Lucas vs Spielberg
La scommessa da 700 milioni di dollari
Estate 1976.
George Walton Lucas Jr. è sull’orlo di un esaurimento: ha appena finito di girare Guerre Stellari, il primo – quarto nell’ordine cronologico della storia – di nove episodi, ma il risultato non gli sembra coincidere con il progetto iniziale. I costumi, gli oggetti di scena, persino le ambientazioni non corrispondono alla sua visione originale dell’universo di Star Wars. È convinto di aver realizzato un film per bambini.
Nel frattempo l’amico e collega Steven Allan Spielberg è a Mobile, Alabama. Sta girando Incontri ravvicinati del terzo tipo – unica pellicola di cui è anche autore; ispirata al suo Firelight, lungometraggio di fantascienza avventurosa scritto e diretto ancora sedicenne con un budget di 500 dollari – , fino a quel momento la produzione a più alto budget della sua carriera, più del doppio de Lo squalo con una spesa superiore ai 19 milioni di dollari. Lucas lo raggiunge per un paio di giorni sul gigantesco set del sito di atterraggio alieno – alto 27, largo 76, lungo 137 metri che ne fanno il più grande mai realizzato al chiuso; costruito all’interno di un hangar dell’Aeronautica Militare abbandonato dopo la chiusura della Brookley Air Force Base – e ne rimane folgorato. «Mio Dio, il tuo film avrà molto più successo di Star Wars», dice. «Sarà il trionfo più grande di sempre».
In dubbio sulle sorti della sua opera e convinto del successo di Incontri ravvicinati del terzo tipo – a ragione, il film guadagnerà 337 milioni di dollari a fronte di una spesa di 20 e contribuirà a risollevare le sorti della Columbia Pictures, allora in grave crisi – Lucas propone all’amico un patto: «Io ti do il 2.5% degli incassi di Star Wars se tu mi dai il 2.5% degli incassi di Close Encounters». Spielberg, ugualmente certo del successo del progetto di Lucas, accetta subito la scommessa.
Primavera 1976.
Lucas, reduce dal grande successo di American Graffiti, ha fondato la Industrial Light & Magic da ormai due anni e, Modesto di nascita ma ambizioso per natura, ha concepito un’ennealogia fantascientifica ambientata in un universo “usato” (costellato di astronavi, edifici, congegni dall’aspetto sporco e antiquato) che affonda le radici nel mondo di Flash Gordon e nell’idea di science fantasy, attingendo da La fortezza nascosta di Kurosawa e L’eroe dai mille volti di Campbell. Alan Ladd Jr., a capo della 20th Century Fox, ha visto in lui una promessa – «investì in me, non nel film», dirà più tardi Lucas – e ha stretto un accordo che gli permetterà di dirigere il primo film.
Ma la realizzazione del progetto è tutt’altro che facile. All’inizio delle riprese nel deserto tunisino, per le scene ambientate sul pianeta Tatooine, la produzione viene rallentata da una tempesta e da vari problemi tecnici. In più la sua tendenza, provenendo Lucas dal cinema indipendente, a dare suggerimenti sulla luce, lo porta spesso a scontrarsi con il direttore della fotografia Gilbert Taylor, classe 1914, che si sente offeso e scavalcato dal suo comportamento. Lo stesso rapporto con gli attori, ai quali raramente parla, vive di una difficile distanza e di una direzione di così poche parole che si vengono a creare problemi di relazione e incomprensioni sul testo, tanto che Harrison Ford gli griderà: «George, puoi scrivere questa merda, ma non puoi pronunciarla!». L’anno seguente il film verrà candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Lucas è sotto una pressione spaventosa: da una parte i gravi ritardi sulla tabella di marcia, dall’altra la sensazione di non star riuscendo a portare sullo schermo il film così come l’aveva pensato. Ciò che più di ogni altra cosa lo frustra è la sfiducia generale del cast (la maggioranza riteneva il film un sicuro fallimento, Ford lo trovava strano per la presenza di una principessa con una ciambella per capelli e di un «gigante in un costume da scimmia») e della maggior parte della troupe che, considerato dai più, come egli stesso temeva, un film per bambini, non vi metteva impegno, riuscendo difficilmente a prenderlo sul serio e trovandovi spesso del ridicolo involontario.
Il progetto gli porta via tutte le energie e gli vengono diagnosticate ipertensione e spossatezza. Avvertito di diminuire il suo livello di stress, soffocato dall’ansia e dal tremendo lavoro, non dirigerà più per oltre vent’anni – riprenderà in mano la direzione della saga soltanto con La minaccia fantasma – , commissionando la regia de L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi a Irvin Kershner e Richard Marquand. Al termine delle riprese, i suoi nervi sono a pezzi.
Maggio 1977.
È il 25. George ha passato la giornata a mixare diverse versioni in lingua straniera di Guerre Stellari in uno studio di Los Angeles. Ha chiamato la moglie e le ha detto di incontrarsi in un locale e cenare insieme a base di hamburger. Arrivando al ristorante, entrambi si rendono conto che le strade sono intasate e i marciapiedi affollati. Dall’altra parte della strada, di fronte al ristorante, al Mann’s Chinese Theatre, viene proiettato Star Wars.
Nella prima settimana, con il film in sole 32 sale, vengono staccati tre milioni di dollari di biglietti. Nel giro di un anno la pellicola incasserà più di 200 milioni di dollari nei soli Stati Uniti d’America, arrivando ad oltre 700 milioni in tutto il mondo. Spielberg ha vinto la scommessa.
Incontri ravvicinati del terzo tipo, certo, è il prodotto di una fantascienza più matura. Eppure Lucas non aveva torto a definire Guerre Stellari un film per bambini, un film che tocca le corde recondite di ognuno, intriso di quella gioia, di quella forza, di quello stupore infantile che mossero alle lacrime il produttore esecutivo Gareth Wigan durante la prima proiezione della pellicola, e che lo portarono a dire allo stesso Lucas: «Questo è il più grande film che abbia mai visto».
Commenta