Letteratura e fondi di caffè
Le generazioni di artisti e scrittori ai tavoli delle Giubbe Rosse
Fra le quattro radici della poesia individuate da Oreste Macrì ed elette a basi fondanti del suo metodo critico, la prima è la dimora vitale («larica ancestrale e presente, acrona e attimale»), ossia – in breve –l’insieme degli elementi biografici, geografici e culturali che determinano le condizioni di nascita del prodotto poetico: le amicizie, i luoghi d’incontro (caffè, trattorie, aule universitarie), e quindi le discussioni, i dibattiti, la condivisione «acrona» e «attimale» di intenti, svolta orizzontalmente (e non verticalmente) fra spiriti che si riconoscono pari e affini in una quotidianità atemporale e astorica, ma sempre presente. Tra le maglie di questi sodalizi energicamente intessuti accade che il quotidiano venga trasceso dalla parola poetica, nata negli interstizi fra le parole, nei fondi delle tazze di caffè, nelle situazioni condivise, tessendo un ordito comune nel quale ricordi ed esperienze si intrecciano, le affinità cromatiche si riconoscono e le differenze si contrastano: è la felice attuazione di ciò che Macrì intende per generazione letteraria, una dimensione concettuale – vissuta però in spazi e tempi ben precisi – in cui, come osserva Anna Dolfi nella Premessa a La teoria letteraria delle generazioni di Oreste Macrì, «modelli, maestri, esemplari, padri, anche sacerdoti, compagni di strada, seguaci» si mescolano assieme riconoscendosi trasversalmente, senza gerarchie di stampo crociano, salvando «istanze di ‘democrazia’ e di merito; giacché mentre non nega la voce poetica che staccandosi prende il sopravvento, riconosce la necessità di ciascuno, grande, minore o minimo, all’articolazione del proprio dettato e di quello dei circumvicini».
In alcuni passi del De vulgari eloquentia Dante, che evidentemente disponeva di documenti ancora troppo limitati, parla del latino come di una lingua artificiale (locutio secundaria potius artificialis), puramente grammaticale, elaborata dal volgare (locutio naturalis) per consentire ai dotti, i «maggiori», di comunicare nel tempo e nello spazio fra di loro, ma senza parlare. A tale artificiosità si era abituata la cultura, la cui espressione ufficiale nel Trecento (nonostante il volgare cominciasse a prendere coscienza della propria dignità) era ancora tutta in latino, tanto da essere indotta a credere di aver sempre parlato un idioma inesistente. Le scarsissime potenzialità di una lingua così concepita, che nei fatti – rinvigorita dall’Umanesimo – riuscì a dominare fino a tutto il Quattrocento, ci suggeriscono l’immagine avvilente di un immenso deserto in cui gli uomini comunicano tra di loro accendendo enormi bracieri. Questo è il linguaggio della cultura che Benedetto Croce riconosce nel suo metodo critico, secondo cui la tradizione del sapere e la formazione letteraria avvengono silenziosamente e verticalmente, dai maestri ai discepoli (spesso non compresenti nello stesso mondo), con una luce sacra che elegge di volta in volta i suoi «maggiori» e danna i «minori». La lingua della letteratura nella testa di Oreste Macrì non è il latino, l’investitura divina che determina élites, ma il volgare, quello che sgorga fuori dalle carte dei mercanti, che risuona per le strade e nelle trattorie, il clangore variopinto delle parole nella palta: amicizia, collaborazione, affettuoso colloquio fra viventi e, soprattutto, conoscenti. In questa nuova prospettiva storiografica è possibile guardare con occhi diversi alla letteratura di qualunque luogo e qualunque epoca. Così scrive lo stesso Macrì in “Maggiori” e “minori” o di una teoria dei valori letterari (1984):
Ricordiamo tra i greci i melici monodici con il convento della Saffo e i circoli alessandrini; a Roma la cerchia di Catullo e Licinio Calvo; in Italia gli stilnovisti e gli ermetici, in Francia i piccoli romantici intorno a Gautier e Nerval, i simbolisti intorno a Mallarmé in rue de Rome, gli amici di Apollinaire; in Germania lo Sturm, l’“Athenaeum”, Weimar, il cenacolo e tempio di Stefan George; in Spagna il salamantino Fray Luis de Leòn e il sivigliano Herrera […], il gruppo di Bécquer pure a Siviglia, il 98 e il modernismo di Juan Ramòn e A. Machado, il 25 di Garcìa Lorca; in Portogallo Fernando Pessoa […].
