Mangia, consuma, lavora
Le prospettive di teatro, editoria e cinema dopo l’anno che ha demolito la vita culturale del paese
Il 2020 è stato un anno nefasto per quasi tutti i settori, ma per la cultura in particolare. Tanti dei luoghi di produzione della cultura hanno sofferto molto più di altri, tanti lavoratori e imprenditori sono stati colpiti da gravissime difficoltà economiche in un impatto di sistema da cui si fa fatica a rialzarsi. C’è chi in qualche modo ha tenuto botta – l’editoria – e chi soffre ancora – teatro, cinema, musica –, ma quello che accomuna tutto è l’enorme difficoltà di fare cultura in questo periodo storico e in questo paese. Per questo, nell’edizione 2021 del festival Firenze RiVista, che la nostra rivista organizza ogni anno a settembre in collaborazione con la casa editrice effequ, abbiamo deciso di organizzare un incontro che portasse all’attenzione del pubblico dei temi di settore il cui impatto ricade in toto sulla qualità dei prodotti culturali che il pubblico stesso fruisce. A partire da Duemilaventuno - Fuga dalla pandemia, numero collettivo de L’Eco del Nulla, abbiamo invitato Claudio Ascoli, fondatore e direttore artistico della compagnia teatrale Chille de la balanza residente a San Salvi da fine anni Novanta, Samanta K. Milton Knowles, traduttrice e rappresentante del sindacato StraDe, e Federico Babini, esercente del cinema Spazio Alfieri di Firenze. Da direttore di una manifestazione dedicata all’editoria indipendente come Firenze RiVista, apro quest’incontro a cui il festival teneva molto chiedendo proprio che cosa ha significato, per il mondo letterario ed editoriale, lo stop per il primo lockdown secondo le inchieste curate da StraDe.
Samanta K. Milton Knowles Quello che è emerso è che i primi tre mesi di blocco totale del mercato librario hanno significato un ritardo, un rinvio. I libri che erano programmati per uscire in quei tre mesi ovviamente sono stati rinviati. E, alla nuova apertura dopo i primi tre mesi di blocco, quelli che sono stati pubblicati erano ovviamente solo i best seller. Quindi tutti quei libri un pochino meno di grido sono stati rinviati, a volte anche di molti mesi. In linea di massima, più o meno la metà dei traduttori editoriali che hanno partecipato a queste inchieste hanno lavorato costantemente anche durante la pandemia, l’altro 50% ha riscontrato delle difficoltà che potevano essere: ritardi, rinvii delle consegne, annullamento dei contratti già in essere o, semplicemente, la non stipula di nuovi contratti per quell’anno. In generale, l’editoria ha retto. Nei primi tre mesi di pandemia tutti abbiamo temuto che le conseguenze sarebbe state più grandi, in realtà il fatturato editoriale del 2020 supera addirittura quello del 2019, secondo il libro bianco dell’Aie. Quindi il mercato ha retto, tranne alcune nicchie come le traduzioni di cataloghi di mostre di musei – ovviamente non essendoci le mostre non c’erano neanche i cataloghi, e quello è un mercato che è rimasto fermo per mesi – e le guide turistiche. Per il resto, più o meno, hanno galleggiato tutti. Quello che è successo in alcuni casi è che qualche editore ha utilizzato la scusa del Covid per cercare di abbassare i compensi, dilazionare i pagamenti, ritardarli.
Il primo grande effetto timidamente positivo che noi ci portiamo dietro è l’essere finalmente riconosciuti a livello di Stato e di ministeri, e infatti il nostro riconoscimento ci ha portato quest’anno per la prima volta nella storia dei traduttori editoriali a sedere a un tavolo ministeriale, il tavolo sulla legge di sistema del libro, in cui StraDe e altre due associazioni di traduttori editoriali Aiti e Aniti sono coinvolte in prima persona come interlocutori su cosa non va e su cosa c’è da migliorare nella legge sulla filiera del libro.
