Lo sguardo distante di Kim Ki-duk
Come il campo lungo racconta la poetica del regista de L'isola, Ferro 3, L'arco, Primavera, estate, autunno, inverno...
Un lago riempie un’insenatura tra le montagne, sei piccole casette galleggiano a pelo d’acqua mentre un’altra, più grande, è ancorata alla riva, vegliata da due alberi spogli. In primo piano un’altra casetta si appoggia di lato sul lungolago, quasi dimenticata. Tutt’intorno, sospesa sull’acqua, la nebbia. Si presenta così Kim Ki-duk, con un campo lunghissimo su un lago isolato dal mondo, all’Occidente cinematografico che lo osserva per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia, nel settembre del 2000. Prima dell'Orso d'argento a Berlino per La samaritana, del Leone d'argento per Ferro 3 e del premio Un Certain Regard a Cannes per Arirang, prima della consacrazione con il Leone d'oro di Pietà.
Ne L’isola, era già chiaro che di questo modo di guardare il mondo Kim Ki-duk avesse fatto cifra stilistica. Oltre ai tanti quadri quasi impressionisti che dipinge, il regista sudcoreano immerge i suoi elementi nello spazio, fondendoli – la barca nel blu della notte, il picnic nel verde del canneto, la casetta gialla che galleggia nelle acque – fino a portare all’estremo il mezzo linguistico verso il finale, in quello che è, probabilmente, l’unico esempio di campo lungo sfocato della storia del cinema.
C’è qualcosa, nel cinema di Kim, che è immediatamente, istintivamente poetico. L’originalità delle sue storie certo, la forza dei suoi personaggi e la delicatezza dei loro gesti, e più di tutto il tocco morbido dei grandi spazi sospesi. Di film in film, li ha sempre girati con una potenza e un’originalità rare. La grande distesa d’acqua che separa gli amanti ne L’isola, i campi lunghi che segnano le stagioni in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, la barca dondolata dalle onde del mare ne L’arco. In contrasto con la dimensione urbana che avvolge gli ambienti domestici di Ferro 3, Time, La samaritana, l’acqua svuota gli orizzonti del filone eremitico del cinema di Kim Ki-duk, quello che si allontana dalle città e dai palazzi, quello in cui le strade sono fatte d’acqua e le auto sono vecchie barche di legno, solo di rado a motore. Niente edifici ad ingombrare il campo visivo, solo ampie distese azzurre, verdi, blu contrappuntate da alberi che spuntano qua e là e delimitate, qualche volta, dalle montagne.
I laghi, i fiumi, i mari per Kim Ki-duk sono l’opportunità di far respirare il suo sguardo e il nostro di spettatori, non per introdurre un ambiente o descrivere un luogo, ma per raccontare
L’acqua è stata da sempre uno degli elementi cardine del percorso autoriale di Kim, dal fiume che scorreva sotto il ponte dei suicidi in Coccodrillo (1996), il suo film d’esordio, fino al cuore narrativo de Il prigioniero coreano (2016), il suo ultimo film distribuito in Italia, dove per una rete impigliata un pescatore sudcoreano finisce con la sua barca a cavallo tra le due Coree. I laghi, i fiumi, i mari sono l’opportunità di far respirare il suo sguardo e il nostro di spettatori, non però – come spesso si fa con i campi lunghi – per introdurre un ambiente o far riposare l’occhio, allargare l’orizzonte o descrivere un luogo, ma per raccontare.
Quello di Kim resta un mondo fatto di gelosie e passioni violente – omicidi, stupri, cicatrici –, ma quella stessa violenza su cui il suo sguardo si sofferma nei primi piani dolorosi e nei totali che inquadrano i suoi personaggi, si scioglie in poesia quando il suo occhio si allontana, per fare un passo indietro nella vastità silenziosa dei paesaggi al centro delle sue storie. Quel vuoto, quell’inquadratura fatta d’aria, noi spettatori la riempiamo e lei di riflesso ci riempie, colmando di senso il nostro spazio interiore.
In Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, con il monastero galleggiante al centro del lago, i campi lunghi diventano scansione poetica, si fanno un tutt’uno coi personaggi nella primavera, nell’autunno e nell’inverno delle loro vite coi boccioli che si aprono, le foglie che ingialliscono, le acque che si ghiacciano diventando superficie su cui camminare. Forse è proprio per questo che nell’inverno del film Kim Ki-duk sceglie di farsi elemento, diventando personaggio della sua stessa pellicola (una delle poche apparizioni davanti alla macchina da presa, se non si conta il documentario Arirang). La sua è una presenza solitaria, nel momento più intimo del percorso del protagonista, e anche il più doloroso. Il cuore del suo capitolo è una lunga scalata con una roccia legata alla vita e una statua di Buddha, un’espiazione nel gelo invernale verso la cima di una montagna. Kim (si) filma distante, immerso nel ghiaccio, tra gli alberi, fino all’arrivo sulla vetta dove la preghiera a mani giunte segna la sua purificazione. A suggellarla, un campo lunghissimo sulla vallata, forse il più lungo della sua cinematografia. Il monastero che fino a pochi fotogrammi prima era stato il fulcro del film è laggiù un angolo, quasi un punto, come la casa gialla nel finale de L’isola.
Penso di essere un elemento differente rispetto a quei registi, ha detto una volta Kim parlando di Park Chan-wook e Bong Joon-ho. Se loro sono legno o metallo, io sono terra
L’isola fu la testa di ponte del cinema sudcoreano, arrivò prima di Mr. Vendetta (2002) e Oldboy (2003) che rivelarono Park Chan-wook, prima di Memories of Murder (2003) che rivelò Bong Joon-ho, prima di Bittersweet Life (2005) di Kim Jee-woon e di Poetry (2010) di Lee Chang-dong, soprattutto quasi vent’anni prima di Parasite (2019), che dopo l’Oscar in tanti hanno celebrato come la definitiva apertura della stagione sudcoreana in Occidente e che invece, probabilmente, quella stagione la chiuderà.
«Penso di essere un elemento differente rispetto a quei registi», ha detto una volta Kim in un’intervista all’Hollywood Reporter parlando di Park Chan-wook e Bong Joon-ho. «Se loro sono legno o metallo, io sono terra. Loro potranno trasformarsi in qualcos’altro, io no». Dopo la sua morte, avvenuta l’11 dicembre 2020 per delle complicazioni dovute al Covid-19, non sappiamo in che cosa potrà trasformarsi, se diverrà serpente come il monaco di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera o se, semplicemente, vorrà guardarci un’ultima volta da molto lontano, distante come sulla cima di quella montagna, o come quella casa in mezzo al lago. «Guarda che sulla terraferma c’è un mondo grandissimo, non lo sai?», diceva uno dei pescatori alla protagonista de L’arco. C’è anche qui, in mezzo alle acque, potremmo rispondere. Qui nel vuoto che Kim Ki-duk ci lascia e che, anche stavolta, saremo noi a dover colmare.
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