L’Islam e noi

Conversazione sull’Islam tra Europa e Medio Oriente con Francesca Borri e l'imam Izzedin Elzir

Il difficile rapporto tra Occidente e mondo musulmano è da anni al centro di un’infinita spirale di discussioni: ultima ma non ultima la polemica sulla bufala della bambina di 9 anni data in sposa a un trentacinquenne, piccola sintesi di tutto un insieme di problemi mediatici, politici e culturali. Ma al di là delle strumentalizzazioni, la questione rimane, autentica e fondamentale. Ne ho parlato al festival Firenze RiVista 2017 con la corrispondente di guerra Francesca Borri e Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII), nell’incontro Vivere la città tra Islam e politica. Durante il dibattito abbiamo evocato alcuni punti chiave della questione: la vicenda travagliata delle “primavere arabe”, la recrudescenza del terrorismo in Medio Oriente e in Europa, le responsabilità dei governi occidentali nella vita politica mediorientale, l’esplosione del fenomeno migratorio. Temi di un’attualità costante, come dimostra il gravissimo attentato di venerdì 24 novembre in Egitto.

Cominciamo con una domanda a Francesca Borri: perché e come la primavera siriana, una vicenda nata dalle aspirazioni della società siriana al cambiamento, è stata trasformata in una “guerra per procura” tra vari attori con interessi diversi? E poi, visto che in Occidente si è imposto tra tutti il tema della radicalizzazione, perché e come la Siria è diventata il teatro dei fondamentalismi islamici?

F.B.
La risposta naturalmente è complessa, però è una parola sola: Assad. Io sono arrivata in Siria nel febbraio-marzo 2012 per coprire la primavera siriana e nonostante adesso sia una guerra per procura la mia risposta rimane Assad. E lo dico qui in Europa, in Italia, perché so che l’opinione dominante è un’altra: Assad è il male minore.
In questi mesi si parla tanto di radicalizzazione; sì, ho visto la radicalizzazione dei combattenti. Ma quando sento radicalizzazione penso a quella della guerra. Ricordo il momento: eravamo a manifestazioni pacifiche, la risposta erano manganelli, proiettili di gomma, poi lacrimogeni, poi siamo passati ai proiettili veri, poi sono spuntati i carri armati nelle strade, poi l’artiglieria leggera, poi l’artiglieria pesante, gli elicotteri, i missili, gli aerei, poi è arrivato il gas, e voi siete stati a guardare tutto il tempo. Fino a prima della caduta di Aleppo un anno fa ho scritto di una guerra che non interessava a nessuno. Ora non mi venite a dire che una giovane giornalista italiana freelance, nuova di fatto al giornalismo – ero una specialista di diritti umani fino a cinque anni fa, lavoravo all’ONU, poi con Amnesty International – è la giornalista che è stata capace di raccontare meglio la guerra di Siria, non mi dite che la BBC, il Guardian, Le Monde, Spiegel non avevano i contatti per stare in Siria nel momento giusto. Semplicemente per tante ragioni a nessuno interessava raccontarla, per ragioni politiche. Eravamo ad Aleppo, non avevamo niente, non avevamo acqua, non avevamo da mangiare, avevamo il tifo, il colera, la leishmaniosi, infezioni di ogni tipo e non importava niente a nessuno. Non c’era nessun posto in cui nascondersi, la città era in macerie. Morivano tutti e non c’era nessuno. Se uno non diventa jihadista allora, come lo diventa? La radicalizzazione è stata quella della violenza.

Vorrei fare ora una domanda all’imam Izzedin Elzir, anche alla luce del fatto che nei media si è imposta una narrazione distorta che ha messo al centro proprio il fenomeno della radicalizzazione religiosa. Da quando sono cominciate le primavere arabe, è scoppiata la guerra in Siria e c’è stata la recrudescenza del terrorismo in Europa, come è cambiata la vita della comunità musulmana qui a Firenze e in Italia?

