Margini | Dalla provincia per la provincia

Intervista a Niccolò Falsetti, regista del film punk partito da Grosseto e premiato alla Settimana della Critica

Quando arrivo davanti alla sede di ZERO a Roma, al Pigneto, il bandone è abbassato e una ragazza in piedi accanto ad un motorino si guarda intorno come se stesse aspettando qualcuno. Io faccio lo stesso dall’altra parte della strada, mentre vedo arrivare Niccolò Falsetti con una busta con dentro un paio di birre. Il suo film d’esordio Margini, prodotto da dispàrte con i Manetti Bros. e premio del pubblico alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia, è in sala da qualche giorno. Racconta la storia di un trio punk di provincia, gli Wait For Nothing, che deve aprire il concerto dei Defense a Bologna, ma quando il concerto salta la voglia di suonare è troppa, e il trio convince la band americana a venire a casa loro, a Grosseto, con la promessa di un concerto punk hardcore che sembra impossibile da organizzare nella loro città.

Margini segue l’avventura di Michele, Edoardo e Iacopo che lottano contro l’immobilità della provincia, incarnata da un cast pescato a piene mani dalla commedia toscana contemporanea. C’è lo Iacopo di Matteo Creatini, protagonista del brillante Short Skin (2014) di Duccio Chiarini, il buffo fonico Bassi interpretato da Paolo Cioni, attore feticcio del regista pisano Roan Johnson che lo ha voluto dall’esordio alla serie I delitti del BarLume passando per Fino a qui tutto bene (2014). Nel film condivideva lo schermo con Silvia D’Amico, qui nella parte di Margherita, la compagna del Michele interpretato da Francesco Turbanti, già protagonista dell’opera prima di Johnson I primi della lista (2011) e de L’Universale (2014) di Federico Micali. Turbanti anche è co-autore di Margini, che ha scritto con Falsetti in una lunga gestazione partita dai palchi grossetani con i Pegs, la band di punk hardcore in cui suonano entrambi da una vita, e passata dalla sala in cui il regista grossetano mi fa accomodare, stappando una birra e aprendo una busta di nachos.

Ci mettiamo sul divano, mentre alle mie spalle si siede la ragazza del motorino, che è la ragazza di Falsetti – «Piacere, Marta» – e anche la segretaria di edizione di Margini, la prima dimostrazione della troupe familiare che ha dato vita al film. Parliamo tra un poster di Pulp Fiction, un semaforo e due lavagne piene di appunti e post-it per il prossimo film di cui non si può dire quasi niente, se non che Francesco e Niccolò lo stanno scrivendo insieme, ancora una volta. Servirà del tempo, non sappiamo quanto, mi dice. «L’obiettivo è fare un bel film, quindi se ci vogliono due anni ci metteremo due anni. Due anni, tre anni, quello che ci vorrà per svilupparlo».

A Margini quanto tempo è servito?
Margini un bagno di sangue. Margini è stata una tragedia, e quella ragazza dietro di te è un mistero come faccia a stare ancora con me, perché facciamo sette anni a dicembre e ci siamo messi insieme pochi mesi dopo che io avevo iniziato a scrivere il primissimo germe di Margini.

Quindi sette anni?
Sette anni, poi se senti i miei amici ti dicono “Eh, è tutta la vita che ne parla”, perché in effetti fai cinema, fai punk, un film sul punk lo vorresti fare prima o poi. Dieci anni fa io e Francesco volevamo scrivere un film da Costretti a sanguinare di Marco Philopat, che è un po’ una bibbia del punk italiano, ma ci mancava la risposta a una domanda: “Chissà come stavano i ragazzi degli anni Ottanta, in quel momento politico, sociale, culturale?”. Ci siamo accorti che non sapevamo un cazzo dei ragazzi degli anni Ottanta. E ci siamo detti “Partiamo da un qualcosa di più viscerale, noi sappiamo come si sta in provincia”. E quando abbiamo cominciato a dire “Cazzo, noi facevamo il punk a Grosseto!”, c’era qualcosa che ci faceva ridere e da lì è scaturita tutta l’idea del film.

