L'uomo dietro lo Zar
Le meraviglie di Ivan Zaytsev e il cuore olimpico di Simone Buti
C’è un immagine che più di tutte affolla gli schermi di questo finesettimana azzurro a Rio de Janeiro: lo Zar Ivan Zaytsev che urla via la sua rabbia dopo i tre ace consecutivi nella semifinale di volley maschile contro gli Stati Uniti. Tre ace che ci portano al quinto set, a giocarci l’accesso alla finale olimpica. Giornali, social media e televisioni impazziscono per lo schiacciatore di Spoleto. Eppure, alle spalle del figlio d’arte d’origine russa c’è un altro uomo della spedizione italiana che ha lavorato duro per portare gli azzurri in finale. Un uomo semplice, partito dalla panchina e decisivo per il cammino della nazionale, un uomo dietro lo Zar.
9 agosto. Terzo set di Italia-USA, seconda partita del Gruppo A per la qualificazione ai quarti di finale. La nazionale italiana è avanti 21 a 19 quando Rossini, secondo libero dietro Colaci, entra in campo e va al servizio. Battuta flottante ricevuta da Erik Shoji, libero hawaiano, Christenson alza per la pipe da seconda linea di Sander, ma sulla finta di tiro di David Lee capitan Birarelli salta a muro e nel toccare terra la sua caviglia destra si piega: gioco interrotto e partita finita per il centrale azzurro. Al suo posto, in un momento cruciale della partita, entra il numero 11 Simone Buti, compagno di squadra di Birarelli a Perugia. Per Buti, centrale toscano classe ’83, l’Olimpiade di Rio è il coronamento di sette anni in nazionale. «Sono nel giro azzurro dal 2009», commentava all’indomani della convocazione, «ho disputato tutte le competizioni possibili, mi mancava solo l’Olimpiade che tra l’altro è di gran lunga la più bella e affascinante. Ci tenevo, me la sono sudata ed ora voglio giocarmela e vivermela al massimo». E lo dimostra alla prima occasione, un punto dopo l’infortunio del capitano. Kawika Shoji, fratello di Erik, batte forte sul nastro: bagher di Buti sotto rete e botta in primo tempo sull’alzata di Giannelli che lascia immobili gli statunitensi: 22 a 20. Ancora un punto per gli USA e ancora Buti, che stampa a terra la schiacciata di Taylor Sander con uno spettacolare muro a uno e stringe i pugni al cielo, ristabilendo il doppio vantaggio che l’Italia si porterà fino a fine set. «Pallone che si imbuta nell’imbuto del Buti!», urla Lucchetta con il suo italiano funambolico, e la nazionale azzurra esce con una vittoria che vuol dire ipoteca sui quarti di finale.
19 agosto, semifinale. Ancora Italia-USA, ancora terzo set, ancora il panchinaro Simone Buti che, dopo Birarelli recuperato, è chiamato a sostituire Matteo Piano, infortunatosi contro il Brasile. Su un parziale di un set a uno la nazionale a stelle e strisce ci sta asfaltando con la potenza di Anderson e i primi tempi di David Lee e Max Holt e Blengini le prova tutte cambiando praticamente l’intero sestetto: dentro Vettori, Sottile, Rossini e Antonov per rinfrescare le idee, ma gli USA si portano addirittura sul 18 a 4, con dieci punti consecutivi. I volti degli azzurri sono lo specchio di una nazionale che non gira: le battute non vanno, i muri sono impalpabili, gli schiacciatori non passano mai. Sul 17esimo punto USA un’inquadratura della regia brasiliana fotografa il momento dell’Italia: Juantorena e Zaytsev, due degli attaccanti più prolifici del torneo con più di 100 punti a testa, sono seduti in panchina, con lo schiacciatore cubano che tenta timidamente di risollevare il morale dello Zar, gambe divaricate e sguardo fisso in un punto lontano, con gli occhi di chi sa di star buttando via la partita. Dopo un brutto errore in battuta di capitan Birarelli, sul 23 a 8 per gli Stati Uniti, è il turno di Simone Buti, che alla prima palla servitagli da Sottile spara un primo tempo sulle braccia di David Lee, solleva le braccia al cielo e sorride. A braccia aperte come il Cristo Redentore che veglia su Rio de Janeiro, Buti veglia sul morale azzurro. Il set è perso con un parziale pessimo, peggiore del 25-12 con cui il Brasile ci aveva schiacciato e poi mandato a casa nella semifinale di quattro anni fa a Londra, ma Buti sorride perché ci crede.
