L'obbiettivo realista
Giovanni Verga e Italo Svevo agli albori del romanzo italiano moderno
Raggiunto il traguardo della estenuante maratona risorgimentale l’Italia, da poco politicamente unita, si trova ad un punto di svolta epocale, soglia di impegni ed attese forse ancora più gravi degli anni di lotta appena trascorsi: il neonato Regno d’Italia, al momento esistente solo nominalmente, deve darsi assetto istitutivo, riorganizzare le regioni acquisite, creare un tessuto sociale il più omogeneo possibile da un folla di individui divenuta popolo in una manciata di giorni. Stesse erano le difficoltà costitutive della cultura letteraria italiana, quella cultura che aveva seguito passo passo la vicenda risorgimentale e che adesso doveva rinnovarsi per divenire espressione di una giovane nazione. Così, accanto alla cultura “ufficiale”, risorgimentale e patriottica, dei vari De Sanctis e Manzoni, andavano nascendo nuovi movimenti e orientamenti artistici, letterari, musicali, quali la Scapigliatura o il gruppo di critici riuniti nella cosiddetta Scuola storica.
Giovanni Verga si trasferisce a Milano nel novembre del 1872 e vi risiede per circa un ventennio. La città costituisce assieme a Firenze il centro della cultura italiana dell’epoca e catapulta il narratore siciliano nel vivo del dibattito avanguardistico: è in questi anni che conosce e frequenta gli scrittori scapigliati, Arrigo Boito ed Emilio Praga in primis, ed inizia la riflessione che gli permette di evolvere la propria capacità narrativa, dall’abbandono dei temi storico-patriottici, romantici, passionali dei primi romanzi – Eva, pubblicato nel 1873, Eros e Tigre reale, del 1875 – all’elaborazione dell’idea del ciclo dei Vinti, progetto comprendente originariamente cinque romanzi, dei quali solo due verranno effettivamente portati a compimento. Il nuovo indirizzo del Verga è inaugurato dalla raccolta di novelle Vita dei campi, del 1880. La raccolta ripropone il mondo arcaico delle campagne siciliane, quella realtà agreste e primitiva comune a tutte le regioni d’Italia, tanto cara al narratore quanto alla schiera di quegli scrittori, attivi nell’ultimo quarto dell’Ottocento, passati poi sotto il nome di veristi, e di cui Verga è considerato il maestro. L’atteggiamento positivista di indagine scientifica a fine di riscatto sociale e l’interesse puramente folcloristico sono abbandonati a favore della rappresentazione disincantata della società moderna, incalzata dalla storia e governata dai conflitti di interesse, dai gradini più bassi fino alle classi dirigenti. Il narratore si nasconde dietro la pagina, non si mostra né giudica, rende il racconto autonomo, indipendente, come se la voce provenisse dalla coralità rurale rappresentata: nasce così la tecnica dell’impersonalità, canone fondante dell’obbiettivo critico verghiano. Se in Vita dei campi, e nel successivo romanzo I Malavoglia del 1881, i risultati dell’indagine del Verga permettono ancora ai personaggi – predestinati sconfitti – di rimanere fedeli ai valori tradizionali degli affetti e della famiglia, nelle novelle successive e in particolare nel secondo romanzo del ciclo, Mastro-don Gesualdo del 1889, anche questo appannato remasuglio del passato sublima tra i fumi del nuovo mito del possesso, della roba. Nel secondo capitolo il nobile decaduto don Diego Trao parla con sua cugina, la baronessa Rubiera:
– Signora baronessa... siamo poveri... è vero... Ma quanto a nascita...
– Eh, caro mio! La nascita... gli antenati... tutte belle cose... non dico di no... Ma gli antenati che fecero mio figlio barone... volete sapere quali furono?... Quelli che zapparono la terra!... Col sudore della fronte, capite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello... capite?...
