Molto rumore per nulla

Della vaghezza, ovvero come non tradire gli elettori e vivere felici

Improvvisamente, si assiste ad un disordine discreto, una composta e delicata indefinitezza che avvolge il panorama politico italiano. Ad una settimana dalle elezioni, il leitmotiv è l’incertezza. Un’incertezza pregnante, che distoglie l’attenzione dai problemi del Paese, che con il loro incombere sul quotidiano risultano un’ingombrante eredità che rischia di diventare quasi una tradizione. Le difficoltà per l’Italia si accumulano, e non si è in grado di intervenire per risolverle. Ma i giornali riempiono le loro pagine con tutt’altro. Si sprecano parole sui valzer delle alleanze, che già fanno figurare un governo di breve durata – un anno, un anno e mezzo al massimo – viziato fin da adesso dall’inconciliabile eterogeneità delle coalizioni, in cui si tentano le più disparate alleanze senza un intento ragionevole, se non quello di dare un’effimera parvenza di stabilità, prima che guerre intestine dilanino la maggioranza, e infieriscano ancora di più su di una nazione già provata.

Naturalmente, ci si interessa anche degli esclusi, gli incandidabili, che si sono ritrovati fuori dalle liste dei partiti maggiori. Esuli, adesso si trovano a dover rinunciare alla panacea del parlamento, e si preparano a essere giudicati come normali cittadini e, come tali, a rischiare anche il carcere. Tutto questo, però, si riduce ad un deleterio indugiare, con l’intento di procrastinare quanto più possibile un confronto compiuto sui programmi, o agende, o contratti, o decaloghi, o carte d’intenti che siano. Per le proposte, non c’è spazio. Alle proposte non si vuole intenzionalmente lasciare spazio, per non correre alcun rischio, per non manifestare che, in fondo, proposte non ce ne sono. Se non altro, il vantaggio sarà evitare di assistere per l’ennesima volta ad un lungo elenco di promesse disattese. La campagna elettorale si regge sul nulla, e, propugnando la causa del nulla, qualcuno vincerà le elezioni, e darà ad intendere di avere nulla sotto controllo, e ci ritroveremo ancora con un nulla di fatto. Mancano idee, manca il coraggio di cambiare, ed è questo ciò che ci condanna all’ennesima sconfitta, a preferire il compianto all’innovazione, un passato sicuro piuttosto che un futuro da discutere.

I giovani, anche in questo caso, sono rimasti i grandi esclusi, perché di nuovo soffocati da una generazione responsabile di una disfatta senza precedenti. La fiducia è venuta meno, violentata dall’evidenza di logiche opportuniste e di decisioni miopi. Il loro ruolo è ancora una volta di secondo piano. E la loro disaffezione senza precedenti. Una disaffezione esiziale, che porta molti, di tutte le età, a rifugiarsi nella meschinità del non-voto, che, oltre che un modo per calpestare i propri diritti, è anche un modo per tentare di estraniarsi ingenuamente da una realtà di cui si è parte, e che si presenta nella sua gravità ogniqualvolta si infilano le mani in tasca e si sente solo un lieve tintinnio. Ma il non-voto è tutto ciò che gli oligarchi della politica desiderano, giacché, indipendentemente dalle riflessioni en passant che si leggeranno sull’astensionismo, avranno la conferma che li legittima a continuare un’opera di disfacimento del Paese, sicuri della perpetuità della loro condizione.

I delusi della politica, quelli del sono tutti uguali, avranno anche da affidarsi ad un populismo grezzo e inconcludente, con l’incoscienza dettata dalla disperazione. Ci sarà chi si getterà nelle braccia di un comico, Grillo, che si crede l’Efesto della politica, e intende portare la gente – che ha ben poco a vedere con la gens – in parlamento. Con una polemica pretestuosa e miope, gli invasati del Movimento con le stellette si dicono pronti a sedersi sugli scranni, convinti di poter dare vita nuova ad un Paese con sterili proclami e grida belluine. Anche Ingroia, riproponendo una sinistra fallimentare, che vive di querimonie ed è incapace di consolidarsi, tenta di affascinare quanti sono ancora strenuamente convinti che tutt’oggi si predichino degli alti ideali che sono stati bistrattati dagli stessi che avrebbero dovuto tutelarli.