È interessante vedere un film tornare indietro ad un momento che tutti sentiamo abbastanza vicino – il 2008 – ma che è ormai quasi quindici anni fa. Come avete lavorato per ricostruire questo passato prossimo?
La fortuna è che a livello di immaginario viviamo in un’epoca fluida in cui il tempo si dilata in maniera ambigua a seconda delle prospettive da cui lo guardi. Dalla prospettiva della moda o del costume non è cambiato niente, dalla prospettiva della tecnologia e delle relazioni sociali è cambiato tutto. Quello a cui siamo stati attenti è stato soprattutto il modo in cui comunicavano i ragazzi del film: i cellulari, le e-mail. C’era una sensazione di isolamento in quegli anni, la tecnologia te la stemperava un po’ – “Ah, su MySpace posso organizzare il concerto con il gruppo di Torino a cui non avrei mai avuto modo di scrivere” – e già rispetto alle lettere, che è il modo in cui i vecchi punk organizzavano i concerti, tu potevi dire “Non sono mai stato in quel posto, non sono mai stato in quella città, ma dalle foto posso vedere qualcosa, dalle cose che mi mandano”. E poi il fatto che non c’era stata la crisi, che non aveva ancora fatto deflagrare completamente il mondo sociale a cui eravamo abituati da ragazzi. Volevamo qualcosa che a riguardarlo c’avesse ancora qualcosa di ingenuo; è come se ci avessero tolto una fetta di disincanto bella grossa con la crisi del 2008, l’altro step come generazione ce l’abbiamo avuto a Genova, ma in quel caso saremmo andati troppo in là. Questi ventidue anni di nuovo millennio sono stati una roba strana, perché se ci pensi è cambiato tutto e non è cambiato niente. Io continuo a vestirmi come quando avevo sedici anni, e questo magari è un problema mio – lo dice guardandosi la maglietta della band che porta addosso e i jeans strappati – però anche perché si trova la stessa roba. Sono cambiate delle cose, certo, però anche l’arredo urbano non è stato radicalmente modificato in questi vent’anni.

Soprattutto in Italia, soprattutto in provincia.
E anche la struttura sociopolitica di questo paese non è molto cambiata. Quello che è cambiato tanto sono le relazioni, quello ci interessava e su quello siamo andati a fondo. Oggi siamo molto più connessi eppure ci sentiamo molto più soli e isolati, in quel tempo era più facile fare le cose insieme.

A proposito di fare le cose insieme, usi sempre la prima plurale. Chi è questo “noi”?
Noi siamo io e Francesco Turbanti, perché siamo letteralmente autori al 50 percento di questo progetto. È chiaro poi che io ho la responsabilità delle riprese, ho la responsabilità del linguaggio – la regia è un mestiere che si porta la sua mole di lavoro e di competenze – e con Fra è una divisione dei ruoli che ci siamo sempre dati con grande entusiasmo e grande serenità. Da parte mia ho avuto il privilegio di scrivere con una persona che è un bravissimo autore e soprattutto un bravissimo attore, e questo c’ha dato modo di lavorare tanto sui dialoghi, su delle sfumature; ti costringeva a mettere le battute in bocca ai personaggi, ad ascoltarle, a pensare a cosa avrebbe fatto un attore sul set mentre leggeva quella battuta.
Il noi riguarda anche Alessandro Amato e Luigi Chimenti, che sono gli altri due produttori insieme ai Manetti, perché sono loro le prime persone che hanno detto “Ci credo in questa storia che state a scrive’, è una follia”. Noi crediamo nel fatto che la produzione e gli autori possono avere un rapporto sodale, di comunanza di obiettivi, di direzione.

Emanuele Linfatti, Francesco Turbanti e Matteo Creatini durante le riprese della prima scena del film

 

Che significato ha, per te e per voi, aver coinvolto una troupe per la maggior parte toscana e che riferimenti autoriali avevate?
La cosa incredibile di Grosseto è che ha creato negli anni una serie di professionalità importanti, ti parlo anche di regia. Francesco Falaschi è stato il nostro apripista, il nostro maestro Jedi, e poi Stefano Lodovichi, un regista di Grosseto che sta facendo produzioni di altissimo livello come Christian e Il processo per la serialità o per il cinema La stanza, In fondo al bosco, Aquadro che è il suo esordio. Soprattutto con Stefano, per ragioni anagrafiche, oltre a nascere un’amicizia forte è nata una rete di relazioni professionali con tutta una serie di persone. Da Benjamin Maier che è direttore della fotografia a Alessandro Veridiani che è stato suo elettricista su tanti lavori e che è il direttore della fotografia di Margini, Jacopo Pineschi che è stato il fonico di Stefano su tante cose è lo è stato anche su Margini, Ginevra De Carolis, che è stata la costumista di Diabolik e poi di Margini. È una cosa che riguarda anche la parte produttiva con Benedetta Gori e Francesco Ciarapica, ma anche i tanti toscani della troupe come Abi, Emanuele, Mastro – e sto sicuramente dimenticando qualcuno. Veramente tanti ragazze e ragazzi che c’hanno messo lo stesso cuore che ci abbiamo messo noi.