Claudio Ascoli Noi credo che abbiamo un problema quasi opposto al vostro. Il nostro settore è stato subito riconosciuto e riempito di risorse, di ristori. A chi fa teatro, anche a chi lo fa a livello più o meno amatoriale (anche agli attori che nell’anno precedente avevano fatto 7 giorni di lavoro), è stato dato lo stesso ristoro di chi lo faceva veramente, il lavoro. Il che ha creato una grossa sperequazione, perché chi faceva qualche spettacolino – con 7 giorni in un anno difficilmente viveva di teatro, perché negli altri 358 giorni dell’anno bisognava che mangiasse in qualche altro modo – ha avuto gli stessi ristori di chi invece lo faceva tutto l’anno. Cos’è accaduto? Si è molto lavorato sul terreno dei ristori pensando al lato dell’attore, del tecnico, e dimenticando del tutto che il teatro, lo diceva un grande maestro del Novecento che Meyerhold, è l’arte dello spettatore. È inutile ristorare gli attori e i tecnici se non si fa un percorso intelligente per salvaguardare lo spettatore. Perché nel momento in cui finiscono i ristori che cosa succede, che l’attore è bello ristorato, e in qualche modo è in piedi, ma lo spettatore non è stato ristorato per nulla.
Faccio un esempio: il teatro ancora oggi è dei pochissimi luoghi in cui per assistere ad uno spettacolo teatrale all’aperto, il nostro spettatore che entra senza mascherina al botteghino, si deve misurare la temperatura, dev’essere col green pass, e dopo aver avuto l’ok per entrare deve mettere la mascherina e separarsi dall’altro spettatore. Che cosa ha comportato la creazione di questa regola, che dovendo avere spettatori così separati e avendo quindi delle sale, anche all’aperto, molto limitate come numero le produzioni teatrali reali sono scomparse. Sono rimasti monologhi, a basso costo, a basso livello qualitativo, e si è avuto una caduta frontale della qualità. Dovremmo fare una sorta di fisioterapia della cultura. Qual è il vero nodo? Chiunque abbia dei dolori, non deve fermarsi. Io ho un’età nella quale comincio ad avere dei dolori e quando mi fermo il mio fisioterapista mi dice: “Così non cammini più”. Perché quando hai dolori cammini poco, riduci, cammini sempre meno, e aumentano sempre i dolori. In questo momento la cultura ha questo problema: ha dei dolori. Cosa deve fare? Ha bisogno di una fisioterapia. Cos’è la fisioterapia? Sopportare i dolori e inventarsi qualcosa, inventarsi qualcosa creando una sorta di relazione nella distanza.
In questo momento la cultura ha questo problema: ha dei dolori. Cosa deve fare? Ha bisogno di una fisioterapia. Cos’è la fisioterapia? Sopportare i dolori e inventarsi qualcosa
Il mio è un discorso che tende a far capire che dovremmo cominciare ad occuparci un po’ tutti dello spettatore. Noi di Chille de la balanza provocatoriamente a gennaio 2021 facemmo una giornata del teatro dello spettatore: siccome in quel momento non si poteva essere aperti al pubblico e si poteva però provare, si poteva lavorare tra artisti, noi assumemmo cinque spettatori come attori. Li assumemmo e li mettemmo in sala. Le persone, soprattutto quelle più anziane, sono convinte che il teatro è il luogo del contagio. Mi dicono: “Io sono innamorato del teatro, però fanno mettere tutte queste regole: qualche motivo ci sarà”.
Abbiamo perso due tipi di spettatori in modo abbastanza ineluttabile e bisogna recuperarli con un guizzo fantastico di disperazione creativa. Abbiamo perso gli anziani, che hanno paura, giustamente, e quindi temono il teatro come luogo di contagio, e abbiamo perso i giovani, gli studenti: tutto il lavoro con le scuole e con le università è completamente fermo. E ci è stato detto: bene, vi daremo altri ristori. È come curare il raffreddore quando si ha il cancro, e se si continua a curare il raffreddore a teatro e non si pensa al cancro, si muore. Bisogna tornare a far capire che il teatro non serve all’attore, serve alla società, alla comunità di spettatori e di attori, serve a tutti insieme.
SKMK Secondo me l’errore è stato fatto subito all’inizio, quando nei primi tre mesi di pandemia hanno nei fatti dichiarato che la cultura non era un bene di prima necessità, questa cosa è entrata nelle menti di tutti. Se per tre mesi siamo potuti stare totalmente senza cultura, vuol dire che è una cosa di cui possiamo fare a meno.