Questo progressivo incupimento della visione del Verga non deve sorprendere, anzi si trova perfettamente in linea con le considerazioni che il narratore aveva espresso già nel 1873, nella Prefazione al romanzo Eva, sulla condizione dell’artista nella società moderna. Egli non è ormai che un uomo di lusso, dedito ad un mestiere superfluo ed inutile, impossibilitato ad incidere con la propria parola sul reale. Da qui, perciò, il suo operare di coscienza critica, di testimone anonimo, invisibile, del degrado civile ed etico contemporaneo. L’eredità del lavoro del Verga è accolta, sul finire del secolo, da un altro grande padre della narrativa moderna italiana: il triestino Italo Svevo. Non è un caso che nel 1889, anno in cui vedono la pubblicazione sia il Mastro-don Gesualdo sia Il piacere – esordio romanzesco di Gabriele D’Annunzio –, Svevo preferisca recensire il primo, mentre tutta la critica italiana è impegnata a elogiare l’ultimo lavoro del futuro vate. Le affinità tra l’allora sconosciuto Svevo e il Verga, infatti, non sono poche: innanzitutto, la classe sociale di appartenenza, vista l’estrazione borghese comune; tutti e due, poi, sono aperti alla cultura europea – fatto insolito per la letteratura tradizionale italiana –, risiedendo il Verga nella vivace Milano di secondo Ottocento e Svevo nella Trieste dei banchieri e dei commercianti, crocevia di idee e popoli, dagli influssi slavi a quelli mitteleuropei fino a quelli francesi e italiani; inoltre, parallelamente alla concezione verghiana dell’artista uomo di lusso sopra ricordata, si situa quella sveviana della letteratura come passatempo, cui il moderno uomo d’affari può dedicarsi nelle pause dalla giornata lavorativa, segretamente, non per appagare delle velleità letterarie ma per interiore necessità. Questo nuovo ruolo dello scrittore, tratteggiato esplicitamente nell’articolo Il dilettantismo, apparso su L’Indipendente l’11 novembre del 1884, è alla base dello profonda carica drammatica di tutta l’opera sveviana.
Muovendo dal solco scavato in precedenza dall’indagine verista, Svevo si dimostra capace di riuscire là dove anche il maestro – il Verga appunto –, sconfitto da un insormontabile blocco espressivo, aveva fallito: rappresentare la realtà piccolo borghese. Riesce cioè a rivoltare l’obbiettivo per puntarlo contro se stesso, per scandagliare gli abissi nevralgici e psichici che si trovano sotto la superficie della propria classe di appartenenza e indovinarne le dinamiche di pensiero, gli inganni, le reali aspirazioni. Quella di Svevo è una ricerca privata, intima, in cui le pagine vengono alla luce al ritmo della quotidianità dello scrittore, stese e rivedute mentre se ne sta «sdraiato comodamente su una poltrona Club», dopo pranzo, in salotto. Dal primo romanzo, Una vita del 1892, passando per Senilità, il percorso dello scrittore triestino procede di pari passo con quello dell’uomo-Svevo, fino al raggiungimento di una disillusa consapevolezza della propria condizione nell’ultimo romanzo, La coscienza di Zeno, datato 1923, forse il più celebre, scritto dopo un silenzio ventennale durante il quale Svevo aveva studiato – primo tra i letterati italiani – alcuni scritti di Sigmund Freud. In questo ultimo lavoro la natura introspettiva, potremmo dire psicanalitica, del racconto porta Svevo a scegliere una narrazione in prima persona, con un tempo che segue i balzi mentali del narratore-coscienza e la trama scomposta di conseguenza in numerose sezioni: siamo di fronte al realismo critico sveviano, metodo estremo della sua indagine umana. Così come l’opera del Verga nega la possibilità di un miglioramento della società post-unitaria attraverso l’indagine verista, ponendosi essa stessa quale semplice denuncia del contemporaneo, priva di ulteriori ambizioni, il realismo critico di Svevo, la sua terapia di psicanalisi autoindotta, è consapevole fin dall’inizio dell’impossibilità di una guarigione dalle nevrosi, e non ha altro fine se non il tentativo di raggiungere una qualche imprecisata coscienza di sé. Lo scetticismo dello scrittore è d’altra parte manifestissimo sin dalle prime righe del Preambolo alla Coscienza di Zeno:
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Seppure a fasi alterne di fortuna e silenzio dovute soprattutto all’incidenza sulla cultura italiana della prima metà del Novecento del dannunzianesimo, del fascismo e della prosa d’arte, ma non senza isolati e visionari riconoscimenti anzitempo – ad esempio l’articolo di Federigo Tozzi Giovanni Verga e noi (1918), oppure Omaggio a Italo Svevo (1925) di Eugenio Montale –, le loro voci, al di là della disillusione che caratterizza le ricerche di entrambi, influenzeranno generazioni successive di narratori, fornendo il contributo fondamentale alla formazione del romanzo moderno italiano.
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