I.E.
Inizio con la primavera araba, che per me è una primavera perché milioni di giovani sono andati in piazza per chiedere libertà e dignità. Purtroppo accade dappertutto che le cose inizino per volere del popolo, poi chi ha il potere interviene e distrugge questi obiettivi sacrosanti per seguire altri fini. Quanto alla nostra realtà in Europa: il cambiamento vero l’abbiamo visto dopo la tragedia dell’11 settembre. Prima di allora nella realtà italiana noi musulmani non eravamo considerati. Se andavamo in comune o da un presidente di quartiere ci dicevano: “Siete musulmani? Chi se ne frega”. Dopo l’11 settembre la politica ha cominciato a interessarsi a noi e i nostri concittadini hanno cominciato ad avere paura di noi. Quando i nostri concittadini hanno cominciato a conoscere la comunità islamica questa paura è stata quasi cancellata. Arriva la primavera araba: i movimenti islamici sono in prima linea, e poiché nel background dei nostri politici noi siamo il collegamento tra i musulmani dell’Europa e dell’Italia e questi movimenti, allora per i primi due anni della primavera araba siamo diventati la comunità più coccolata in Europa. Quando questa ha cominciato a crollare, a partire dal golpe militare in Egitto, allora è ritornata la paura.
Sulla guerra in Siria, concordo: il male è veramente il regime siriano e tutti quelli che lo appoggiano sia nel mondo arabo sia da noi in Europa. È più comodo per i nostri politici lavorare con un dittatore che con una democrazia. In Libia, era più comodo lavorare con Gheddafi perché ricevevamo gas e petrolio, perché controllava i confini; un sistema democratico non avrebbe potuto trattare le persone in maniera disumana e regalarci le risorse, avremmo dovuto pagare. Al sistema politico la democrazia non conviene, né in Libia né in Egitto né in Siria o in altre parti del mondo.
 

La filosofia del diritto l’abbiamo rovesciata: ora un musulmano, una musulmana sono terroristi fino a prova contraria


Il terrorismo in Europa poi non ha aiutato per niente. La filosofia del diritto l’abbiamo rovesciata: ora un musulmano, una musulmana sono terroristi fino a prova contraria. I cittadini grazie a Dio ragionano, ma è stato creato un immaginario collettivo in cui è così, anche a causa dei mass media. Nonostante non ci sia stato un attentato in Italia, la paura dei musulmani che c’è in Italia è dieci volte quella che c’è in Francia, in Spagna o in Gran Bretagna, perché siamo bombardati giorno e notte non direi dalla disinformazione, ma da un’informazione così sottolineata che alla fine diventa il nostro modo di riflettere. La settimana scorsa un giornale locale ha pubblicato un’inchiesta su un sondaggio, fatto non si sa su quale base scientifica, su cinquecento musulmani in Italia. Veniva fuori il musulmano terrorista, che non manda i figli a scuola, come se fosse la realtà dei musulmani in Italia. A Roma c’è una realtà, molto limitata, dove abbiamo visto che alcuni non mandavano i figli a scuola. Dopo due anni di collaborazione con il Ministero dell’Istruzione le cose stanno migliorando, ma è una realtà molto limitata che non può rappresentare la comunità islamica in Italia.
Spesso si chiede alla comunità islamica di essere responsabile, di scegliere le parole giuste, e fanno bene a chiedercelo; ma chiedo responsabilità anche ai mass media, a chi governa e fa politica, perché le parole hanno veramente un effetto sui nostri concittadini. Dobbiamo aiutare i cittadini a non vivere nella paura. Un grande poeta palestinese, Mahmoud Darwish, dice: «La paura non impedisce la morte ma impedisce la vita». Noi amiamo la vita e non vogliamo vivere nella paura.

Siamo entrati nel vivo dei problemi politici e quindi vorrei che ci parlaste delle responsabilità dei governi occidentali nel fallimento delle primavere arabe, a cominciare dall’Egitto con la destituzione del presidente Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza Musulmana. Credete che rimarrà, in Europa o in Medio Oriente, un’eredità politica delle primavere arabe? Esiste in Occidente la possibilità di appoggiare coerentemente queste rivendicazioni?