Andrea Caciagli Porto la mia esperienza personale: oltre che a L’Eco del Nulla e Firenze RiVista, lavoro anche nel cinema, come regista e assistente alla regia. Il fattore dei ristori nel nostro caso ha sicuramente salvato una categoria per quattro mesi, una categoria che si è fermata per senso di responsabilità, senza costrizioni del governo, sapendo che i set sono un luogo promiscuo in cui c’è molto contatto ed è quindi molto a rischio. Dopo mesi in cui quei ristori sono stati fondamentali, poi il settore a fine estate 2020 è ripartito a livello produttivo (non distributivo, gli esercenti sono rimasti fermi). C’è stato quindi un surplus di lavoro, pur continuando a ricevere ristori fino a maggio 2021. Ci siamo chiesti per molti mesi per chi stavamo producendo film, però le piattaforme sono subentrate: Netflix, Disney+, Amazon Prime Video comunque distribuivano. E noi abbiamo ricevuto l’ultimo ristoro se non erro a giugno di quest’anno. Questo evidenzia un punto forte: che il governo italiano non ha la più pallida idea di cosa significhi fare cultura in Italia, da nessun punto di vista. Teatro, cinema, letteratura, non ha nessuna idea di come funzionino e di conseguenza non ha saputo gestire la crisi. Era evidente per chi li frequentava che luoghi come cinema e teatri non sono luoghi di contagio, e i dati continuano a confermarlo ogni giorno. E ancora media e politici continuano a battere in quella direzione dando la sensazione che quei luoghi non siano sicuri. È una cosa imbarazzante. Questo avviene perché chi è nei luoghi di potere e deve gestire la cultura in questo paese non sa niente di cosa significhi fare cultura in questo paese.
CA Quando noi abbiamo ricevuto i primi ristori, i nostri colleghi tedeschi ci hanno contattato e ci hanno detto che cosa avveniva in Germania. I tedeschi hanno dato subito cinquemila euro agli artisti, allo scoppio del Covid, ma per produrre, per fare progetti. Hanno messo in giro gli stessi soldi che sono stati messi in Italia: non li hanno dati però come reddito di sussistenza, ma come stimolo alla produzione, facendo un ragionamento completamente opposto. Quando ci hanno chiesto perché non si poteva fare così in Italia, devo dire che la risposta è nelle parole che mi hanno preceduto: non abbiamo, in Italia, la consapevolezza di chi produce. Non conoscere ha implicato come risposta l’elargizione in massa. Si è creata questa sperequazione incredibile le cui conseguenze non siamo ancora in grado di comprenderle.
Noi abbiamo fatto uno sforzo enorme in altre direzioni, anche perché siamo convinti che il teatro è corpi che si incontrano, per cui non abbiamo aderito agli spettacoli online, alle recitine fatte la sera alle nove, all’abuso di letture, di reading: questo ha creato un appiattimento, che è l’opposto dell’aggregazione culturale.
AC Questo punto è fondamentale perché se la politica che prende queste decisioni non ha coscienza dei settori su cui queste decisioni vanno a ricadere, si va a finire di distruggere un mondo culturale che è già in Italia per molte ragioni complesso, precario, incancrenito e ha bisogno di spinta, di propulsione. Pensate ad un esercente di cinema che si trova i ristoranti aperti con le persone sedute a tavola a mangiare senza mascherina che non può ospitare il pubblico a due poltrone una dall’altra, con la mascherina, per tutta la durata del film. Ci sono cinema che hanno chiuso, aziende che sono fallite, persone che hanno cambiato lavoro semplicemente perché la politica non aveva idea di che cosa significava fare quel lavoro.
CA Chi fa cultura costa un chilometro di autostrada, questa è la realtà. Valiamo poco a livello economico, per cui basta una piccola mancia: siamo ancora sudditi, più che cittadini.
Per l’esercente Federico Babini, che proprio per la necessità di portare avanti alcune delle attività di ripartenza del proprio cinema partecipa con un intervento registrato, il discorso è di nuovo concentrato non soltanto sul lavoro e sulla fruizione dei prodotti culturali, ma soprattutto sulle ripercussioni che questa gestione della pandemia avrà sui luoghi culturali.
