L’ombra del vampiro

Il Nosferatu di Murnau e il lato oscuro dell'incoscio

«Lo sai, io amo l’ombra come amo la luce. Perché esistano la bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere, l’ombra è necessaria quanto la luce», scrive Friedrich Wilhelm Nietzsche ne Il viandante e la sua ombra, ai tempi dell’Impero germanico di Bismarck. Quell’ombra che, nel fermento culturale di fine secolo da cui scaturirà la psicanalisi, prende vita come materializzazione di un inconscio spaventoso e incontrollabile. Quell’ombra che l’uomo ha bisogno di ricondurre a sé ma che non può comprendere, da lui separata e ad un tempo legata indissolubilmente.
Repubblica di Weimar, 1920. Il disegnatore Albin Grau incontra per la prima volta un altro Friedrich Wilhelm, che di cognome fa Plumpe ma si fa chiamare Murnau, per la stesura dei manifesti del suo Il cammino nella notte. L’anno successivo Grau, seguace di Aleister Crowley e studioso di occultismo, fonda la casa di produzione Prana Film per divulgarne le teorie e sceglie proprio il regista del neonato espressionismo tedesco per dirigere la sua prima pellicola: Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens, ispirato alla storia del Dracula di Bram Stoker e del quale sarà anche direttore artistico. A Henrik Galeen, sceneggiatore de Il Golem di Wegener, affida la scrittura e al grande Fritz Arno Wagner, già direttore della fotografia di Destino di Lang e de Il castello di Vogelod dello stesso Murnau, il compito di illuminarne le ombre.

Nel progetto della Prana Film le ombre devono suggerire una realtà altra dove risiede il soprannaturale e domina l’occulto, per questo il produttore disegna di propria mano le sequenze e progetta scenografie e costumi: prima che Murnau giri la scena, «Albin Grau, l’ha preparata fin nei particolari secondo i principi psicologici e pittorici da lui adottati. Ogni dettaglio viene stabilito con rigore scientifico in funzione dell’effetto psicologico che deve produrre nello spettatore», scrive la rivista Der film ai tempi della lavorazione.
In apertura una didascalia che è anche una dichiarazione: Nosferatu. Non suona questa parola come l’uccello della morte che chiama il tuo nome? Attento a non pronunciarla mai – perché allora le immagini di vita si dissolveranno in ombre. Il giovane Hutter parte per la Transilvania per portare a termine un contratto di vendita – scritto in simboli alchemici – sebbene la moglie Ellen, tormentata da oscuri presagi, cerchi di impedirglielo. Dopo un lungo viaggio Hutter raggiunge il Conte Orlok, entrando nel castello i due svaniscono nell’ombra.

L’intento di insistere sull’oscurità è chiaro, ma la regia di Murnau trascende ben presto le velleità propagandistiche di Grau con la potenza di immagini e la forza di un racconto che ne sfrutta il valore intercettando e nutrendosi del sentire del tempo, in quella che è al contempo la contraddizione e la più grande forza teorica e visiva della pellicola. Si assiste al paradosso per cui, nei momenti più bui, una luce intensa disegna netta l’ombra di un vampiro che agisce di notte, in assenza di luce. L’esigenza tecnico-narrativa si palesa in chiaro artificio, dove il cinema espressionista stesso è artificio e dove l’ombra e la luce «non sono avversarie: anzi si tengono amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l’ombra le scivola dietro».
Mentre per Nietzsche però, l’ombra è ciò «che tutte le cose mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza», per Murnau il suo manifestarsi è l’assenza di conoscenza che si crea quando le cose terrene si frappongono tra l’uomo e la luce del sole, è la materializzazione dell’ignoto – Un polipo con i tentacoli. Trasparente, quasi etereo… poco più che un fantasma, dice il professor Bulwer. L’ombra è inafferrabile ma concreta, sfuggente ma reale. È l’ombra di Nosferatu, non Nosferatu stesso, ad assalire Hutter nella notte. È l’ombra di Nosferatu a salire le scale, ad aprire la porta della stanza di Ellen. È l’ombra di Nosferatu ad afferrarne il cuore tra le lunghe dita.

Non è un caso che il vampirismo nel film sia accompagnato dalla peste, che si manifesti e propaghi come una malattia. Le bare che seguono Nosferatu sono il sepolcro dell’uomo moderno e la terra contaminata dal morbo terreno fertile per le sue storture. L’ombra del vampiro è la manifestazione di uno spettro, del non-visto, dell’inarrestabile incombere del lato oscuro dell’uomo, del Male che ne è parte intrinseca e del quale egli stesso è terrorizzato, come confessa Hans Beckert nel grandioso monologo di M di Fritz Lang: «Quando cammino per le strade ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo, ma sono invece io che inseguo me stesso. Silenzioso, ma io lo sento. Sì, spesso ho l’impressione di correre dietro me stesso. Allora voglio scappare, scappare, ma non posso, non posso fuggire! Devo uscire ed essere inseguito. Devo correre, correre per strade senza fine». È la malattia dell’uomo novecentesco, l’ombra da debellare con la luce. Fuggire non è la soluzione, l’uomo non può esimersi dallo scontrarsi con le proprie oscurità.
L’estremo sacrificio di Ellen, che disseta il vampiro fino al sopraggiungere della luce, è il dazio che l’uomo deve pagare per riappropriarsi di sé. Murnau mostra per la prima volta Nosferatu in carne ed ossa fare sua l’innocente vittima, denudato dell’eterea sicurezza della propria ombra, del suo scudo volatile, diviene finalmente vulnerabile e soccombe sotto i primi raggi di un’alba che segna un nuovo inizio per l’uomo. Un uomo che non teme e affronta se stesso, che si abbandona all’inconscio per conoscerlo e ricondurlo, umano, troppo umano, a sé, e scongiurare il rischio di esserne sopraffatto: «Pur di possedere una totale conoscenza dell’uomo, sarei volentieri tua schiava», dice l’ombra al viandante. «Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente padrona?».


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