Ciò che, però, è veramente inaspettato è la ribalta di un Cavaliere che pareva ormai disarcionato, e che invece torna ad impugnare la spada. La televisione accoglie di nuovo un uomo dal sorriso brillante, che coniuga proposte ormai note da quasi vent’anni, ma mai realizzate, con l’invettiva più usata, riscoprendo a un tratto quell’ironia borghese un po’ antieuropeista che sfrutta il malessere diffuso. All’improvviso, Berlusconi torna a fare breccia nel cuore di quella classe media italiana che vive nella più scontata medietà, nel sentito dire e nella disillusione perenne. Ancora una volta, quel Berlusconi pare essere la soluzione alle difficoltà che ci affliggono, o, quantomeno, sembra un piacevole lenitivo, come una morfina per un male profondo. Il Cavaliere torna ad affascinare, e il populismo dilaga, e si insinua, e insinua la stessa democrazia.

Intanto, al centro, all’ombra di uno scudo crociato, sullo sfondo di un qualche vagheggiato modello ideale di società civile, Casini, Fini e Montezemolo, quasi come una divinità trina, si ritrovano per fornire il loro sostegno al Professore, e, celandosi dietro alla sua immagine distinta, propongono una restaurazione del Paese. Monti è l’uomo adatto per il progetto di innovazione su basi tradizionali che il centro ha sempre sognato. Perché, anche da candidato premier, Monti continuerà ancora ad apparire ad una parte degli italiani come il tecnico colto, dall’aria distinta e di una certa eleganza, l’uomo in cui l’Europa ha fiducia, il pacificatore dei mercati, estraneo alle turpitudini della politica cui siamo abituati, il vero primus inter pares. Poco importa se fin dal principio della propria esperienza alla guida dell’esecutivo ha agito da politico, per approntarsi la strada da percorrere al termine del proprio incarico: nell’immaginario collettivo rimarrà sempre l’intellettuale prestato al governo di una nazione, come una figura quasi idealizzata. Forse si sono già dimenticate le lacrime versate in questi mesi di estremo rigore, in cui ci si è fatto luogo con la forza dei decreti legge all’interno delle tasche dei cittadini, in nome di una nobile causa comune: riempire un serbatoio forato. Per appianare le effettivamente gravi condizioni finanziarie dell’Italia, si è scelto colpevolmente di seguire la strada più semplice, quella dell’aumento del prelievo fiscale, sulla quale i partiti di maggioranza hanno potuto invocare senza problemi il senso di responsabilità. Eppure, quando l’attenzione del mondo era concentrata su di noi, l’obbligato senso di responsabilità dei partiti sarebbe stato un’occasione da cogliere per avviare un sostanziale processo di riforma, che affiancasse a misure manifestamente recessive anche interventi che mirassero a conferire maggiore dinamicità all’economia dello Stato, misure grazie alle quali si sarebbe potuto meglio riparare anche alla dimensione finanziaria. E invece no. Il governo, dopo aver annunciato guerra ai tassisti, dipinti come il male dell’Italia, pari ad una delle più feroci e spregiudicate lobby, ha lasciato che l’istanza riformista si adagiasse in un lento oblio.

Bersani, nel mentre, tace. Tace, perché è l’unico modo che ha per salvaguardare i propri voti. Sono un fastidio da tollerare, allora, gli estremismi di Vendola, il cui apporto in coalizione risulta determinante al fine di formare una maggioranza di governo numericamente apprezzabile. Rappresenta un fastidio e basta, invece, il risibile diktat dei socialisti del PSI, che reclamano più candidati tra le liste del PD, ingenuamente convinti di essere determinanti in fatto di voti all’interno della coalizione, forse illusi che, presentandosi da soli, sarebbero in grado di superare almeno lo sbarramento alla Camera.

Intorno, un’altra moltitudine di liste, a comporre un ensemblement inconcludente. Nemmeno questa sarà la volta buona. Per il cambiamento, dovremmo ancora aspettare. Tutto ciò di cui questo Paese ha veramente bisogno continua ad essere ben lontano. Una svolta decisa, impressa con volontà propositiva, che sappia guardare al domani è ciò di cui necessitiamo. Adesso è davvero essenziale incidere sulla mentalità degli italiani, e liberarla da quei retaggi culturali che non hanno fatto altro che impedire al Paese di progredire, e l’hanno trattenuto affondato nel passato, soffocandolo. Questa è la vera sfida da raccogliere: cambiare il modo di pensare, per essere in grado di affrontare il futuro con impegno. Ma fintanto che il passato lambirà con le sue acque putride il presente, allora  non sarà possibile guardare innanzi, e allora scenderemo nel gorgo muti. Sempre di più.


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