Una rivalutazione della vita stessa, comprese le sue manifestazioni quotidiane, come parte integrante e forse totale della letteratura, suo intimo cuore pulsante: «Letteratura come vita», dice e scrive Carlo Bo nel 1938 in quello che è considerato (suo malgrado) il manifesto dell’ermetismo, in polemica con la sentenza dannunziana per cui «bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui». No, dice Bo: la superiorità vera non sta nel plasmare la vita (che non è materia malleabile, ma un’intensa cascata che ci avvolge sotto forme in continua trasformazione), la ‘missione’ del letterato non è quella di rendere la propria esistenza simile ad un romanzo (ovvero ingabbiarla, per gratuita santa immolazione, nei rigidi schemi di una «costruzione letteraria»), ma invece sondare e indagare, disposto al continuo stupore, gli incomprensibili poetici segni con cui il quotidiano ci permea, per trovare in quella vita – che non deve né piegarsi né imporsi alla letteratura, ma identificarsi con essa – l’inestinguibile materia che alimenta l’unico grande valore letterario: la ricerca, l’incessante ricerca in noi e di noi stessi in quanto cavie umane barcamenate nel mondo.
La vita è una cascata infaticabile nei confronti della quale il letterato svolge una funzione non di scultore, ma di «idraulico»
La vita, dunque: cascata infaticabile nei confronti della quale (come suggerisce affascinato Charles Du Bos, maestro di Carlo Bo) il letterato svolge una funzione non di scultore, ma di «idraulico», che indirizza e convoglia l’acqua perseguendo un intento artistico che è prima di tutto istanza di verità verso se stesso: interpreta e devia il flusso esterno (gli accidenti della vita) per evidenziare i punti in luce della sua coscienza, facendosi – scrive cinquant’anni dopo Gesualdo Bufalino, interrogandosi sulle motivazioni della scrittura − «copista e insieme legislatore del caos». Ma questi accidenti, per quanto misteriosi e ardui a decifrarsi, hanno dimore tutt’altro che casuali: respirano entro tempi e luoghi ben precisi, hanno suoni e odori, forme e colori, nomi e cognomi. Il primo Novecento italiano, interpretato da sempre – come tutta la grande letteratura – all’interno della categoria delle eccellenze (i «maggiori», grandi isolati nel gracidante stagno dei «minori»: per la poesia, essenzialmente, la triade Saba Ungaretti Montale), è teatro invece di una fittissima e variegata rete di relazioni umane, in cui la comunicazione si esprime vitale e senza gerarchie in una densa proliferazione di carteggi, riviste, antologie, caffè letterari. Ci fu un luogo, in particolare, che per anni, specialmente dal 1910 fino a tutti gli anni ’30 (e poi, con alterna intensità, anche nei decenni successivi), rappresentò il centro delle dimore vitali di moltissimi letterati e poeti, un’officina vivacissima di vita e parole, ai cui tavoli si mischiava il caffè alla poesia e si stendevano le bozze di alcune delle riviste più importanti del Novecento: il fiorentino Caffè delle Giubbe Rosse.