In questo “noi” c’è un Francesco Turbanti all’opposto dell’immagine che lo aveva lanciato al cinema. Come avete costruito l’estetica del suo personaggio, così diverso dal ragazzo dalla faccia pulita visto ne I primi della lista o ne L’Universale? Era il suo look quando suonavate insieme?
Zero. Fra suona la chitarra nella vita, la batteria l’ha imparata a suonare per il film, e quando suona è tutt’altra persona. Lo skinhead dagli occhi buoni è un’idea che avevamo basata su uno skinhead di Grosseto che è il nostro mentore in questo mondo. Si chiama David Bardelli e ha un negozio di dischi e vestiti che si chiama Rudeness. David è stato quello che c’ha visto entrare in negozio camicioni di flanella e capelli lunghi modalità fricchettona e ci ha detto “Non capite un cazzo, vi faccio ascolta’ sta roba”. E ci ha dato questa eroina che è il punk e il punk hardcore che c’ha preso a quattordici, quindici, sedici anni e non c’ha più lasciato. Siamo stati skinhead: il tracollo è stato quello. Da fricchettoni a skinhead. In casa mia improvvisamente hanno cominciato a vedere meno utilizzate le kefiah e gli eschimo e comparire le Fred Perry e le Ben Sherman – io vengo da una famiglia estremamente cattolica e piccolo borghese – e quel tipo di roba era molto più ben accetta, nonostante la testa rasata e gli anfibi, rispetto alle magliette coi simboli della pace, le collanine e i capelli lunghi. David è in quel modo: è uno skin dagli occhi buoni, è uno skinhead di provincia, è uno skinhead a Grosseto. Per noi è sempre stato babbo Bardelli di Rudeness che c’ha benedetto in tutte le attività punk che abbiamo fatto nella vita, tra cui il film. I costumi di Francesco sono stati pescati direttamente dagli armadi di David, se non dai nostri residuati bellici dello skinheadismo di una volta. Quando Francesco litiga all’Eden col Melis ha addosso una mia vecchia Fred Perry, ma l’80 percento della roba veniva o dal negozio di David, o dai contatti di David, o da David.

Il film mi ha sorpreso, perché a livello registico è molto pulito, composto, ben costruito e lascia parlare il tema piuttosto che accompagnare con il linguaggio visivo, una cosa che ci si potrebbe aspettare. Come mai hai scelto di raccontarlo così?
Noi avevamo l’ossessione di raccontare la fissità della provincia, per cui non ci veniva spontanea l’idea di evidenziare le situazioni con dei movimenti di macchina. Volevamo che i toni del film fossero i toni dei personaggi, quindi quello che dettava lo stato emotivo del pubblico doveva venire dalla storia, dai protagonisti e dalle situazioni. Per i personaggi è tutto estremamente serio, per cui anche sul set abbiamo lavorato molto per evitare la punch line, il momento ad effetto, la risata: non è un film comico. A noi piacciono i film di situazioni, quindi abbiamo pescato tanto da film internazionali, da This Is England ai film di Baumbach a L’odio, a livello di scrittura da Full Monty, e poi ovviamente abbiamo in casa dei top player: Virzì e Monicelli. Virzì è stato forse il primissimo italiano di cui mi sono innamorato al cinema perché Ovosodo che è un film che quando lo guardi all’età che avevamo noi quando è uscito ti cambia la vita, e Amici miei è un film che quando lo vedi e prendi la sbornia che c’ho preso io poi te lo riguardi una volta ogni tot mesi perché sai che parla di te, c’è lo stesso malessere, lo stesso benessere, eppure si parla di persone che hanno età, stili di vita, modalità di relazione completamente diverse dalle tue ma c’ha qualcosa, c’ha un’anima, c’ha un sentimento che è tuo.
 

