Let's dance

La danza nella cultura e nell'arte, dalle sculture di Skopas ai dipinti di Matisse

In pittura, l’approccio accademico ci induce a soffermarci maggiormente su opere legate al mondo storico o religioso, e solo in un secondo momento su situazioni non ufficiali, che vengono comprese meglio quando esprimono una critica politico-sociale, o sono comunque corredate di significati allegorici che le sublimano. Ecco che, fra questi «temi secondari», trova spazio la danza: essa è, si potrebbe dire, quasi un istinto dell’essere umano, una modalità di espressione del mondo emozionale o spirituale. Basti pensare alle rappresentazioni della danza delle caverne neolitiche oppure al valore magico-religioso che il ballo ha per le culture native, come la famosa danza della Pioggia dei Nativi Americani, o al ruolo dei Balli nell’età moderna, vere e proprie feste dove si tessevano alleanze politiche, si parlava di cultura e si intrecciavano relazioni, tanto che, nella contemporaneità più o meno vicina, la balera e la discoteca sono rimaste degli importanti punti di aggregazione.
Indipendentemente dal periodo storico, alcuni autori hanno usato il tema della danza proprio per esprimere la realtà, positiva o meno, che li circondava, mentre altri hanno visto nel ballo l’espressione umana più adatta per rappresentare l’idealizzazione della realtà stessa, interpretando il ballo come segnale di armonia ed equilibrio, soprattutto sociale. Nel primo gruppo di autori la danza è, tuttavia, solo un ambito dove si esprime la realtà, quindi non è vista come mezzo assoluto di espressione, mentre nel secondo la danza diventa il punto d’arrivo della società idealizzata, lo strumento che più la sublima e il sintomo della pace e serenità.

Fra gli autori che hanno interpretato la danza come metafora della contemporaneità troviamo Skopas con la sua Menade danzante (330 a.C.), una delle statue più famose del periodo ellenistico. La menade è, nella cultura greca, una donna seguace del culto di Dioniso, che comprendeva feste orgiastiche, nelle quali la danza rappresentava il filo conduttore della celebrazione. In questa scultura viene rappresentata una torsione a tutto tondo, evidenziata dall’abito che fa intravedere le rotondità del corpo della donna, i cui occhi sembrano invocare il Dio, affinché la porti all’estasi mistica attraverso il ballo. Il legame con la realtà si trova proprio in questa ricerca del contatto con la divinità. Infatti, dopo che la pòlis, la libera città-stato, struttura politica orgoglio della Grecia, era caduta sotto le armi dei Macedoni, che avevano imposto un governo monarchico, l’attenzione artistica si era spostata dalla celebrazione della pòlis e dei suoi valori a una dimensione più privata e personale, che poneva la ricerca della felicità e della saggezza quale obiettivo principale, tendenza di cui la nascita di filosofie come l’epicureismo e lo stoicismo sono la conferma. La menade diventa quindi metafora della nuova condizione dell’uomo greco, che non può più dedicarsi alla politica e chiede alla divinità un’illuminazione mistica su quale sia, adesso, lo scopo della propria vita.
L’inquietudine esistenziale sta alla base anche di un soggetto assai diffuso nel XIV e XV secolo: la Danza Macabra. Delle molte presenti prendiamo ad esempio quella dell’abbazia di Chaise-Dieu in Alvernia, che riporta fedelmente tutte le caratteristiche della tipologia iconografica: essa presenta invariabilmente degli scheletri che danzano insieme a uomini e donne appartenenti a varie classi sociali, riconoscibili dagli abiti, laici o religiosi, e dagli strumenti di lavoro che portano in mano. La danza vuole qua ricordare la paura di una realtà straordinariamente incerta, segnata dal terrore della morte che colpisce qualsiasi persona, ricca o povera, nelle guerre o, dopo il 1348, nelle epidemie di peste. Il monito «Memento mori» sancisce una triste presa di coscienza: la Morte, rappresentata con scheletri ghignanti, è costantemente accanto alle persone, danza con loro, e prenderà tutti, senza riguardo, sta quindi all’individuo stesso vivere una vita devota, se desidera la salvezza della propria anima, una preoccupazione costante per gli uomini medievali, abituati ai continui richiami alla precarietà della vita.
 

La Morte, rappresentata con scheletri ghignanti, è costantemente accanto alle persone, danza con loro, e prenderà tutti, senza riguardo


Il pennello di Degas offre un altro celebre sguardo sulla realtà attraverso la danza ne La lezione di danza (1871-1874). Il pittore rappresenta una classe mentre si esercita nel balletto classico, una danza ormai istituzionalizzata, con accademie, manuali e gerarchie, una danza che si va a vedere a teatro, per cui si paga, un prodotto commerciale. È l’industrializzazione e la nascita della società di massa, con tutti i suoi mali, che viene sottolineata in quest’opera: le ballerine, infatti, sono scelte come soggetto da Degas per una ragione commerciale, perché piacevano ai collezionisti ed erano quindi più vendibili, e vengono rappresentate in serie, come un qualsiasi prodotto. Le dipinge tutte simili, quei «ratti della danza», come venivano chiamate le ballerine di fila, con i tratti del volto appena accennati, ad indicare la loro spersonalizzazione, ad eccezione della ballerina seduta sul pianoforte, che grattandosi la schiena e sporgendosi in avanti interrompe la sequenza, lasciando uno spiraglio di personalità in un mondo, quello della danza e quello esterno, che tende sempre di più all’omologazione.

