L'eterna fila di un giorno di primavera (araba)
Su La Fila di Basma Abdel Aziz, fantasia distopica nel cuore del Nordafrica
C’è una Porta, e c’è una fila immensa di persone, c’è un brusio costante e incongruo sugli orari di apertura: è facile immaginare che questa Porta non si aprirà mai, e Basma Abdel Aziz non fa niente per mantenere alte le aspettative dei lettori. Come per i migliori discepoli di Kafka, non vedremo mai la Porta aprirsi e mai vedremo risolti i molti quesiti e problemi dei protagonisti.
La Fila, romanzo scritto poco dopo le sommosse note come Primavere Arabe e pubblicato nel 2018 da Nero Editions, è quasi un racconto corale, scritto però da un lucidissimo e ironico narratore esterno. Quasi, perché il fulcro del romanzo è una persona singola, Yahya Gadel-Rabb, ferito in occasione di quelli che saranno ricordati come i primi Sciagurati Eventi.
Una breve ricostruzione delle vicende: in un momento non precisato del tempo, in un luogo non precisato dell’Africa nordorientale – ma la traduttrice specifica che i dialoghi sono in dialetto egiziano –, a seguito di alcuni movimenti di protesta repressi con la violenza, al centro di un paese sorge una Porta, che in breve diventa l’unico ufficio cui rivolgersi per tutto. Letteralmente tutto: dai cosiddetti certificati di buona cittadinanza al permesso di guardare le vetrine, dalla richiesta di un lavoro al permesso di essere operati per un proiettile conficcato nel fianco. La Porta, ente monolitico e oscuro, ha orari di apertura non definiti. Per cui dapprima lentamente e poi sempre più velocemente si va formando davanti all’ingresso una gigantesca fila di persone, che sviluppano una piccola comunità, delle regole, addirittura tentano di organizzarsi per sovvertire l’ordine imposto e costituito. Parallelamente alle persone in fila vivono alcuni privilegiati, come il dottore che avrebbe dovuto operare il protagonista e che, più o meno innocentemente, non lo aveva fatto e, più o meno inconsciamente, continua a seguire le vicende dell’uomo attraverso la sua cartella clinica, che misteriosamente si aggiorna di continuo. Oppresso dai sensi di colpa il dottore finirà per cercare Yahya in fila, e risolverà di operarlo clandestinamente. L’esito dell’operazione, vergato a penna dal dottore sull’unica sezione della cartella che continua a rimanere vuoto, è ignoto.
E ignoto rimane, perché, come suggerisce Abdel Aziz in questa intervista, non è la sorte di Yahya ciò che conta, né la sorte del dottore, né la sorte di Amani, la fidanzata di Yahya, o quella di Nagi, il migliore amico del ferito. Ciò che conta è la fila, che si ingrossa giornalmente anche se le speranze di vedere aperta la Porta si affievoliscono continuamente, e conta l’ottundimento collettivo che abbatte ogni focolaio di ribellione, di pensiero critico. Conta il racconto dei comunicati stampa sempre più fantasiosi e per questo sempre più convincenti:
Quando l’operazione era stata rimandata, Yahya aveva protestato con le infermiere per due giorni interi, ma il terzo giorno aveva cambiato tono, avendo scoperto che al suo compagno di stanza – che era in coma con una pallottola in testa, come Yahya aveva potuto vedere coi suoi stessi occhi – era stato stilato un referto medico che asseriva che le radiografie a cui era stato sottoposto non mostravano la presenza di proiettili, e che la causa del coma era stata un attacco epilettico. Nella cartella era scritto che era caduto dall’alto su un corpo metallico che lo aveva ferito a una tempia. […] Durante l’ultima telefonata, lei gli aveva detto che la Porta aveva rilasciato un proclama nel quale aveva assicurato che non era stato fatto uso di armi da fuoco nel posto e nell’ora in cui Yahya era rimasto ferito.