Ovosodo che è un film che quando lo guardi all’età che avevamo noi quando è uscito ti cambia la vita, e Amici miei è un film che riguardi perché sai che parla di te


Abbiamo cercato di portarlo in Margini perché sono anche quelli film di situazioni, si macchiano di amarezza e hanno qualcosa che anche in quell’amarezza riesce a strapparti un sorriso. La fissità della provincia ci serviva raccontarla con quei campi lunghi, con quei personaggi che ci sono immersi, e lì invece di saccheggiare il cinema abbiamo saccheggiato Gipi che nei suoi fumetti la racconta meglio di tutti, quando compone con i cieli alti, enormi, e gli orizzonti bassi, occupando pochissimo spazio delle proporzioni della tavola. Non solo in Questa è la stanza, che è un fumetto di culto per chi viene dal nostro mondo, ma anche nei suoi fumetti più lontani narrativamente ritrovi in quegli spazi i personaggi che sono dispersi come ci sentivamo noi da ragazzini, e questo è quello che volevamo provare a mettere nell’inquadratura.


Un dettaglio della locandina di Margini disegnata da Zerocalcare, che nel film disegna anche la locandina del concerto degli Wait For Nothing



E inquadrare con quella fissità sottolinea il loro movimento, il movimento di questi tre ragazzi che cercano di uscire da questo quadro composto, da questa staticità, da questa provincia immobile.
Ci ha aiutato anche il contesto in cui viviamo, perché può essere una scelta autolesionista quella di non muovere mai la macchina. Potrebbe creare stasi, fatica, però c’è la tendenza della regia contemporanea a muoverla in sovrabbondanza, anche per l’entusiasmo di chi viene da un mondo che non è quello del cinema. A volte ci siamo dovuti legare le mani, su certe cose in cui era facile fare un movimento, una sottolineatura, un’evidenziatura, ci siamo tenuti anche al montaggio perché magari certe inquadrature le abbiamo girate però poi ci siamo resi conto che il film il suo linguaggio l’aveva trovato e che anche i momenti in cui andavamo a spalla funzionavano perché c’era la fissità negli altri.

Una delle cose più belle del film è che costruisce un’aspettativa e poi la delude. Il finale telefonato di Margini è il concerto degli Wait For Nothing, ma nel momento in cui Iacopo è alla stazione e deve decidere se andarsene o restare (spoiler) voi scegliete di farlo andare via, aprendo all’idea che il concerto forse non si farà. Nel 90 percento dei film quel regionale passa e lui è sempre seduto lì, in Margini no. Quanto era importante questo passaggio per voi quando avete scritto?
Se c’abbiamo un merito io e Fra è di aver riconosciuto di essere in difficoltà sulla sceneggiatura. Il treno nella seconda, terza stesura del film passava e Iacopo era ancora lì. Noi non accettavamo l’idea che loro non suonassero, preferivano non far suonare i Defense. Il film però in questa modalità risultava con un lieto fine a chi leggeva la sceneggiatura, ed era una cosa che noi non volevamo. L’amarezza della sconfitta non veniva fuori, la provincia non vinceva, vincevano loro. Vinceva la loro amicizia. Tommaso Renzoni, il nostro terzo sceneggiatore, ci ha detto sempre “Voi volete troppo bene ai vostri personaggi, ma gli volete bene senza volergli bene davvero. Gli volete bene come i genitori che a un certo punto ti soffocano”. Tommaso ci ha svoltato il finale, lui parla di stringere i bulloni di una sceneggiatura che già funzionava, io penso che ci abbia fatto accorgere di un errore fatale che sapevamo di stare commettendo ma non sapevamo dove, e lui ci ha detto: “Qui”.
 

