L’eternità della distanza
Interpretazione matematica del concetto di alterità in Jean-Paul Sartre
L’uomo che mi appare dinnanzi è sguardo.
Egli è colui il quale mi trasforma da soggetto in oggetto-visto-da-lui; mi ruba il mondo, lo disintegra, lo deturpa, togliendo quell’organizzazione che gli ho dato, provocando in esso un’emorragia interna, sua fuga verso un’altra libertà. Io continuo a essere le mie possibilità, ma, nello stesso istante, lo sguardo estraneo e impostore me le porta via, fuori di me, in un dove di cui non sono il fondamento: questo è il mio essere-guardato. L’esperienza d’altri mi traumatizza; la sua presenza - la cui esistenza brutale è data al cogito come certa, in virtù della relazione fondamentale e originaria che lega le nostre coscienze - mi s’impone nel suo agire libero, contrastante la mia libertà. È conflitto. Anch’io posso guardare altri, relegarlo nell’oggettità, cosicché ci troviamo entrambi avvolti in una lotta, nel terreno che sì creiamo noi (l’asintoto su cui, alternativamente, ciascuno diventa oggetto-per-l’altro), ma in e per l’asintoticità essenziale, in virtù del nostro essere-per-sé-per-altri, che intimamente e indissolubilmente ci appartiene.
Il pericolo continuo di essere trasformato in oggetto costituisce la motivazione delle mie relazioni concrete con altri, le quali rinviano a due atteggiamenti fondamentali, tentativo di neutralizzare la minaccia che da lui proviene alla mia libertà: «trascendere la trascendenza d’altri, o, al contrario, assorbire in me questa trascendenza senza togliere il suo carattere di trascendenza». Entrambi questi tentativi si traducono in una sconfitta, perché tendono al raggiungimento impossibile di quel punto improprio all’infinito, dove idealmente io e altri coincidiamo, ci tocchiamo vicendevolmente, incrociamo il nostro asintoto: il punto verso cui la nostra ‘direzione’ essenziale ci conduce. Il raggiungimento di questo polo lontano, la meta tanto anelata di coincidenza d’in-sé e per-sé, equivarrebbe a un colmare la propria ‘mancanza’, sarebbe uno svestirsi illecito da parte del per-sé della propria condizione: quella di non poter mai essere pienamente sé con la stessa pienezza d’essere dell’in-sé, senza perdere la libertà e di conseguenza la possibilità di auto-fondarsi.
Non posso liberarmi di questa andatura asintotica. Non vi è abisso tra di noi: lo scarto è invisibile, sottile, segreto: ma io sostengo che sia l’eternità della distanza e non la sua infinitesimalità a rendere quest’ultima abisso. Questo spazio minimale, non immenso, diventa immenso perché eterno. Tenderemo l’uno verso l’altro, senza mai toccarci, arrivando soltanto a essere la vana illusione di una perfetta fusione reciproca; tale fusione rimarrà un ideale all’infinito, un punto improprio, il cui raggiungimento significherebbe la morte dell’alterità dell’altro.
Così, i personaggi narrati da Sartre in Huis clos (Porta chiusa) si connotano di una forte valenza simbolica: la situazione estrema in cui si trovano, l’inferno conchiuso di una stanza ‘a porte chiuse’, è il claustrofobico procedere asintotico della relazione originaria tra me e altri. La tortura è il logorio della relazione, l’eternità della distanza è un’eternità della ‘presenza-a’, una presenza della quale non ci si può liberare, né da cui ci si può districare. È la ‘fatticità’ della situazione in cui ci troviamo, in cui resta soltanto la continuità della vita nel fastidio dell’uno per l’altro. Indifesi.
L’uno di fronte allo sguardo ‘accusatorio’ dell’altro, la luce sempre accesa, senza mai dormire, gli occhi aperti per sempre e l’assenza totale di specchi: l’unico specchio è quello sguardo crudele dell’altro, di fronte ai miei occhi-oggetto. «Insomma non potrò mica stare senza specchio per tutta l’eternità», grida Estella.
«ESTELLA: Non so mi fa soggezione. Negli specchi la mia era un’immagine addomesticata. La conoscevo tanto bene… Ora sorriderò, il mio sorriso arriverà in fondo alle sue pupille, e Dio sa cosa diventerà».
Diventerà qualcosa che mi fuggirà indefinitamente, a cui potrò soltanto approssimarmi; e altri, per cui questo qualcosa che io sono mi fugge, fuggirà allo stesso modo, come un limite matematico: eternamente distante.
«GARCIN : Mi vedrai sempre?
INES : Sempre. […]
GARCIN : […] tutti questi sguardi che mi divorano… (D’improvviso si volta) Oh siete soltanto due? Vi credevo molti di più. (Ride) È questo dunque l’inferno? Non l’avrei mai creduto. Vi ricordate? Il solfo, il rogo, la graticola…buffonate! […] l’inferno sono gli Altri.
[…]
INES : […] E noi siamo insieme […] per sempre. (Ride)
GARCIN [..] : Per sempre! ( […] Lunga pausa. Smettono di ridere e si guardano. Garcin s’ alza)
GARCIN : E va bene. Continuiamo.
Sipario»
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