mani ferme, sporche infine del loro sangue.
In un film dall’estetica cruda e realista che – dialogando con gli scritti di Sands – non manca però di poesia, all’inscenare il lento deperimento psicofisico del giovane militante irlandese si accompagna l’arrivo, anche qui in qualità di entità consolatrice, della Natura sotto forma di uccelli che volano in cielo come richiamo alla libertà spirituale e alla libertà ultima, quella da tutti i fardelli dell’esistenza terrena. In questo viaggio vicino a Bobby rimane sua madre, Rosaleen Sands (Helen Madden), presenza costante nei pensieri del figlio anche negli Scritti dal carcere, dove ritorna più volte a infondergli coraggio col suo supporto incondizionato, o come interlocutrice privilegiata a cui dichiarare le proprie scuse, oltre che il proprio amore.
Allora perdonami, Mamma, solo un po’ di più
Per non averti amato tanto prima
Per la vita e l’amore che mi hai dato
Ti ringrazio per l’eternità.
Nella pellicola di McQueen, la dolcezza e la commozione di queste parole si riversano nei piccoli gesti che la donna riserva al proprio figlio allettato, scheletrico, ormai impossibilitato persino a parlare: un bacio sulla fronte e una carezza sono, infine, ciò che permettono al figlio di trapassare con serenità nel ricordo di sé stesso ragazzino che corre per i boschi – ultima metafora di un corpo spezzato nel fiore degli anni che, richiamando alla mente la citazione iniziale da La solitudine del mezzofondista storpio, avrebbe ancora corso e corso per i bellissimi campi della sua terra se solo gliene fosse stata data la possibilità.
In Hunger, un bacio sulla fronte e una carezza sono ciò che permettono al figlio di trapassare con serenità nel ricordo di sé stesso ragazzino che corre per i boschi, ultima metafora di un corpo spezzato
Così, in uno Stato che si considera esempio di civiltà, Bobby Sands muore. Muore in modo brutale e disumano insieme ai suoi compagni per opporsi alle violenze carcerarie e per far prendere coscienza agli inglesi, accecati dalla loro arroganza imperialista, della necessità di rivedere la propria condotta nei confronti dell’intero conflitto nordirlandese, a partire dal reinserimento dello status speciale. Il 5 maggio 1981 Margaret Thatcher, in un dibattito alla Camera dei Comuni, liquidò la morte del giovane con queste parole: «Il signor Sands era un criminale condannato e ha scelto di togliersi la vita. Era una scelta che la sua organizzazione non permetteva a molte delle sue vittime», sminuendo completamente il significato profondo del suo gesto. Ma, nonostante il tentativo della Thatcher di liquidare così la scelta umana e politica di Sands, ciò che rimane in memoria del giovane irlandese a quarant’anni dalla sua morte, grazie ai suoi Scritti dal carcere e alla sua fedele rappresentazione in Hunger, è soprattutto il suo profilo umano che, pur crescendo nella sofferenza, risplende tutt’oggi di grandezza perché non è mai scesa a compromessi, lottando sempre in difesa e in nome della libertà.
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