Lotta senza quartiere

L’illusione degli europeisti e le conquiste degli estremismi

Il risultato delle elezioni europee deve aprire gli occhi a tutti noi. Noi che crediamo nel processo d’integrazione europea come una cosa buona e giusta; noi che guardiamo all’Europa unita come occasione di prosperità, forza e libertà per tutti; noi che crediamo nell’intrinseca ricchezza che danno le frontiere quando cadono e l’umanità quando è libera e in viaggio; ecco, noi credevamo anche che, nel nostro piccolo quotidiano, non ci fosse bisogno di impegnarsi troppo per fare di questa utopia una realtà, perché tutto ciò che poteva remare contro di essa, noi credevamo, era finito: l’etnocentrismo cocciuto, sicuro di sé e attratto dal fascino della violenza, l’abietto sciovinismo di chi volentieri brandirebbe la sovranità come una mazza ferrata per fare i propri interessi anche a spese dei vicini, e al fondo di tutto l’inestirpabile orgoglio della nazione, quella comunità immaginata che tuttora raccoglie gli interessi, fonda gli Stati, le cittadinanze e le identità, e che pure su di sé ha imperniato ingiuste gerarchie e fatto molte vittime. Noi credevamo che quest’idea, in generale, non andasse più di moda in Europa, e che perciò nessuno avrebbe più potuto fondarvi una proposta credibile per chicchessia, disegnare attraverso di essa un futuro che ancora risultasse attraente ad occhi educati, dalla religione della memoria, a sapere che genere di lutti l’idea della nazione ha dato all’Europa. Soprattutto credevamo che i suoi peggiori derivati e corollari, come il razzismo, l’antisemitismo, l’autoritarismo e l’integralismo religioso che volentieri l’accompagna, ma anche la pura e semplice violenza come strumento non accessorio dell’azione politica, e la visione programmaticamente distorta del mondo che impone, non fossero più che tristi trastulli per fanatici, che in quanto malati della società, veri e propri eretici della democrazia, andavano esecrati ed emarginati, tenuti a bada nell’ombra, fuori dalla legge, in attesa che il marcio vi si seccasse e quindi scomparisse dalla vista.

Noi antifascisti, che moralmente abbiamo vinto la seconda guerra mondiale grazie a e nonostante i nostri nonni, noi progressisti che la Chiesa non ci piace, gli immigrati sono in sé una risorsa e gli omosessuali non possono non avere i nostri stessi diritti civili, noi cosmopoliti che vorremmo sentirci a casa da Lisbona a Varsavia, da Oslo a Roma e, perché no, anche a Istanbul, noi credevamo che tutta quella roba – la nazione, la tradizione, la sovranità – valesse meno della promessa di pace, ricchezza e stabilità offerta dal sogno di un’Europa unita; ancora di più, noi credevamo che questa fosse tutta spazzatura, relitti di un medioevo politico da spazzare via e che nessuno dotato di ragione avrebbe mai potuto prendere per solidi mattoni di una bella casa in cui abitare serenamente. Invece oggi sappiamo che l’United Kingdom Independence Party è il primo partito in Gran Bretagna; che i socialisti, in Ungheria, sono crollati non solo sotto a Fidesz, ma addirittura dietro i fascisti di Jobbik; che in Danimarca ha vinto il Folkeparti, in Germania fa capolino un (ancor minuscolo) partito Nationaldemokratische, e i Partiti della Libertà in Olanda e Austria si piazzano rispettivamente secondo e terzo. Soprattutto oggi sappiamo che Marine Le Pen ha preso il 25%, lasciando ai socialisti francesi un umiliante 14%. Questo è lo svelamento definitivo: come bisogna ricominciare a guardare la Francia nella sua duplicità – patria della Rivoluzione sì ma anche dell’Impero, della Terza Repubblica sì ma anche dell’affaire Dreyfuss, di Charles de Gaulle e di Pierre Laval – è necessario riconoscere che quelli che noi finora abbiamo considerato come rifiuti della civiltà europea, reietti della modernità da respingere indietro nel tempo, appartengono a questo Vecchio Continente tanto quanto noi; sono i nostri fratelli di sangue, i nostri vicini di casa, con cui non potremo mai andare d’accordo, ma che non potremo mai mettere a tacere se non venendo meno ai nostri stessi valori, e accettando il rischio che il marcio, dall’ombra, non tragga repellenza ma fascino, e un giorno o l’altro ci assalga e ci divori. Sembra poi scontato che chi lavora contro l’integrazione politica ed economica dell’Europa stia facendo, consapevolmente o meno, il gioco di gruppi di pressione a diverso titolo interessati a conservare il continente nella sua reciproca disaffezione e disunità, ma non si può credere che i milioni di cittadini europei che hanno votato contro l’Europa e contro l’euro siano tutti complici o tutti cretini. Essi hanno semplicemente fatto i propri interessi di individui, o quelli che hanno creduto essere tali; sono stati persuasi, ma a partire da necessità e sentimenti reali, cui non si può più negare legittimità sulla base della sciocca arroganza politica e morale di noi campioni di ciò che a tutti dovrebbe sembrare cosa buona, giusta e inevitabile.

Non si può più fingere che questi gruppi politici non esistano, che siano marginali o derubricabili a fanatismi senza futuro, tutti ugualmente incapaci di proporre o di costruire. Gli europeisti devono guardare in faccia la realtà e lasciare che essa, per quanto brutta, sia guardata. In Grecia, Syriza avrà anche preso il 26 e rotti per cento; Alba Dorata passa il 9. Su una nuova comprensione di queste formazioni, indissolubilmente legate alle tradizioni nazionali d’Europa e cresciute su un malcontento che tutto può concimare, dobbiamo lavorare noi che ancora siamo profondamente convinti della superiore convenienza, oltre che dell’intrinseca giustizia, di un’Europa unita e integrata politicamente oltre che economicamente, e perciò giocoforza meno interessata a conservare la sovranità dei singoli Stati. Sarebbe bello che a tutti l’integrazione europea apparisse nella stessa luce di necessità storica in cui appare a noi, ma non è così. È dunque importante porre l’Europa al centro del dibattito pubblico, per restaurare la fiducia nell’idea creando immagini e discorsi europeisti nuovi, capaci di toccare le corde profonde di questo elettorato, ma anche per tentare di rimuovere le cause concrete della sua ostilità; dovrebbero essere privilegiati i paradigmi, come quello federalista, che puntano a riformare le istituzioni centrali europee in modo tale da dare alla maggior forza dell’Unione una legittimazione popolare il più possibile diretta. In quest’arena, i nazionalisti d’Europa dovranno essere avversari degni non di compassione o disprezzo, ma di una lotta politica senza quartiere.


Parte della serie Speciale Europee 2014

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