L'eclisse
La trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni
Esiste un fenomeno misterioso e quanto mai affascinante che fugace dona allo sguardo curioso dell’uomo un godimento affine alla magia generata dalla poesia. Un corpo, lassù nel cielo, temporaneamente s’interpone a un altro generando un oscuramento dello stesso, una “sparizione” che sa come d’incanto. Il curioso accadimento nel gioco beffardo di Luna, Sole o Terra, come spesso molte cose degne di bellezza, si traspone nel linguaggio che, assai più cinico rispetto a ciò che in natura avviene, rinvia qui a un’eclisse come declino, come sparizione metaforica che, seppur diversamente ma con altrettanta magia, così ci conduce all’anti-poesia di un racconto filmico.
L’impurità del silenzio, i tacchi sul pavimento liscio e un volto di donna riflesso sul vetro che forse non si conosce più. Il ronzio opprimente di un ventilatore.
Vittoria mette fine alla storia d’amore con un architetto, suo compagno da tempo. Il distacco si consuma nel loro appartamento tra apatici silenzi ormai logori di una svilente routine. La donna prova a ricominciare abbandonandosi a frivoli accadimenti casuali che la portano fino all’incontro con Piero, scaltro agente di cambio conosciuto tramite la madre, frequentatrice assidua della Borsa di Roma. I due s’innamorano con leggerezza, si concedono l’uno all’altro con passione ma giusto nel nulla di un battito di ciglia si danno un appuntamento che entrambi diserteranno, sparendo dietro ai luoghi vani del loro debole amore.
La macchina da presa di Antonioni abita con asciuttezza lo spazio intimo della casa borghese dell’Italia degli anni Sessanta smascherando l’impotenza, l’inazione, l’incomunicabilità dei personaggi che la vivono. La verità cercata goffamente e senza un alto grado di coscienza e autentica convinzione rimane quindi silente, non-detta, fuori campo, oltre i margini del quadro nel quale i protagonisti restano pedine inerti che non posseggono i contenuti per poter esprimere gli uni agli altri ciò che provano e che crudelmente li pervade. Il tutto resta così invischiato nella materia di oggetti e strumenti resi vivi dalla corrente elettrica e dalla modernità, che arredano e funzionalizzano quello spazio confortevole e al contempo spietato e alienante.
E allora i rumori degli apparecchi elettronici si mischiano ai rumori della città, e ancora alle dissonanze sonore musicali che sconquassano la linearità di quel benessere, echeggiando nell’aria sporca, grigia, opprimente, respiro unanime di una vuota esistenza. E poi il danaro, cinico e beffardo, qui fa da termometro folle tra i giochi del caso della Borsa, svuotando, per i più sciagurati, le tasche oltre che l’animo già liso.
L’asfalto, le impalcature e la natura triste, mischiata e irreversibilmente corrosa dall’opera misera dell’uomo. È questo l’ambiente in cui si svolge il “corteggiamento” tra Piero e Vittoria, anti-protagonisti che passeggiano tra mattoni di cemento e che nel cemento lasciano congelato il loro sterile sentimento. «E tu che hai fatto ieri sera?» – «Chissà perché si fanno tante domande. Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi forse non bisogna volersi bene».
Un bacio donatosi sul vetro, distante e impenetrabile. «Vorrei non amarti o amarti molto meglio».
Il rapporto tra i due si logora da sé, destinandosi alla fine nell’intima essenza del suo stesso concepimento. I luoghi che insieme hanno frequentato e nei quali era nato il sentimento ora collassato nel nulla, si svuotano della loro presenza indicibilmente.
L’acqua torbida, volti ignoti, le formiche sulla corteccia, le linee asettiche dei balconi, le strisce pedonali sull’asfalto. Un lampione che abbaglia e dietro il cielo, di notte. Un inserto su L’Espresso poco prima recitava “La gara atomica”.
Sono gli anni dell’Italia borghese, trionfante ma infelice, che sopravvive alla deriva di sentimenti confusi, eclissati nel cemento; gli anni in cui muta il volto di un Paese che amaro scopre che dietro ogni grandezza e benestare si nasconde sempre un profondo vuoto.
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