È uno dei pochi a crederci davvero, nel quarto set che l’Italia deve vincere per continuare a sognare la finale. Sul 9 a 11 per gli Stati Uniti Blengini chiede time-out. Con al fianco i centrali titolari Piano e Birarelli, uno infortunato l’altro in condizioni precarie, Buti ringhia sui volti spenti dei compagni di squadra: «Siamo più forti! Siamo più forti!». Ringhia in faccia alla maschera d’impotenza di Juantorena, che non mette giù un pallone da un set e mezzo, ringhia in faccia allo sguardo rassegnato dello Zar, che non trova più continuità. «Crediamoci, siamo più forti noi!». Ed è vero. Rimaniamo punto a punto fino al 22 a 19 per gli USA, quando il mani fuori di Buti ci riporta sotto di due e consegna la palla tra le mani di Ivan Zaytsev, in turno di battuta. Lo Zar si ricorda dei quattro ace proprio contro gli Stati Uniti nella Final Six di due anni fa e, dopo una ritrovata parità, imposta il replay. 111 km/h su Shoji. Ace, 23 a 22. 122 km/h stampati sulla linea di fondocampo. Ace, 24 a 22. 110 km/h su Shoji. Ace, 25 a 22. Cinque battute e tre ace consecutivi e partita al quinto set.
Nel tie break siamo avanti e Rai Radio1, esaltando il carattere della nazionale, twitta: "#ITA #USA 9-7 5°set l'orgoglio italiano! #Zaytsev #Juantorena trascinano tutti!" Ma chi ce l’aveva quel carattere quando serviva, nel momento di difficoltà soltanto un set e mezzo prima? Quando lo Zar guardava in basso, sconfitto, e Juantorena sbagliava tutto, Buti sorrideva. E così anche nel quinto set il numero 11 di Fucecchio incita i compagni, fa punto su battuta, esulta, sbaglia la successiva, si arrabbia, colpisce la panchina con un pugno. Gioca con il cuore, e si prende la sua rivincita: sul 14 a 9 Italia salta sul primo tempo di David Lee e lo stampa nei tre metri con un fantastico muro a uno. L’Italia è in finale grazie a Simone Buti, che come un Di Biagio al contrario si porta le mani sul volto e si lascia cadere a terra. Il primo ad abbracciarlo è Ivan Zaytsev. Lo Zar ci ha messo il braccio, Buti il cuore. «Non siamo la generazione dei fenomeni, solo una squadra di persone fenomenali», commenta capitan Birarelli.
Le semifinali hanno sempre un gusto particolare, le squadre sono vicine al traguardo ma ancora nel pieno del torneo e spesso, meno contratte rispetto alla tensione di una finale, esprimono il loro gioco migliore. Sono le semifinali a rimanere impresse più a lungo nella memoria collettiva, mondiale e soprattutto italiana – basti pensare, nel calcio, alla partita del secolo di Messico ’70, ai rigori di Italia-Olanda a Euro 2000, alla semifinale dei mondiali di Germania 2006 al Westfalenstadium di Dortmund. E poi, in quelle partite, ci sono gesti, parole, momenti che, anche se non decidono la gara, diventano immortali. In quell’Italia-Germania di dieci anni fa, ad esempio, il tiro a giro di Fabio Grosso e il suo urlo alla Tardelli decisero la partita, ma il grande momento sportivo della semifinale, quello che ricorderemo, è la cavalcata di Alessandro Del Piero, sempre deludente nella nazionale italiana, che macina 80 metri di campo e la mette laggiù, di prima, incrociando come non gli era riuscito in finale agli europei del 2000. Quante volte l’abbiamo rivisto, quante volte abbiamo risentito le parole di Fabio Caressa che non ripetiamo, perché già risuonano nella vostra testa. Nella pallavolo lo scoglio della semifinale per gli azzurri, soprattutto alle olimpiadi, è sempre stato più ostico, ma stavolta potremo guardarci indietro in maniera diversa. A dieci anni da oggi, quando ripenseremo a Rio e alla vittoria di questa semifinale folle decisa dai tre ace dello Zar, ricorderemo il muro a uno e il sorriso di un uomo semplice, Simone Buti, riserva.
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