F.B.
Secondo me la primavera araba non è finita, attraversa un momento difficile. C’è una cosa da cui nessuno tornerà indietro: la libertà d’espressione. Prima del 2011 quando bisognava parlare di argomenti sensibili si abbassava la voce, non si parlava in pubblico. Questa paura adesso non esiste più. Io sono una corrispondente di guerra e dalla guerra non si torna né vivi né morti, ma è stato un privilegio stare con i siriani in questi anni e non tornerei indietro. Quando c’è stato il primo giorno di tregua la prima cosa che i siriani hanno fatto è stata scendere in piazza contro Assad e contro i fondamentalisti.
Noi europei abbiamo un grandissimo ruolo da giocare, il problema è che stiamo giocando il ruolo sbagliato. Pensate all’Egitto, pensate al caso Regeni. Un omicidio di quel tipo che rimane impunito, con l’Italia che rispedisce l’ambasciatore al Cairo ma che non ha il coraggio di dire ai cittadini "sono le esigenze della realpolitik", no, ci dicono che in Egitto va tutto bene. Sono stata al Cairo a giugno e vi garantisco che c’era da guardarsi le spalle come giornalisti stranieri, c’era un clima di terrore diffuso, ma tutti gli egiziani, laici e islamisti, stanno cercando di capire come venirne fuori perché è inaccettabile vivere nell’Egitto di al-Sisi, che è anche un po’ peggio dell’Egitto del 2011: un Egitto in crisi economica totale e con la situazione dei diritti umani che conosciamo. Regimi come quello di Mubarak in un certo senso tentavano un compromesso: un minimo di benessere economico in cambio di silenzio totale. Questa cosa è saltata anche perché la globalizzazione favorisce le disuguaglianze: negli ultimi anni l’Egitto di Mubarak non garantiva più benessere. Adesso non c’è più neppure quel tentativo di compromesso, quindi se sei egiziano perché dovresti accettare questa situazione? La primavera araba ricomincerà secondo me dall’Egitto. Poi la storia ha i suoi tempi, ma la rivoluzione del 2011 ha toccato tutti gli aspetti della vita del mondo arabo-islamico: è semplicemente in una fase difficile e lo è anche perché per noi è sempre stato più semplice avere a che fare con i dittatori che con le democrazie.

La primavera araba è in una fase difficile anche perché per l’Occidente è sempre stato più semplice avere a che fare con i dittatori che con le democrazie


Io mi sono laureata in scienze politiche a Firenze e tra le altre cose mi hanno insegnato che “nel mondo arabo non esiste la società civile”. La società civile è più viva che qua. Bagdad, dove vivo, non è una città sicura, ma la società civile irachena è vivissima, con la capacità di lavorare tra laici e islamisti insieme. Noi dovremmo cercare di dare spazio a questi movimenti, ma il Medio Oriente per noi è solo un mercato di armi. Per esempio c’è una ONG italiana, Un ponte per, che in Iraq ha programmi magnifici con la società civile tutti finanziati da donazioni private, perché dalla cooperazione italiana non prendono un euro: sono considerati programmi minori perché non si limitano a sostenere i profughi ma aiutano la società civile a fare il suo mestiere, che è quello di far politica. La cooperazione internazionale sostiene solo profughi e feriti e non interviene prima.
Pensate al decreto Minniti. È incredibile che un paese come l’Italia pensi di affrontare la crisi dei migranti con degli accordi con dei signori della guerra. Vi dico che cos’è una milizia. A Bagdad, la prima volta che sono stata embedded con una milizia sciita, visto che alcune di queste milizie sono inquadrate nello stato iracheno, ho chiesto a uno dei loro comandanti se potevo seguire un’operazione di polizia. Avevano appeso ad un palo il cadavere di qualcuno che loro sostenevano fosse un jihadista dello Stato Islamico, lo avevano poi legato come un kebab e il comandante aveva acceso il fuoco sotto e mi ha detto: «Voglio che tu mostri al mondo che i jihadisti finiranno come kebab». Ecco, questi sono i miliziani, che sia l’Iraq, lo Yemen, la Libia, sono tutti più o meno così, queste sono le persone con cui gli europei stringono degli accordi: dei criminali se non degli psicopatici.