FB Noi dello Spazio Alfieri, come tutti i luoghi abbiamo dovuto fisicamente abbassare il bandone del cinema. Questo ci ha dato nuove possibilità, nuove sfide: abbiamo fondato una piccola piattaforma per lo streaming dei nostri contenuti che altrimenti non si trovano su altre piattaforme – si chiama 1895.cloud – però siamo stati oggettivamente molto penalizzati. Perché si è allontanato il pubblico dalla sala cinematografica, e ci preme sottolineare che la parte della fruizione, dello stare insieme è stato per lo più funestato. Credo che non ci sia possibilità di negare questa evidenza.
Abbiamo allontanato il nostro pubblico e sarà un lavoro duro farlo riavvicinare, anche perché la sala cinematografica in questo momento viene sicuramente percepita come un luogo non sicuro, nonostante non lo sia
Quest’estate invece ci sono state delle possibilità di riaprire, che abbiamo colto al volo, per noi e per tutti i nostri collaboratori: abbiamo fatto cinema all’aperto, agli Uffizi e al Museo Novecento. Siamo stati anche quest’estate tra i luoghi maggiormente attenzionati, per cui addirittura all’aperto abbiamo dovuto richiedere green pass, e questo ancora una volta ha dimostrato come il potere politico ci senta come un di più, ecco, una fruizione non necessaria, mentre noi ci vorremmo sentire necessari.
Adesso, le prospettive sono quelle su cui ci stiamo impegnando di più, quello su cui pensiamo, discutiamo, ci incontriamo. Le prospettive non sono certe ovviamente, abbiamo allontanato il nostro pubblico e sarà un lavoro duro farlo riavvicinare, anche perché – e questa è un’osservazione che voglio fare – la sala cinematografica in questo momento viene sicuramente percepita come un luogo non sicuro, nonostante non lo sia. E questa è una cosa che alla lunga ci danneggerà moltissimo.
AC Si parla di luoghi della cultura, e la libreria tra quelli che nella filiera del libro ha sofferto di più queste chiusure e la poca chiarezza nella comunicazione politica, è vero però che il libro in questo anno e mezzo ha avuto la possibilità di mantenere la propria diffusione ed è anche vero che il mondo dei lavoratori e in particolare dei traduttori editoriali, Samanta, sta assistendo all’apertura di nuove finestre e vedendo nuove possibilità.
SKMK Per quanto riguarda le librerie, dopo la prima chiusura che ha decretato che il libro non era un bene di prima necessità, se non comprato su Amazon – perché Amazon ha continuato a vendere tutto il tempo, il che significa finanziare il mercato economico ma non i lavoratori della cultura –, il governo, alla luce del divario che si era creato, ha detto “Vabbè, riapriamole, così non protestano più”. È stato questo che secondo me ha spinto il governo a riaprire le librerie, non il riconoscere il libro come bene di prima necessità.
Per quanto riguarda i traduttori, per la prima volta sediamo a qualche tavolo, il che è un grande passo avanti, perché significa che il Ministero ha riconosciuto che i traduttori editoriali fanno parte attivamente della filiera e che se non ci fossimo noi una grandissima fetta dei libri che leggiamo non esisterebbero neanche sul mercato, e quindi forse vale la pena interpellarci.
AC Vale la pena essere ottimisti, vale la pena anche dire che è scandaloso che si arrivi nel 2020 a riconoscere una categoria che fa un lavoro fondamentale nel mercato editoriale, un mercato in cui noi accogliamo a braccia aperte i grandi autori festeggiando il tale autore francese che ha venduto un milione di copie e la celebre scrittrice inglese ha venduto tre milioni di copie e non riconosciamo come categoria di lavoratori le persone che ci permettono di leggere le loro opere.
SKMK Ovviamente, che si sia arrivati a riconoscere nel 2020 la figura del traduttore editoriale è assurdo. StraDe sono anni che lotta perché ci sia questo riconoscimento. Diciamo che abbiamo colto la palla al balzo con i ristori, perché abbiamo visto aprirsi una piccola finestra e ci ha dato la possibilità di essere riconosciuti e di far valere quel riconoscimento. Adesso nessuno potrà più ignorarci quando chiederemo qualcosa.
