Miele di Valeria Golino
con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Libero De Rienzo, Vinicio Marchioni
Brillante esordio al lungometraggio di Valeria Golino, trent’anni di notevole carriera internazionale nonostante le mediocri doti interpretative, Miele è la seconda prova registica dell’attrice napoletana dopo il cortometraggio Armandino e il Madre.
Irene (J. Trinca), con il soprannome “Miele”, aiuta clandestinamente i malati terminali nel trapasso per conto e con l’aiuto di un infermiere (L. De Rienzo) e vive rapporti occasionali con la famiglia e con un compagno (V. Marchioni). L’incontro con il signor Grimaldi (C. Cecchi), aspirante suicida seppur non affetto da malattia, metterà in crisi la sua relazione con l’eutanasia.
È stato il romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro, pubblicato sotto pseudonimo (per lasciare che si credesse che dietro alle parole si nascondesse la vera Miele) e ristampato con il titolo A nome tuo stavolta a firma del suo vero autore Mauro Covacich, ad ispirare e colpire la neo-regista per «la sua scrittura così nervosa e lucida, con una malcelata tenerezza verso la vita», tenerezza dolciastra di retrogusto amaro che la Golino è stata capace di restituire. L’ennesima risposta del cinema alla domanda di discussione della società sul tema della buona morte (εὐθανασία, dall’unione di εὔ bene e θάνατος morte), dopo il notevole You Don’t Know Jack – Il dottor morte di Levinson e Bella addormentata di Bellocchio e tralasciando il più volte citato Amour di Haneke, dove il discorso è invece umano e non sociale.
Scritto, con l’apporto della regista, da Francesca Marciano e Valia Santella e prodotto dalla Buena Onda di proprietà sua, di Viola Prestieri e del compagno Riccardo Scamarcio, Miele ha il pregio di essere narrato con uno sguardo d’autore non usuale anche se a volte sconnesso – sconnessione di cui è principale responsabile l’idea e costruzione di montaggio della prima parte – e ostentatamente ricercato – la bella quanto inutile sequenza della sigaretta fumata attraverso il vetro in discoteca ne è un esempio.
Jasmine Trinca, dopo la splendida prova di Un giorno devi andare di Giorgio Diritti, si conferma nello spessore di una Miele, ape che in difesa della non-sofferenza e della malattia della propria madre somministra la puntura della dolce morte sotto forma di veleno per cani, leggera e instabile al fianco dello spessore di Carlo Cecchi. Accanto ad un Vinicio Marchioni accessorio c’è poi la possibilità di godere, per una volta, della simpatia malinconica di Libero De Rienzo (Santa Maradona, Fortapàsc), talento poco espresso e vergognosamente sottosfruttato del cinema italiano degli anni duemila.
Lavorando molto, da attrice, sulle interpretazioni dei suoi protagonisti, curando attentamente le scelte sonore e il lato estetico della messinscena, cui contribuisce la fotografia dell’ungherese Gergely Pohárnok, supplisce in gran parte alle carenze di scrittura e alla propria inesperienza alla regia. Con tutte le imperfezioni di un’opera prima, è un film da consigliare con l’augurio che la Golino si possa cimentare più spesso nel lavoro dietro e non davanti alla macchina da presa.
«Fai lo stoico, fai. Parli, parli, ma mica ce l’hai il coraggio di ammazzarti»
ITA-FRA 2013 – Dramm. 106’ **½
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