I.E. Spesso dimentichiamo la storia. La Rivoluzione francese ha cominciato ad avere risultati dopo una decina di anni. Ci sono movimenti politici nel mondo arabo-islamico, sia laici sia di cultura religiosa, che combattono insieme per la libertà e che continuano a farlo. Nonostante l’esercito del regime di Assad, aiutato dall’Iran, da Putin e altre milizie, nonostante più della metà della popolazione sia emigrata o sfollata, ancora oggi il popolo siriano resiste e lotta per la libertà. Lo stesso vale per l’Egitto. Il nostro ricercatore [Regeni, ndr] il governo l’ha venduto per motivi di strategia politica o economica. Noi abbiamo lasciato la Libia perché hanno promesso al nostro governo che avremo il gas e il petrolio dell’Egitto. Vedete come ci prendono in giro anche a livello di paese. Figuriamoci le popolazioni che cercano di avere libertà, cercano di avere rapporti con noi occidentali, pensano che abbiamo dei valori e allora condividiamo la loro lotta, e alla fine scoprono che il nostro obiettivo sono i nostri interessi.
Nella politica non c’è amico o nemico, ci sono interessi. Purtroppo stiamo dimostrando al mondo arabo-islamico che la democrazia quando è nei miei interessi, bene, se non è nei miei interessi possiamo appoggiare un militare, un criminale. La maggior parte dei nostri concittadini non ha più fiducia nella democrazia e non partecipa al voto. Infatti rimangono al potere le stesse persone che da cinquant’anni ci hanno portato a questo livello: non si creano ponti di dialogo tra la sponda sud e la sponda nord del Mediterraneo che permettano veramente a tutti noi di crescere. La democrazia fa paura non solo ai dittatori dei paesi arabi, ma anche ai nostri governanti: vogliono una democrazia su misura, perciò c’è il rischio che anche noi perdiamo gli spazi di libertà conquistati settanta anni fa. Sono il primo a dire che il terrorismo c’è, e a condannarlo, ma non dobbiamo togliere spazi di libertà con la scusa del terrorismo. Nel mondo arabo-islamico ogni giorno si sta acquisendo uno spazio di libertà; certamente il prezzo che stanno pagando le ragazze e i ragazzi è carissimo, ma stanno cercando di acquisire spazi di libertà. Quelli che hanno aiutato al-Sisi in Egitto prima dei governi europei o americani sono gli stessi regimi arabi, che hanno paura in primis. Gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita hanno finanziato l’Egitto per interrompere il processo democratico. Non vogliono la democrazia perché sono costruiti sulla dittatura. Se l’esempio egiziano andava bene, diventava un rischio per tutti i Paesi del Golfo, nostri alleati. Alcuni partiti nel mondo arabo-islamico stanno lottando, ma tocca a noi fare un’alleanza con loro. Non lo pretendo dai nostri governanti perché si muovono per interesse, ma lo pretendo dalla società civile italiana, europea, mondiale, nell’interesse dell’essere umano, della sacralità della vita umana. In questo abbiamo tanto spazio per lavorare insieme.
 

Nella politica non c’è amico o nemico, ci sono interessi. Stiamo dimostrando al mondo arabo-islamico che se la democrazia non è nei nostri interessi possiamo appoggiare un militare, un criminale


F.B. La Fratellanza Musulmana assomiglia un po’ alla Democrazia cristiana degli anni Cinquanta ed è il contrario di un movimento estremista, l’idea è quella di un cambiamento dal basso che con il passare del tempo diventi un cambiamento politico. La paura dei Fratelli Musulmani non è la paura della sharia. L’islam ha un messaggio potentissimo di giustizia sociale. È questo il vero problema dei Fratelli Musulmani al potere. Immaginate questo messaggio di uguaglianza economica e sociale al governo, nel Medio Oriente non tanto del colonialismo, che sembra una cosa passata, ma dell’ENI, che è il vero strumento della politica estera italiana. Immaginate un governo così non solo in Egitto ma in Siria, in Libia, in Tunisia magari in alleanza con le forze laiche, immaginate che l’ENI debba avere a che fare con qualcuno che dice “Fammi un po’ vedere questi contratti”, che fino al giorno prima non erano pubblici. Come tutti i contratti di questo tipo legati all’ENI, il contratto dell’ENI in Egitto per il famoso giacimento di gas a Zohr non è accessibile ai giornalisti; nessuno può sapere davvero quanto e come viene investito. Con un governo democratico di quel tipo, con un grande interesse alla giustizia sociale, questa cosa finisce. La paura è quella di movimenti che mettono in discussione un sistema economico-sociale globale dove noi dominiamo e a Bagdad manca la benzina. Perché? Perché tutto il petrolio in Iraq è nei nostri serbatoi in Occidente. Immaginate un Iraq governato da qualcuno che dice che forse questa cosa deve finire.

Parlando di Fratelli Musulmani e di ENI siamo arrivati al cuore della questione. Che cosa vogliamo da questi paesi e che cosa ci aspettiamo da noi stessi? La nostra retorica istituzionale, che ancora tende a riconoscere nel rispetto dei diritti umani il metro su cui regolare le relazioni con un paese, è sempre più sconfessata dalla linea di condotta dei nostri governi, che non di rado preferiscono sostenere un “uomo forte” in grado di garantire i nostri interessi piuttosto che un processo – per quanto conflittuale – di democratizzazione che rischierebbe di metterli a repentaglio. Se un ripensamento profondo delle nostre strategie di politica estera non sembra praticabile, forse non è possibile salvaguardare lo status quo senza svuotare di significato la scala di valori che rivendichiamo come nostra.


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