Le vite concatenate di Joachim Trier
Echi, contaminazioni e ricorsività nel cinema del regista norvegese de La persona peggiore del mondo
Con il suo ultimo film La persona peggiore del mondo, un’opera di grande maturità artistica che affronta e mette in scena con capacità le problematiche della società contemporanea, il regista norvegese Joachim Trier ha conquistato il pubblico di Cannes. Se qualcuno se lo stesse chiedendo, il regista non ha nessun legame con il più noto autore scandinavo Lars von Trier, né in alcun modo il loro stile narrativo è paragonabile, anzi il cinema di Joachim Trier ha come epicentro poetico il conflitto sociale e familiare, e i suoi lavori, seppur in forme disomogenee, affrontano ossessivamente le tematiche specifiche che sembrano essere profondamente radicate nella linfa dei personaggi raccontati dall’obiettivo della sua macchina da presa. Questa ricerca linguistica arriva in quest’ultimo lavoro a una superba maturazione, permettendo a queste tematiche di trovare perfetta sintesi ed equilibrio.
Nel cinema di Trier, gli stessi personaggi con nomi e esperienze di vita divergenti sembrano spostarsi da un’opera all’altra
Guardando i film di Trier in ordine cronologico si nota il suo percorso di crescita, ma nel suo caso, molto più di altri registi, siamo travolti dall’evidente sensazione che le opere comunichino tra di loro, che le personalità che caratterizzano i suoi lavori si ripetano o siano addirittura intercambiabili. Gli stessi personaggi con nomi e esperienze di vita divergenti sembrano spostarsi da un’opera all’altra, sempre con un altro nome, magari con un ruolo di secondo piano ma comunque ben presenti nelle dinamiche narrative portate in scena. Analizzando i suoi lungometraggi da questa prospettiva, i personaggi dei suoi film, soprattutto quelli secondari, graffiano il tessuto narrativo con più forza attingendo ad un sostrato filmico antecedente, che dona loro una personalità definita non da quello che vediamo nel film stesso ma dal bagaglio che si portano appresso dalle opere precedenti.
L’esempio più lampante lo troviamo nei personaggi interpretati da Anders Danielsen Lie, attore feticcio di Trier presente nel suo film d’esordio Reprise (2006), dove interpreta un giovane autore che dopo aver pubblicato il suo primo libro piomba in una crisi creativa e depressiva che lo porta quasi al suicidio, protagonista della suo secondo lavoro Oslo, 31. august (2011), dove si cala nella parte di un ex tossicodipendente appena uscito da una clinica in cerca di un ruolo nella società che non riesce a ritrovare, e infine nel suo ultimo lavoro dove veste i panni di Askel, un fumettista dal passato burrascoso che si fidanza con Julie, protagonista di La persona peggiore del mondo. In questo trittico, etichettato come la “Trilogia di Oslo”, Lie non interpreta mai il solito personaggio, ma la sua personalità e la sua storia mantengono degli elementi peculiari che sembrano trovare un dialogo con le sceneggiature dei film. Questo effetto straniante crea un cortocircuito nella mente dello spettatore, che trovandosi di fronte a personaggi difformi – con nomi diversi – che però presentano la stessa personalità – e in questo caso persino un volto – tende ad associargli caratteristiche che non vengono mostrate o esplicitate nell’opera ma sono ben delineate nell’universo narrativo di Trier. È indubbio che il cinema del regista norvegese sia fatto di ridondanze, di ripetizioni poetiche tanto da far sembrare ogni suo film come un dipinto impressionista en plein air, e così come le Ninfee di Monet e La montagna Sainte-Victoire di Cézanne rappresentano il medesimo soggetto con sfumature e luci dissimili, anche la filmografia di Trier sembra essere dipinta da un pennello monotematico contraddistinto da tinte differenti.
