Lo strano caso del Moby Prince
I misteri del porto di Livorno e le vergogne di un'Italia senza risposte
La strage dei 140
10 aprile 1991, ore 22:03: 141 fra passeggeri e membri dell’equipaggio salpano da Livorno alla volta di Olbia a bordo della Moby Prince, fiore all’occhiello della compagnia Nav.Ar.Ma. È una bella serata primaverile e in tv si trasmette la partita di coppa Barcellona-Juventus; in questo clima disteso, alle 22:15, la Capitaneria di Porto assegna al comandante della nave Ugo Chessa il canale radio n° 13. Tutto sembra procedere normalmente, ma alle 22:20:10 accade qualcosa di strano: sul canale 16, riservato alle emergenze e proprio quella sera registrato in via sperimentale (all’insaputa di tutti), irrompe un concitato «the passenger ship, the passenger ship!», chiaro riferimento a Moby Prince, unica nave passeggeri in rada. Perché questa comunicazione sulla radio delle emergenze? Chi segnala la presenza del traghetto, e a chi? Nel frattempo Chessa è alle prese con un problema di ricezione; per questo, due minuti dopo l’enigmatico messaggio in inglese, sul canale 16 arriva anche il radiotelegrafista di Moby. «Livorno, Livorno radio… Moby Prince, Moby Prince»: la voce è calma, ma la trasmissione è interrotta da altre comunicazioni; dalla Capitaneria, dunque, parte un avviso al traghetto: «Moby Prince, da Livorno, proviamo canale 61… ma ti sento debolissimo». Dal Moby risponde un flebile «Sei-uno vado», a confermare la ricezione. Qualcosa, tuttavia, non quadra, se è vero che il marconista abbandona la postazione radio e corre dal comandante Chessa, secondo una procedura prevista solo in caso di massimo allarme. Alle 22:25:03 un altro messaggio, di autore ignoto: «Chi è quella nave?». Poi, alle 22:25:27, di nuovo il radiotelegrafista di Moby, non più dalla radio di bordo bensì dal vhf portatile di plancia: «Moby Prince, Moby Prince! Mayday, Mayday…». La voce, stavolta, è disperata; si sente un inequivocabile «prendiamo fuoco», ma anche con il vhf portatile la comunicazione è funestata da interferenze, che invece non intaccano, alle 22:26:09, le urla di Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo: «Siamo incendiati! Siamo incendiati! C’è venuta una nave addosso!». Un gigante di 280 metri e 82.000 tonnellate di greggio: è nel ventre di questo mostro che si schianta Moby Prince alle 22:25 del 10 aprile 1991. Il bilancio è terribile: 140 morti e un solo sopravvissuto (il mozzo Alessio Bertrand). Ma questa è l’unica certezza di una notte piena di misteri e di menzogne, prima fra tutte la voce - infame e infamante - di una ‘distrazione’ del capitano Chessa, a detta di alcuni intento a guardare Barcellona-Juventus in tv.
Gli enigmi dell’Agip Abruzzo
Il processo di I grado si apre a Livorno il 29 novembre 1995, sotto la presidenza del giudice Germano Lamberti. Dopo due anni di inchieste e dibattimenti, terminati con l’assoluzione di tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste», nessuno è in grado di rispondere alla madre di tutte le domande: dove si trovava l’Agip Abruzzo al momento della collisione? Le prime coordinate fornite ai soccorsi dal comandante Superina collocano la nave in un punto sottoposto a divieto di ancoraggio. Per quale motivo la petroliera è ferma in un luogo proibito? E perché, nel corso della notte, Superina e il suo marconista forniscono altre otto coordinate, tre delle quali ancora dentro l’area interdetta? E come mai numerosi testimoni parlano di bagliori e fiamme visibili sull’Agip fin dalle rive del porto, dalle 21:45 alle 22:10, e di un successivo spegnimento di tutte le luci della petroliera, diventata invisibile un quarto d’ora prima dell’incidente? Interrogativi rimasti inevasi, dato che il giornale di bordo (l’equivalente navale della ‘scatola nera’) sarà dimenticato sulla petroliera e, quindi, bruciato dall’incendio. Nemmeno la sentenza di appello (Firenze 1999) riesce a stabilire qualcosa di concreto («non vi sono risultanze precise relative alla posizione dell’Agip Abruzzo», pag. 69), ma qua e là si leggono delle critiche nei confronti delle indagini; il testimone passa quindi al processo di III grado (Livorno 2006-2010), che finalmente decide di avviare una nuova inchiesta. L’operazione dei periti, tuttavia, è a dir poco curiosa: una specie di ‘media’ fra tutti le tredici posizioni emerse negli anni, tale da individuare un quattordicesimo punto baricentrale, fuori di un soffio dalla zona di divieto. Superina, ancora una volta, è salvo: morirà a Genova nel 2011, sostanzialmente mai toccato da indagini e interrogatori, mentre il tribunale provvederà ad archiviare l’inchiesta.