La danza, però, può anche essere il simbolo di una società idealizzata, un sintomo di equilibrio e pace, dove la persona diventa parte armonica di un gruppo che, attraverso il movimento, crea una realtà, spesso contrapposta a quella contemporanea. Nello stesso periodo in cui si dipingono le danze macabre Ambrogio Lorenzetti affresca il palazzo pretorio di Siena con Allegorie ed effetti del buono e del cattivo governo in città e nel contado (1338-1339). Concentrandoci solo sulla parte degli effetti del buon governo in città, vediamo che un ampio spazio è occupato da nove donne che danzano e cantano accompagnate da una musicista che suona il tamburello, in abito scuro. È interessante osservare che la danza è il culmine degli effetti di un buon governo: la prosperità economica, la concordia sociale e gli scambi commerciali con le realtà vicine. Le danzatrici formano un cerchio, figura armonica per eccellenza, e dimostrano che solo se la città è ben governata ci si può lasciare andare alle manifestazioni di gioia, come il ballare. Se Ambrogio voleva incitare con questi affreschi il governo senese alla buona politica, si rendeva conto, tuttavia, che la realtà era un’altra: le lotte intestine fra i magnati della città, le inquietudini dei ceti subalterni e le guerre coi comuni vicini costringevano questo buon governo a restare un’idea e a non concretizzarsi più di tanto, così che l’armonia delle danzatrici diventa un ideale a cui aspirare, più che una situazione reale.

Anche Sandro Botticelli, nella famosissima Primavera (1482), attribuisce alla danza, messa in atto dalle tre Grazie, il compito di suggellare un’atmosfera di armonia e pace, che rispecchia idealmente quella della corte medicea. L’opera, commissionata per le nozze di Lorenzo de' Medici e Semiramide Appiani, vuole rappresentare il sovramondo della corte, dove si pratica l’humanitas e la filosofia – l’opera è infatti leggibile come un’allegoria del neoplatonismo – e dove l’amore, incarnato in una platonica Afrodite, è l’ispirazione per l’arte e la filosofia. Di nuovo, la danza delle Grazie incarna un mondo che vorrebbe essere armonico e ideale, ma in realtà, chiuso com’è nel suo microcosmo impenetrabile, resta un’esperienza distante dal mondo esterno, il quale si sta preparando ad una stagione di eventi bellici inaugurata dalle guerre d’Italia della prima metà del Cinquecento.

Nemmeno Henri Matisse resiste alla tentazione di portare l’idealizzazione sulla tela sottoforma di ballerini: la sua Danza del 1910, però, non idealizza la società o la persona, ma l’arte stessa. In un’intervista il pittore dichiarò: «Il primo elemento della costruzione fu il ritmo, il secondo una vasta superficie blu scuro; il terzo un verde scuro. Partendo da questi elementi, i personaggi non potevano che essere rossi, per ottenere un accordo luminoso». È l’armonia cromatica il centro del dipinto, una ricerca che parte dalle sue esperienze nella corrente dei Fauves, che prevedeva l’uso di colori forti per meglio esprimere le emozioni, e che culmina in questo dipinto, in cui la danza diventa un movimento dove gli opposti si armonizzano fra loro, mantenendosi distaccati da una linea rigida, ma unendosi nel colpo d’occhio. L’arte quindi dovrebbe, seguendo la teoria di questo quadro, essere unita nonostante le differenze, un proposito molto arduo da realizzare se consideriamo il fiorire, in quegli anni, delle avanguardie cubista, futurista e surrealista, di netta rottura con l’impressionismo e che utilizzavano tecniche artistiche molto diverse fra loro, e difficilmente conciliabili.

La danza è eterna fonte d’ispirazione per l’arte, che riflette sempre, in un modo o nell’altro, un’energia che accende i secoli, tanto da essere considerata, insieme alla letteratura e alla filosofia, sorgente d’indagine sul pensiero, i sentimenti e le passioni che animano le persone nella storia. Non è un caso, quindi, che la danza sia rappresentata così frequentemente, e con valori diversi: è un leitmotiv della creatività umana, insieme alla musica e al canto. Che sia rigida come un walzer o scatenata e senza regole, ci connette alla nostra corporeità e a quella degli altri danzatori, facendoci entrare in un tipo diverso di comunicazione con l’altro, che è quello fisico. Già dall’antichità alla danza erano dedicati importanti momenti: si danzava nei simposi, alle feste in onore degli Dei, si danzava nelle cerimonie private, e la danza non era esclusa dall’educazione. Sebbene fosse insegnata soprattutto alle donne, essa era un elemento fondamentale anche nell’istruzione maschile, che l’allievo fosse un cavaliere medievale o un gentleman del XIX secolo, proprio per l’importanza comunicativa e sociale che essa rivestiva, avvicinando le persone in epoche di rigide gerarchie ed etichette. «Conta per perduto il giorno senza danza» diceva Nietzsche, e forse dovremmo dargli ragione. Immersi come siamo in una società così tecnologica, dove la comunicazione e il rapporto con l’altro passano sempre più attraverso schermi bidimensionali, stiamo perdendo il contatto col corpo.


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