Il conflitto familiare, l’insuccesso, la frustrazione di non riuscire a ritagliarsi un ruolo nella società sono tematiche seminali nelle sue opere (Trier insieme a Eskil Vogt firma la sceneggiatura di tutti i suoi lavori), le insoddisfazioni e le disillusioni portano i personaggi dei suoi racconti a fare uso di droga, li portano all’annientamento personale e ad istinti suicidi. Anche in Segreti di famiglia (2015) che è l’unico film realizzato in lingua inglese – con un cast internazionale composto da Isabelle Huppert, Jesse Eisenberg e Gabriel Byrne – il regista decide di calarsi nelle delicate problematiche di una famiglia che deve affrontare la perdita di Isabelle, moglie e madre di due figli, morta in un incidente automobilistico. Mentre la personalità della donna viene ricostruita tramite flashback, i dissidi tra il padre e i figli sono mostrati sempre in primo piano, con l’uomo che prova a tenerli lontani dall’oscura verità sulla morte della moglie avvenuta per suicidio. Anche il figlio maggiore ha avuto pulsioni suicide e vive una vita infelice, ha problemi con l’alcool e l’aver avuto un bambino dalla sua compagna non lo ha reso meno malinconico, mentre il fratello minore, Conrad, è in piena età adolescenziale, sembra un ragazzo indifeso e labile ma si rivelerà il più maturo, colui che per primo riesce a voltare pagina, ad accettare la scomparsa della madre, a perseguire i suoi interessi e le sue convinzioni anche se i suoi familiari temono che possa fallire. Seguendo i tre personaggi e la loro metabolizzazione del lutto, mostrando il loro rapporto con la donna attraverso flashback o ricostruzioni di eventi partoriti dalle loro menti – come le sequenze dove si immaginano il suo incidente che, in base a chi pensa l’evento, assume un tono diverso –, il film si muove su tre diverse linee narrative che si incrociano senza mai scontrarsi violentemente, con le conversazioni tra il padre e i figli che sembrano sempre rimanere in superficie, come se ci fosse timore di esternare le rispettive sofferenze, un rapporto incrinato e conflittuale che nessuno sembra avere il coraggio di ricucire.
Qualcosa di simile accade anche in Thelma (2017), un’opera completamente diversa rispetto ai suoi lavori precedenti, data l’impronta fantascientifica, che risulta comunque efficace per porre ancora una volta la lente d’ingrandimento sul rapporto genitori/figli ma anche su tematiche della contemporaneità come l’amore omosessuale e il femminismo, non a caso per la prima volta la protagonista del film è una donna – così come sarà ne La persona peggiore del mondo. Thelma è una giovane introversa educata in una famiglia molto religiosa che lascia la sua casa di campagna per recarsi all’università di Oslo. Un giorno mentre sta studiando in biblioteca cade a terra colpita da un improvviso attacco epilettico e viene soccorsa da una studentessa di nome Anja. Da questo momento le crisi epilettiche si faranno sempre più frequenti e andranno di pari passo con lo svilupparsi di un’attrazione fervente nei confronti di Anja, che però Thelma prova a respingere costantemente per via della sua educazione religiosa e del timore di una reazione negativa dei suoi genitori.
A partire da un soggetto di matrice fantascientifica, a tratti persino horror, in Thelma Trier finisce ancora una volta ad affrontare, con sempre più veemenza, il conflitto generazionale tra padri e figli
In questo scombuglio sentimentale, la ragazza inizia a provare strane sensazioni, persino a vivere delle allucinazioni, rendendosi infine conto di possedere poteri extrasensoriali che i suoi genitori avevano sempre provato a sopprimere. Trier parte qui da un soggetto di matrice fantascientifica, a tratti persino horror, per finire ancora una volta ad affrontare, con sempre più veemenza, il conflitto generazionale tra padri e figli, dipingendo i genitori come causa dei malesseri dei loro figli, che mossi da un istinto di protezione creano degli automi irretiti e soggiogati da dettami sociali e religiosi. Thelma però riesce a divincolarsi da questa soffocante lamina che schiaccia la sua natura e in un finale quasi idilliaco trova la sua libertà, riuscendo ad esprimere la propria essenza senza più sentirsi giudicata né dovendo sottostare a vincoli e precetti che possono solo limitarla. Segreti di famiglia e Thelma, pur diversi per stile rispetto alle opere d’esordio Reprise e Oslo, 31. august, sono fiumi nati dalla stessa sorgente che dopo essersi diramati si incontrano nuovamente per confluire nel corpo della sua ultima opera.
