Mia madre di Nanni Moretti
con Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro, Giulia Lazzarini
In concorso a Cannes assieme a Il racconto dei racconti di Garrone e a Youth di Sorrentino, a dimostrazione dell’altissima qualità del grande cinema italiano spesso severamente criticato, l’ultima opera di Nanni Moretti si addentra nelle delicate trame del dolore familiare, come La stanza del figlio con cui il regista romano aveva conquistato la Palma d’Oro. A quattro anni dal profetico Habemus Papam, che previde e forse influenzò le "dimissioni" di Papa Benedetto XVI al secolo Joseph Ratzinger, nel raccontare una storia di cinema nel cinema Moretti si affida alle penne di Francesco Piccolo e Valia Santella, che lo affiancano nella scrittura, e alle luci sobrie ma eleganti di Arnaldo Catinari, già direttore della fotografia de Il caimano.
Margherita (M. Buy) è una regista alle prese con la produzione del suo ultimo film e allo stesso tempo con la malattia della madre (G. Lazzarini), della quale si prende cura assieme al fratello Giovanni (N. Moretti). Le sue giornate si susseguono complicate tra le difficoltà lavorative con il suo protagonista Barry Huggins (J. Turturro), famoso attore americano che sul set si comporta da primadonna pur non ricordando neanche una battuta, e le condizioni di salute della madre, che continuano a peggiorare.
Opera numero dodici della cinematografia morettiana, Mia madre ha due anime, non soltanto attoriali – Moretti stesso e la Buy, che sembrano davvero fratelli – ma soprattutto tematiche. La prima anima è il cinema. Con gli occhi della Margherita regista, nel suo difficile rapporto con il Barry del buffo Turturro e con il resto della troupe, Moretti sviscera le dinamiche intime del set non per sterile vanagloria, ma perché per parlare di sé ha bisogno di calarsi nell’ambiente che meglio conosce e che più lo rappresenta. Nelle sue stupide brutture e nelle sue sincere bellezze, il set è rappresentato dai due punti focali di ogni film, la recitazione e la regia. Da una parte Barry, che vanta una collaborazione con Kubrick che mai c’è stata, e che fa ridere Margherita e la innervosisce, la esaspera e la consola, partecipe del dramma dell’attore sempre costretto nei panni di un altro, e che richiama estenuato la necessità di uscire dalla finzione del cinema. «Ho bisogno di realtà!», urla al termine dell’ennesimo ciak sbagliato. Dall’altra Margherita, del cui personaggio Moretti si serve per parlare della sua esperienza e prendendosi gioco di sé con la consueta ironia. Di fronte alla stampa, la regista ribadisce l’importanza di un cinema socialmente impegnato, la necessità di parlare al popolo, di parlare dei problemi del paese, mentre la voce off di lei stessa si fa beffa delle parole che sta pronunciando. Nell’analisi critica del proprio percorso, in cui da anni ripete una stanca cantilena a cui neanche lei crede più, sembra di rivedere il regista di Sogni d’oro, in costante contrasto con le esigenze del suo pubblico, o il giovane funzionario del PCI di Palombella rossa, scoraggiato dalle ennesime sconfitte, che non sa più cosa dire ai giornalisti. Con un personaggio scopertamente autoreferenziale incarnato da una Margherita Buy insolitamente in parte, Moretti si concede un’acuta riflessione sul ruolo del regista, despota suo malgrado di una troupe che è costretta a concedergli ogni vizio, ad accontentare ogni sua richiesta. «Margherita, ma se il regista chiede…», le dice l’aiuto regista durante le riprese di una scena in strada. «Il regista, il regista…», lo interrompe furiosa Margherita, «Il regista è uno stronzo a cui voi permettete di fare di tutto!».
La seconda anima del film è la vita. Con il cuore della Margherita figlia e madre, Moretti indaga il proprio dolore, la scomparsa cinque anni fa di sua madre Agata, che di cognome faceva Apicella come il Michele protagonista di tanti suoi film, da Io sono un autarchico a Palombella rossa, e che avevamo visto in Aprile. Giovanni e Margherita la assistono, vicini eppure infinitamente distanti da una madre che riescono soltanto a sfiorare. Le incomprensioni familiari, le decisioni difficili di un percorso ancora ignoto, le ineluttabili vie della vita che si intrecciano con quelle del cinema sono le colonne del film e di una cinematografia, e Bianca ne è l’emblema, da sempre in tensione verso le corde di Truffaut, con cui condivide un’idea cardine: il cinema influenza la vita e la vita influenza il cinema. All’interno del racconto intimo delle vicende dei personaggi Moretti si affida spesso a squarci di sobrio onirismo, così come aveva fatto nell’analogo Sogni d’oro, quasi che il sogno fosse componente imprescindibile della narrazione metacinematografica, specchio e analisi della propria condizione presente e passata. Dalle evasioni soltanto immaginate della madre Ada alle eleganti incursioni nel passato di Margherita fino al brusco risveglio notturno nella casa allagata che tanto ricorda l’incubo di Jean-Louis Trintignant nello straordinario Amour di Michael Haneke, Mia madre vive di una delicatezza sospesa, di uno smarrimento proprio della vecchiaia, forse quello stesso smarrimento che sovente accompagna la perdita degli affetti vicini. Mater semper certa est, pater numquam, dicevano i latini. “La madre è sempre certa, il padre mai”. Nel bel mezzo di una scena Margherita si blocca, attonita, in piedi di fronte a Barry, e si rende conto che presto perderà sua madre, per sempre. «Dove finiranno tutti quei libri…», dice smarrita, parlando ad alta voce, «Dove finiranno tutti quegli anni di studio…». Barry, toccato, le sfiora teneramente la guancia destra. Margherita torna in sé, si volta. «Motore!».
«Mamma, a che stai pensando?»
«A domani»
ITA-FRA 2015 – Dramm. 106’ ***
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