I misteri della Capitaneria di Porto
Torniamo al canale 16 e al mayday delle 22:25:27. Secondo l’ammiraglio Sergio Albanese, Comandante della Capitaneria di Porto e dunque responsabile dei soccorsi, nessuno quella sera avrebbe udito il flebile S.O.S. di Moby. Eppure, già alle 22:27, sulle stesse frequenze radio si sente un chiarissimo «Moby Prince da Livorno, mi ricevi?»: due minuti dopo la collisione, qualcuno dal porto ha cercato di contattare il traghetto, senza ottenere risposta. Ma tutto questo non ha alcuna rilevanza per l’ammiraglio Albanese, che quella notte si allontana in mare e sparisce dalle trasmissioni del canale 16 in quanto «l’ufficiale dalla centrale operativa dava a questi mezzi queste disposizioni, ed io assentivo… nel senso che era giusto che si facesse così».
Qualcosa inizia a muoversi appena un’ora dopo, alle 23:32, quando uno dei portuali avvista «l’altra nave completamente a fuoco» (ancora non sa che è Moby) e avverte l’Agip Abruzzo: «C’è gente in mare, andiamo a salvare qualcuno». Risposta del marconista di Agip: «Vedete voi, comunque noi siamo carichi di 82.000 tonnellate di crude oil». Replica incredula: «E lì stanno morendo persone, comandante». Poco dopo, alle 23:42, gli ormeggiatori Walter Mattei e Mauro Valli avvistano la nave passeggeri, imbarcano il mozzo Alessio Bertrand, tuffatosi in acqua per sfuggire all’incendio, e lanciano l’allarme: «Abbiamo raccolto un naufrago… dice che c’è ancora persone da salvare!». E pochi secondi dopo: «Un naufrago l’abbiamo già raccolto… adesso c’abbiamo una CP di fianco a noi che indugia!».
«Ehi, del Moby, prendetevela nel culo». Quella voce, mai identificata, afferma una verità inoppugnabile: qualcuno, quella notte, ha fatto morire consapevolmente 140 persone. Perché?
Parole pesanti come pietre: una motovedetta della Capitaneria vede bruciare il traghetto a poca distanza, eppure non muove un dito. Finché alle 23:45:03 Valli fa il nome della nave incendiata: «La Moby Prince!». Ancora Valli, alle 23:45:33: «Ci sono 50 passeggeri mi dicono!». E a questo punto accade l’incredibile: fino alle 23:45:53, per venti lunghissimi secondi nessuno risponde all’ormeggiatore. Poi, di colpo, una esclamazione in dialetto pugliese: «Ehi, del Moby, prendetevela nel culo».
Quella voce, mai identificata, afferma una verità inoppugnabile: qualcuno, quella notte, ha fatto morire consapevolmente 140 persone. Perché? E perché, pochi secondi dopo, sul canale 16 qualcuno si mette a fischiettare allegramente?
Navi fantasma
Su una cosa le indagini sembrano concordare: la dinamica dell’incidente è spiegabile soltanto con una manovra di ritorno in porto da parte di Moby. Chessa aveva dunque visto qualcosa di allarmante, ma nessuno potrà mai dire cosa: l’unico video girato quella sera all’interno della nave, sopravvissuto miracolosamente all’incendio, è stato infatti tagliato dagli inquirenti. Motivazione ufficiale: era rovinato dal calore.