Fra i primi a frequentarlo regolarmente nei primi anni del secolo, quando ancora era Caffè-Birreria dei fratelli Reininghaus, ci furono le anime inquiete di Leonardo e in seguito de La Voce (Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Giuseppe Prezzolini), due delle prime riviste novecentesche che si fecero promotrici di un radicale cambiamento in senso attivista, giovanile e militante della letteratura. Nel clima sfiorito dell’ultimo Ottocento, consunto dallo studio – più compiaciuto che competente – dell’altra grande triade della poesia (Carducci Pascoli D’Annunzio), «si stendevano», dice il critico Piero Bargellini, «le piacevoli aiuole del giornalismo letterario, con i boschetti di alloro dei poeti più famosi»; un giornalismo letterario di mondano intrattenimento da salotto, rivolto a gusti sofisticatamente generici e tutto racchiuso nella forma dei fogli letterari: pubblicazioni incolori nelle quali contava solo riportare, come constatava Croce, «firme di scrittori noti e simpatici», senza preoccuparsi di stabilire un indirizzo o una linea chiara e ben lungi da imprese coraggiose. Dall’insofferenza dei giovani verso questo monotono vivaio di fiori cerati, piantati dentro vasche di vita riprodotta, nasce il desiderio di fondare nuove riviste nelle quali l’esercizio dell’esistenza, della propria esistenza, torni al centro, o meglio all’origine, del dibattito letterario, e sulle cui pagine sia possibile intraprendere, senza alibi, una via personale, originale, limpida e vitale. Cominciarono a potare i fiori finti e si predisposero a piantarne di nuovi; tentarono di ritrovare il suono assopito delle parole per ricollocarlo nel mondo. Questo il proclama apparso sul primo numero di Leonardo (1903), nel quale possono intravedersi le premonizioni di un futurismo ormai prossimo:
Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti a una superiore vita intellettuale, si sono raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di «Leonardo» per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte.
Nel 1910, dopo un cambio di proprietà, la frequentazione delle Giubbe Rosse in quanto Caffè letterario si fece ancora più intensa e costante, tanto che i vociani lo elessero a luogo ufficiale di incontro redazionale, divenendo invece piena e totale a partire dal 1913, quando i dissidenti de La Voce Soffici e Papini, con la collaborazione di Aldo Palazzeschi, fondarono la rivista Lacerba – traguardo esasperato e non sempre felice, ma estremamente dinamico e propositivo, delle istanze di rinnovamento delle due riviste precedenti – e la legarono parzialmente al destino dei futuristi milanesi riuniti intorno a Filippo Tommaso Marinetti. Da quel 1913, ricorda Alberto Viviani nella sua preziosissima cronistoria Giubbe Rosse. Il caffè fiorentino dei futuristi negli anni incendiari 1913-1915, il proprietario «incominciò ad avere […] dei seri grattacapi e per nostra colpa, perché molti clienti protestavano per la tranquillità interrotta del locale», in particolare i malinconici membri del circolo scacchistico che aveva sede nella terza sala, la prediletta dai futuristi. Di qui l’aforisma maltusiano, fabbricato da alcuni di loro, che ebbe tanto successo:
Giubbe Rosse è quella cosa
che ci vanno i futuristi,
se discuton non c’è cristi,
non puoi più giocare a dam...