La persona peggiore del mondo ripercorre la vita di Julie, una ragazza dai poliedrici interessi costantemente alla ricerca di nuove esperienze e stimoli. Arrivata alla soglia dei trent’anni si rende conto di non aver costruito niente di stabile, i suoi amici e coetanei iniziano a pensare di metter su famiglia mentre lei è sempre alla ricerca della strada da intraprendere per sentirsi adulta. A differenza dei film precedenti, il racconto è suddiviso in capitoli – come se fossero i capitoli di quei libri che ossessivamente Trier mostra in scena, come accadeva nelle pellicole di Erich Rohmer –, in ben dodici parti che rendono la struttura meno ondivaga e più ordinata, anche se la presunta linearità narrativa viene interrotta da immagini mentali della ragazza che danno accesso allo spettatore all’animo della protagonista. Straordinaria la sequenza nella quale Julie decide di lasciare il suo ragazzo Aksel per buttarsi tra le braccia di Eivind, un giovane che ha conosciuto ad una festa: la ragazza entra in cucina e di fronte a lei c’è Aksel, accende la luce e in quel preciso istante il tempo si ferma, tutto quello che è intorno a lei è immobile e prende vita il suo viaggio mentale, la ragazza esce di casa, cammina tra le strade di Oslo, corre, ogni movimento attorno a lei è sospeso fino a quando entra nel bar dove lavora Eivind che è l’unico che in quel suo universo personale può muoversi insieme a lei, i due si baciano e abbracciano, è iniziata la loro storia, Julia ha capito quello che deve fare e che non è più totalmente felice con Aksel. La ragazza torna a casa, entra in cucina e spegne nuovamente la luce, la visione riflessa della sua mente termina, il suo viaggio introspettivo giunge a conclusione.
Queste visioni sono stanziali nel cinema di Trier, così come la voce narrante che perpetua racconta lo stato d’animo dei protagonisti – altro marchio stilistico onnipresente –, ma quello che rende La persona peggiore del mondo la sua opera più poetica è la naturalezza con la quale riesce ad affrontare il trauma della crescita e la necessità di compiere delle scelte, non sempre in armonia con il contesto sociale nel quale cresci, l’eleganza con la quale viene affrontato il timore di compiere errori, la paura di non essere al passo con i tempi, i contesti problematici della famiglia e il ruolo della donna. Il successo del film, guardando al di là della talentuosa regia, è legato alla fenomenale recitazione di Renate Reinsve nel ruolo di Julia –già attrice per Trier in Oslo, 31. august – premiata a Cannes con il Prix d’interprétation féminine. L’attrice è maestosa nel rendere vivide e tangibili le emozioni che il suo personaggio prova: il suo sorriso, il suo sguardo sono così naturali e comunicativi che lo spettatore potrebbe persino mettere in dubbio che quello a cui sta assistendo siano battute recitate attenendosi ad un copione.
Le visioni sono stanziali nel cinema di Trier, così come la voce narrante che perpetua racconta lo stato d’animo dei protagonisti – altro marchio stilistico onnipresente
Con uno stile registico e un universo poetico ormai ben definiti, Joachim Trier riesce ad addentrarsi nei meandri psichici umani e sociali, portando in scena il conflitto e la tragedia senza perdersi in eccessi enfatici, raccontando il conseguimento della felicità senza essere celebrativo, ma soprattutto riuscendo ad affrontare queste delicate tematiche senza giudicare. Dopo la visione di un suo film non affiorano mai risonanti accuse o condanne, tutti i suoi personaggi portano avanti la loro vita, un’esistenza fatta di scelte sofferte, insoddisfazioni e tragedie ma anche di piccoli e grandi traguardi personali, perché alla fine i suoi film sono come tanti piccoli racconti di vita che si susseguono, mai banali, dove nel bene e nel male ognuno è padrone e responsabile della propria vita, scegliendo sempre secondo ragione, senza mai farsi influenzare dal giudizio degli altri.
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