Per capire gli eventi del 10 aprile 1991 dobbiamo quindi tornare al canale 16, che alle 22:49:06 (34 minuti dopo l’incidente) registra un messaggio in inglese: «Questa è Theresa, questa è Theresa, per la Nave 1 all’ancora nella rada di Livorno… me ne vado, me ne vado!». Theresa e Nave 1, tuttavia, non risultano nei registri portuali: sono quindi due nomi in codice. Perché tanta segretezza? E perché Theresa fugge anziché prestare soccorso alle navi in fiamme, come da prassi della marina? Dopo 58 secondi, alle 22:50:04, un’altra comunicazione in inglese irrompe sul canale 16: «Nave cargo americana, questa è Gallant2». L’ignoto cargo americano risponde, ma la comunicazione è interrotta dalla voce di Superina, a sua volta destinatario di un nuovo avviso alle 23:15:33: «Petroliera, stammi lontana, sono il Gallant2, me ne vado». Dunque anche Gallant2 dichiara di andarsene («I’m moving out»), esattamente come la misteriosa Theresa: tanto basta per convincere i figli del comandante Chessa a esaminare entrambi i tracciati audio. L’analisi, affidata a uno studio di ingegneria forense nel 2013, arriva a una scoperta inquietante: le frequenze vocali dei due messaggi sono identiche. Theresa, quindi, non è altro che Gallant2, nave militarizzata americana di ritorno dalla Guerra del Golfo, terminata il 28 febbraio.
La sua presenza a Livorno non stupisce: nella sua stiva, infatti, giacciono numerosi esplosivi residuati dal conflitto iracheno e destinati a Camp Darby, una delle più importanti basi NATO in Europa, alle porte delle città. Stupisce, semmai, la sua condotta in una notte così tragica: perché invia messaggi in codice e fugge dal porto, anziché prestare soccorso al Moby? E perché a Camp Darby il materiale bellico trasportato da Gallant2 non arriverà mai? Forse perché numerose testimonianze parlano di una nave (non meglio identificata) intenta al carico e scarico di armi in piena rada portuale? È un mistero, come misteriosi sono i movimenti del peschereccio somalo 21 Oktobaar II: perché quella sera viene visto fare rifornimento di carburante se nei registri portuali è ufficialmente fermo per riparazioni? E come mai rientrerà al molo appena la mattina dopo, come dichiarano alcuni testimoni? È forse l’interrogativo più importante dell’intera vicenda, perché la 21 Oktobaar II non è una nave come le altre: nel 1994, poco prima di essere trucidati a Mogadiscio, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin la scopriranno a capo di una flotta di finti pescherecci chiamata Shifko, dedita al trasporto illegale di armi e rifiuti tossici verso la Somalia.
L’iter processuale
Mentre le navi fantasma si muovono indisturbate nel porto di Livorno, dentro la Moby Prince si muore lentamente. Lo dice la perizia del professor Fiori, secondo cui le vittime avrebbero respirato fumo per ore, e lo dimostra un video ripreso la mattina dopo da un elicottero. Nel filmato si vede un uomo disteso sulla poppa della nave, arrivato lassù con le proprie gambe alle prime luci dell’alba, dopo aver sentito i rumori dei soccorsi; una volta giunto sul pontile ha perso i sensi, ma è ancora vivo. Anche stavolta, però, nessuno provvede a salvarlo: due ore dopo, le immagini di un’altra telecamera lo riprendono completamente carbonizzato.
L’11 aprile la carcassa del Moby viene trainata in porto. Dopo alcuni giorni partono le indagini, ma qualcuno è già salito sul traghetto per manomettere la nave al fine di inquinare le prove. Verrà anche trovato un pallone di calcio, testimone di una partitella svoltasi fra le lamiere di una bara galleggiante, ma nemmeno questo sfregio alla memoria delle vittime finirà nella sentenza di primo grado a firma di Germano Lamberti: nessun colpevole, dunque, perché a causare l’incidente è stata la nebbia. Una nebbia assolutamente inesistente, come dimostrano tutti i filmati di quella notte, eppure messa nero su bianco dal giudice in un atto ufficiale della magistratura italiana. Quanto al radar di Moby, il cui uso corretto avrebbe potuto evitare la disgrazia, era acceso ma nessuno lo osservava: Ugo Chessa sarebbe stato vittima della sua presunzione di esperto comandante (pagg. 755-768).