La terza saletta del locale divenne una seconda casa per questa banda eterogenea e disordinata di giovani (ma non solo) poeti, letterati, pittori, musicisti, presi tutti – in un modo o nell’altro – dal sentimento inesperto di star finalmente impugnando la cultura, senza più doverla subire da chi fino ad allora aveva preteso l’autorità di impartirla; si battevano su quei tavolini le strade dell’originalità e della spavalderia, si provava a dare un’organizzazione a quel comune, poco preparato e incosciente bisogno di libertà. Quando la redazione di Lacerba si riuniva al completo lì dentro, ricorda ancora Viviani, «l’atmosfera si faceva sempre più densa di elettricità per le discussioni che vi si accendevano, e irrespirabile per il fumo delle sigarette e dei sigari, ondeggiante a mezz’aria grave e violaceo. Tanti curiosi si affacciavano alla terza sala unicamente per godersi lo spettacolo di tutte quelle celebrità o aspiranti tali mischiate in fraterna amicizia ai giovanissimi poeti che covavano gelosamente in seno una fogliolina di alloro». La folla alitava sulle vetrate esterne del locale per vedere «le bestie nere del futurismo» all’opera nel loro sorprendente e screziato vigore, come davanti a una gabbia di leoni che progettano una fuga plateale. Italo Tavolato, uno fra i più attivi del gruppo fiorentino, noto per le sue dissertazioni Contro la morale sessuale, scrive così a proposito delle Giubbe:
Ardente meriggio di genio, cielo stellato dell’intelligenza, mondo di anime, terra di conquiste; torre d’avorio inespugnata dall’imbecillità, cella di solitudine creatrice, quartier generale dei pionieri di modernità; arsenale di spiriti, veglia di precursori, tomba di filistei; vigilia dell’impero, della quarta Italia, della patria mia, più grande e forte della terza uscita dalla redazione e dalle farmacie; salve a te, o mio Caffè.
Nel 1914, rotta l’alleanza con i ‘marinettisti’ e con la guerra alle porte, Lacerba intensificò il proprio carattere politico schierandosi ufficialmente fra le riviste interventiste; Aldo Palazzeschi, unico contrario al conflitto in una redazione di guerrafondai, smise quasi del tutto le sue pubblicazioni sulla rivista. Molti dei giovani lacerbiani si arruolarono volontari e lasciarono Firenze, e le Giubbe Rosse si ridussero ad acceso luogo di discussione fra interventisti e neutralisti: «quasi ogni sera», ricorda Soffici, «turbe di sbarcati avversari si accalcavano minacciose davanti ai cristalli del nostro caffè; ma bastava che noi facessimo una sortita, per vederle sbandarsi per la piazza e dileguare. Una volta che una di esse […] si mostrava più intrepida, uscimmo in corpo impugnando i bastoni; il giovane pittore Rosai si avanzò sul marciapiede e dichiarò per tutti: “Ehi! Qui siamo per la guerra. Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti”». Pochi di quei giovani armati di bastone ebbero l’opportunità di rivalutare la propria incoscienza; coloro che l’ebbero, lo fecero. Tutta quella smania d’esistenza, quella febbre di libertà che è l’affezione d’ogni buona giovinezza, finì per esasperarsi in un ultimo grido di vita che fu morte.
Tutta quella smania d’esistenza, quella febbre di libertà che è l’affezione d’ogni buona giovinezza, finì per esasperarsi in un ultimo grido di vita che fu morte
Frequentato nei decenni successivi prima dal gruppo dei solariani (Eugenio Montale, Giuseppe De Robertis, Alberto Carocci, Carlo Emilio Gadda, Umberto Saba, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo ecc.), poi ulteriormente affollato, in compresenza con questi, dal gruppo degli ermetici (Carlo Bo, Mario Luzi, Tommaso Landolfi, Oreste Macrì ecc.), il Caffè delle Giubbe Rosse fu davvero dimora vitale singolarissima, forse unica nel suo genere, per alcune delle più produttive generazioni letterarie del primo Novecento italiano. Suggestiona l’idea di poter interpretare tutta la grande letteratura, non solo quella novecentesca (che ebbe il pregio di riconoscersi coscientemente in questa possibilità), inserendola nel suo quotidiano, indagandola non solo nelle fonti libresche ma anche, con la dovuta moderazione, in quelle biografiche, verso cui troppo (Benedetto Croce in testa) si è guardato con sdegno come verso un qualcosa di sporco, di inadeguato alla purezza dell’arte. C’è da chiedersi con quale mostruosa letteratura artificiale fatta di colti solipsismi avremmo a che fare, se nei loro giorni migliori i nostri poeti e letterati, licenziando la vita, si fossero ritirati in ascetico silenzio su un monte invece di prendersi un caffè nel centro di Firenze.
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