Il primo obiettivo di StraDe, oltre agli obiettivi primari come equo compenso e compenso dignitoso, è la previdenza sociale: essendo una categoria fiscale agevolata non abbiamo previdenza sociale, quindi non abbiamo malattia, non abbiamo pensione, non abbiamo maternità. La prospettiva futura è arrivare ad avere dei compensi che ci permettano di pagare una previdenza, perché con i redditi che abbiamo adesso se ci dicessero di pagare l’Inps per avere una pensione noi dovremmo smettere di fare questo mestiere. Parlando chiaro: non ci possiamo permettere di pagarci una pensione. Quindi il primo passo è stato il riconoscimento, nel momento in cui siamo riconosciuti dobbiamo puntare ad avere compensi che ci permettano di avere dei paracadute, degli ammortizzatori sociali che ci permettano di non dover lavorare fin quando moriamo, insomma.
Abbiamo colto la palla al balzo con i ristori, perché abbiamo visto aprirsi una piccola finestra e ci ha dato la possibilità di essere riconosciuti e di far valere quel riconoscimento
L’altro grosso obiettivo di StraDe è avere un fondo strutturale. Lo scorso anno il Mibact ha stanziato 5 milioni di euro per i traduttori editoriali; e qui potremmo aprire una grossa parentesi su quanto i traduttori editoriali si sentano parte della categoria, perché tanti non hanno fatto neanche domanda, tanti non siamo riusciti neanche a raggiungerli e ad informarli del fatto che avevano diritto a un ristoro. Questo segnala un grosso malessere della categoria, come censimento: non sappiamo quanti siamo, non sappiamo chi è traduttore editoriale, è veramente difficile. Questo fondo, dicevo, il fatto che siano stati stanziati dei soldi destinati ai traduttori, noi vorremmo cercare di trasformarlo in un fondo strutturale – annuale, biennale, triennale che sia – destinato alla formazione continua, al sostegno del lavoro creativo, dei progetti. Se c’è un libro, magari un capolavoro, che però non ha prospettive di vendita alta, che ci sia un fondo che sostiene la traduzione e permetta a un editore di pubblicarlo pur non avendo la garanzia di ritorno economico. Questi sono i primi obiettivi, speriamo che questo rapporto con il Ministero ci porti a qualcosa di concreto.
CA Io sono un ottimista, voglio dirlo, anche se sembra strano. Io vengo dal festival della filosofia: ieri eravamo a Modena, in piazza, dove abbiamo presentato al Festival Filosofia uno spettacolo con sette attori, una produzione nostra intitolata Il mondo è una unità si voglia o non si voglia, mettendo in relazione in Piazza Roma Antonio Gramsci e Franco Basaglia con una produzione ad hoc. Io sto producendo e continuo. Secondo me la prospettiva è quella di inventarci una risposta nella relazione. Dice proprio Basaglia, si è liberi soltanto in termini di reciprocità. La reciprocità è quella tra l’attore e lo spettatore, che sono due che fan l’amore. Se non c’è questa relazione, crolla tutto. Qual è il punto su cui io insisto? Noi possiamo anche inventarci queste cose, ma dobbiamo riuscire a far capire delle cose alla politica – lo dimostra il fatto che il nostro ministro durante la pandemia per il teatro la prima cosa di cui ha parlato è stato Netflix, quantomeno fosse stato zitto un attimo sarebbe stato meglio per tutti. Le prospettive sono convinto che ci siano se ci guardiamo un attimo dentro e odoriamo il mondo fuori, inventandoci un nuovo incontro. Noi abbiamo bisogno di libertà: libertà significa osservare le regole, quindi distanziamento fisico, non distanziamo sociale. Osserviamo quello fisico dove e come necessario, ma aborriamo quello sociale, perché questo è la morte. Ritroviamo comunità, ricreiamo comunità. In questo il teatro non risolve da solo, ma può dare una mano.
Si ringraziano StraDe, Chille de la balanza e Spazio Alfieri per la partecipazione
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