Microuniversi in collisione

Sulle Piccole Apocalissi di Livio Santoro, tra finzione e collasso della realtà

La micronarrativa in Italia esiste e non è soltanto su Twitter. Piccole Apocalissi (Edicola Ediciones, 2020), primo libro di racconti di Livio Santoro, già autore per effe, Crapula Club, Flanerì, doppiozero e altre riviste, esplora la strada editorialmente poco battuta della micronarrazione, un genere d’avanguardia anche fra gli sparuti lettori di racconti. A differenza degli utenti di Twitter, Santoro sa però benissimo cosa vuole dire e come: totalmente assorbita la lezione sudamericana di Borges, Cortàzar, Monterroso, conosce il culto della brevità e ne esercita le tecniche magiche. Controllo del tempo, coscienza del vuoto, precisione rituale nella disposizione delle parole, ognuna della quali, come gli ingranaggi di un meccanismo calibratissimo, concorre al raggiungimento del montaliano «punto morto del mondo, l’anello che non tiene», dove si rivela il caos, l’assenza di un significato fisso dell’esistenza. Come le Finzioni di Borges, il «poeta fingitore» di Pessoa o i poeti «brutte creature» di De Gregori, Santoro compie, di consenso con il lettore, quarantanove truffe alla realtà in altrettanti piccoli racconti assurdi ma coerenti, raffinati e intensamente umani.

Sono davvero piccole apocalissi quelle racchiuse in questa raccolta, un diorama di mondi istantanei che sopravvivono qualche istante e poi lasciano il posto al vuoto e al silenzio, all’inconoscibile che sta fuori dalla pagina. Nel minuscolo come nell’immenso, nel fugace come nell’eterno, l’universo nasce e muore in ogni istante se c’è qualcuno a guardarlo. Come la signora di Porta Maggiore, che in mezzo ai viaggiatori indiavolati per l’ennesimo guasto del trenino-forno che i romani conoscono bene, preferisce sedersi a mirare «l’esuberanza dei capperi fioriti; la tenacia di quel fico che cresce oriz­zontale, radicato alla siccità delle mura; la superbia violacea delle bocche di leone, che tendono al cielo». O come il «giovanissimo» e irrequieto Antonino, protagonista nel racconto che dà il titolo al libro, che vede la fine di tutto nelle collisioni dei granelli di polvere illuminati da un raggio di sole nella stanza:
 

Perché ti piace così tanto questa luce, Antonino?, gli fece garbata la mamma, porgendogli una fetta di torta.
Perché lì dentro la polvere mi sembrano stelle, rispose il bambino senza nemmeno guardarla.
È vero, le stelle sono belle, ribatté lei, vogliamo andare a guardare anche quelle su in cielo, più tardi?
No, rispose immediato Antonino, e stavolta si girò per fissarla negli occhi. Quelle stanno ferme. Queste invece si muovono, sbattono una contro l’altra, vanno a finire sul muro. A quest’ora, qui a casa è come la fine di tutto l’universo.
 

Ognuno di questi racconti assume in sé una sorprendente banalità: è tutta questione di prospettive. Guarderai il mondo dalla parte dei romani imbruttiti sul tram o da quella della signora seduta a godersi i capperi in fiore? Vedrai un raggio di sole nella stanza o la fine dell’universo? Giocherai dentro il bosco, come Martina in Davanti al bosco, o lo osserverai da fuori come Piera, «quando ancora mette paura»? Con l’innocenza di un primo uomo Santoro frammenta così l’esistenza, e svelandone la molteplicità ne recupera il senso. Esattamente come Stagirita, il bambino del racconto Quella povera lucertola, che uccide una lucertola e fornisce a ogni membro della famiglia una motivazione differente: per testare la suola dura delle sue nuove scarpe, per interesse anatomico, per causa della natura umana, per la forza nel suo calcagno. Il padre lo punisce, interpretando quelle ragioni come menzogne, un «depistaggio», ma che ragionevolmente, in una logica non ancora irrigidita dall’esperienza, sono soltanto alcune delle infinite realtà possibili.

Nadine Gordimer assimila gli scrittori di racconti a delle creature capaci di vedere nel buio tramite sprazzi di luce, come i “flash” delle lucciole («flash of fireflies»), un'abilità divinatoria che permette di leggere non nel futuro ma nel presente, dove tutte le anime si perdono. L’autore di racconti intuisce una strada nella nebbia e, come l’«avanguardista» dell’omonimo racconto, chiede di seguirlo. Appurata l’assenza di significati univoci, è sua delicata responsabilità saperne costruire di nuovi, solidi e credibili, per evitare di non essere ancora inghiottito dal buio intorno e sempre in agguato (tutto ciò che non viene narrato, l’universo oltre al quadro). Ecco allora la tecnica, la raffinazione lessicale, il lavoro di cesello sui tempi narrativi, come la costruzione di una cella perfetta che deve contenere un pericoloso criminale: la dispersione, la balbuzie enunciativa e dunque esistenziale, l’intimo tartaglio della vita che il racconto si incarica di regolare. Se il carcerato evade, il gioco è perso.
 

Guarderai il mondo dalla parte dei romani imbruttiti sul tram o da quella della signora seduta a godersi i capperi in fiore?


Santoro non perde quasi mai il gioco e ci offre un piccolo tesoro che arricchisce di nuovi spunti il discorso sulla scrittura breve (o brevissima), aperto e in crescita nel panorama editoriale italiano ancora dominato dai romanzieri. Il leggendario autore di racconti americano Raymond Carver, lavoratore e padre di famiglia, ammise di aver cominciato a scrivere racconti invece di romanzi per le difficoltà di concentrazione e il poco tempo a disposizione. Non sappiamo se anche il nostro autore, membro attivo della working class romana, sia stato mosso dalle stesse ragioni, ma certamente i racconti di Piccole Apocalissi non nascono per caso. Emergono chiare intenzione e cura, una precisa coscienza letteraria e una tecnica narrativa raffinata che riesce a camuffare le proprie tracce. Facendo scricchiolare la realtà, restituendo nuove dimensioni, accendendo luci su alcuni dei molti universi che ci sfuggono. 


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