Conta il progressivo senso di scollamento dalla realtà, che l’autrice declina perfettamente con un linguaggio pulito, asciutto ma non per questo privo di ironia – ottimo il lavoro di traduzione – o empatia.
Il modo in cui Abdel Aziz mostra questa lenta assuefazione è l’osservazione dei personaggi da vicino. Le persone che abitano la fila si adattano ad essa e iniziano a sviluppare modelli di vita e civiltà al suo interno. Piano piano si creano delle vere e proprie comunità, con regole non scritte che determinano non solo le capacità di resistenza dei singoli (chi più ha da offrire più velocemente riesce a superare la fila, chi più parla ed è cordiale più ottiene favori), ma anche quella che si potrebbe chiamare resilienza delle masse, senza però alcun un ideale di resistenza non violenta. Non dunque una forma di attivismo e resistenza passivi, ma semplicemente la capacità di adattarsi e sopravvivere. Andando a guardare da più vicino si vedono quante diverse forme di adattamento esistano: c’è il caso di Umm Mabrouk, anziana donna di servizio che per necessità di denaro si mette in fila e nella fila impara come fare soldi, e c’è il caso di Inés, che da giovane e intraprendente docente universitaria si trova a temere ogni parola che pronuncia. C’è il caso della donna dai capelli corti, che non ha un nome né un motivo per essere in fila, e che con la sua radiolina e le sue parole cerca di alimentare il dubbio sulle dichiarazioni della Porta, nonostante la progressiva e sempre più radicale espansione del controllo sull’informazione. Ma ogni scossa di ribellione si acquieta e si adagia sulle abitudini – tanto che nelle ultime pagine niente più si sa della donna dai capelli corti.
Conta il progressivo senso di scollamento dalla realtà, che l’autrice declina perfettamente con un linguaggio pulito, asciutto ma non per questo privo di ironia o empatia
Ci sono poi quelli che resistono, che cercano di non farsi cogliere dall’ottundimento comune, la cui sorte è sospesa. Il destino peggiore, e la più brillante trovata narrativa, tocca ad Amani, la coraggiosa fidanzata di Yahya, che nel tentativo di aiutarlo a recuperare dei documenti occultati viene scoperta, e punita dalla Porta in un modo tanto silenzioso quanto brutale.
Sperò che la picchiassero. Disse di essere pronta a essere torturata, e si schiaffeggiò il volto con entrambe le mani, fino a che la pelle degli zigomi non le si fece insensibile. Si morse le labbra fino a sentire il sangue scorrerle ai lati della bocca, ma lei non sentiva alcun gusto. Niente. Ancora niente. Forse lei stessa era niente. Forse non era mai esistita. Si sarebbe dissolta lì, decomposta lentamente, fino all’ultimo atomo, e sarebbe diventata nulla. Sarebbe diventata niente. L’inizio della scomparsa materiale: non riuscì a farsi uscire le lacrime dagli occhi. Li spremette invano. Pensò alla propria morte, magari così sarebbe riuscita a piangere – ma le lacrime erano sparite. Evaporate.
Si mise a sedere e si abbracciò, in attesa di sparire completamente.
Un nulla talmente terrificante che Amani, anche quando tornata a casa, rimane in uno stato di prostrazione assoluto, che la porta prima alla profonda depressione e poi alla convinzione che le parole dei comunicati ufficiali siano tutte vere.
Ci sono tracce di Orwell, Atwood e Huxley in questo romanzo, ma non diciamo niente di nuovo citando i capisaldi delle migliori distopie politiche che si trovano nella letteratura occidentale. Quello che è nuovo è semmai il fatto che in Italia sia giunto un romanzo del genere da quello stesso Egitto che, per noi, è tanto oscuro quanto il funzionamento della Porta e che conosciamo per sentito dire, per comunicati, i medesimi che inventano fantasie sulla morte di Giulio Regeni e che fanno e faranno di tutto per evitare la diffusione delle leggende sulle cosiddette Primavere Arabe.
Silvia Costantino
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