Dopo alcuni giorni dall’incidente partono le indagini, ma qualcuno è già salito sul traghetto per manomettere la nave al fine di inquinare le prove. Verrà anche trovato un pallone di calcio
Superfluo qualsiasi commento, tranne uno: nel 2013, in merito a tutt’altra vicenda, Lamberti è stato condannato in via definitiva per corruzione. Eppure la tesi del giudice di Livorno ha fatto scuola, tant’è che la nebbia e la negligenza di Chessa vengono confermate nella sentenza di appello (pag. 86), dove si parla di «fatalità» (pag. 95), e in quella di III grado (pagg. 140-141), che si chiude con parole inequivocabili (pag. 150): «La morte prematura e improvvisa è umanamente inaccettabile quando la causa appare banale e assurda, ma individuare a ogni costo, e senza sufficienti elementi probatori processualmente spendibili, determinismi e nessi causali eclatanti, clamorosi e di “alto livello”, oltre a dissipare preziose risorse, avrebbe il solo effetto di riaprire ferite per altro mai rimarginate, di creare illusione nei vivi, uccidere una seconda volta i morti, fare molte altre vittime innocenti e costituirebbe un pessimo esercizio del servizio Giustizia».
Di tutt’altro avviso la commissione parlamentare d’inchiesta, istituita dal Senato nel 2015: la relazione finale del 22 gennaio 2018 sconfessa la tesi della nebbia, dimostra che l’Agip Abruzzo era ancorato in zona proibita e sottolinea che «i tragici effetti sulla vita di almeno una parte delle persone a bordo sono stati determinati dalla sostanziale abdicazione delle autorità responsabili rispetto ad una efficace funzione di soccorso pubblico in mare» (pag. 64). Ma le parole più dure sono riservate alla procura di Livorno, la cui attività di indagine si è dimostrata «carente e condizionata da diversi fattori esterni. In particolare appare aver avuto un indubbio effetto condizionante […] l’avere utilizzato parte dell’indagine sommaria svolta dalla stessa Capitaneria di porto e precisamente dagli stessi soggetti direttamente coinvolti nella gestione dei soccorsi, alcuni dei quali coinvolti anche nelle vicende giudiziarie successive, sebbene poi assolti. È di tutta evidenza che ben difficilmente avrebbero potuto essere dotati di quella terzietà che deve necessariamente contraddistinguere l’operato di qualsivoglia attività investigativa» (pagg. 61-62). Parole sgradite al tribunale di Firenze, che il 2 novembre 2020 ha rigettato la causa contro lo Stato intentata nell’aprile 2019 dai familiari delle vittime: secondo il giudice Massimo Donnarumma, solidale con i colleghi di Livorno, la commissione parlamentare «ha solo espresso valutazioni e giudizi e […] sollevato dubbi sull’operato dell’autorità giudiziaria», limitandosi a «un atto politico» incapace di sconfessare l’avvenuta prescrizione. Per tutta risposta, il 14 dicembre 2020 il consiglio regionale della Toscana si è impegnato a chiedere al Parlamento italiano una nuova commissione d’inchiesta «che, partendo dalle conclusioni emerse nella prima commissione […], lavori per arrivare ad una verità integrale e ad una giustizia definitiva».
Una commissione per smentire una sentenza che smentisce una commissione che ha smentito tre processi: a 30 anni dalla strage del Moby Prince, la macchina infernale della giustizia italiana, che ha riportato i familiari delle vittime al punto di partenza, dà la misura esatta dello sfacelo morale e civile di un Paese senza dignità.
Questo articolo è stato pubblicato nel 2018 all’interno nel numero Complotti
e aggiornato il 10 aprile 2021 per i trent’anni dal fatto
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