Voi volete troppo bene ai vostri personaggi, ma gli volete bene senza volergli bene davvero. Gli volete bene come i genitori che a un certo punto ti soffocano


Mi ricordo proprio che eravamo nella cucina di casa nostra e Tommi fa: “Ragazzi, e se parte che succede?”. E io la prima cosa che ho visto è l’immagine del treno che scorre e la panchina vuota; e mi ha ricordato tante cose. Mi ha ricordato mia mamma e mia sorella al treno le prime volte che tornavo a Roma per l’università, mi sembrava quello che avevano visto loro, mi sembravo io stesso quando portavo mia sorella alla stazione e rimanevo a Grosseto. Ho rivisto tra l’altro la partenza di Moraldo de I vitelloni e c’ho rivisto qualcosa di vicino anche nella provincia della Rimini di quegli anni. Ci sono tornate in mente tutta una serie di cose, tra cui una canzone de Le luci della centrale elettrica che si chiama 40 km che parla esattamente di questo, del partire, di «un altro che parte con dietro la chitarra e il computer, e se ne va in una città a quaranta chilometri».

Voi invece al concerto avete suonato?
Sì, abbiamo suonato alla fine anche perché La palude è un pezzo del nostro album che è uscito ora insieme al film – siamo riusciti a completarlo grazie ai miracoli di un uomo meraviglioso che si chiama Valerio Fisik di Hombre Lobo Studio. Abbiamo fatto suonare i Payback – che interpretano i Defense nel film – e gli Iena, una band di Firenze a cui siamo molto legati perché sono ragazzi del Centro Storico Lebowski. Quella scena è stata girata come un documentario, anche se a un certo punto ci trovi i personaggi. Sapevamo che per fare quella cosa lì non si poteva fare finta: non c’è comparsa a cui puoi insegnare a pogare. E quindi abbiamo chiamato amici e amiche, non pensando al fatto che era un anno e mezzo che la gente non suonava e non vedevano l’ora di venire a un concerto. Ai primi colpi di rullante hanno cominciato a volare birre sul pavimento, pogo selvaggio e c’è stata un’energia strepitosa, è stato un live bellissimo perché era un vero live ma al contempo stavamo girando. È stata una sensazione fichissima, perché vivevamo questi due aspetti: la fine del film, perché è stato l’ultimo giorno di riprese, le riprese e il concerto. E noi ci eravamo messi come gruppo jolly, nel caso ci fossero servite altre inquadrature sul pubblico, e alla fine abbiamo suonato per suonare con Matteo Creatini e Emanuele Linfatti, gli altri due membri di questa band immaginaria, facendo un concerto degli Wait For Nothing con i Pegs.

In metro, mentre venivo qui al Pigneto, ho incrociato Giuditta, l’aiuto regista de L’Universale che conosce Francesco Turbanti dai tempi del film e si ricordava di una vecchia sceneggiatura che lui le aveva inviato nel lontano 2015. E stava rosicando perché Francesco l’aveva invitata ad una prima a Roma con un vero e proprio concerto dei Pegs a cui non era potuta venire. Quindi avete suonato anche per il lancio del film?
Quando abbiamo iniziato la promozione del film abbiamo parlato con Fandango e ci siamo detti: “Come lo vogliamo promuovere questo film?”. È un film punk, non lo possiamo promuovere come una commedia. Volevamo che fosse rispettato il mondo da cui veniamo e quel linguaggio, anche perché pensavamo che fosse funzionale. Noi ci s’ha la smania di suonare e pensiamo che il modo migliore per restituire il punk ai punk sia attraverso i concerti e quel sistema aggregativo lì. Quindi alla fine abbiamo fatto il Margini Fest, un minitour di Margini in giro per l’Italia: a Roma al Parco Schuster con noi Pegs, i No More Lies, gli Iena, Gli Ultimi e i Klaxon, a Grosseto – dalla provincia per la provincia – tra mille vicissitudini che sono esattamente le vicissitudini che avevamo raccontato nel film per organizzare il concerto, quindi assurdo, e siamo finiti davanti all’Eden. Una situazione fichissima con tanta tanta gente, a sentire noi che non suonavamo da tanto, e i gruppi che hanno suonato quella sera sono degli amici e siamo stati tanto contenti di condividere il palco con loro. E l’ultima tappa a Milano al Leoncavallo con i Klaxon, con i Frammenti e con i Raw Power. Noi esclusi, tre pietre miliari di questo genere in questo paese.

Sette anni, la scrittura, la produzione, il film e la distribuzione per andare a suonare in giro.
Questo era l’obiettivo. Noi nella vita volevamo fare i musicisti coi Pegs, non ci siamo riusciti e abbiamo fatto un film.


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