Le mura di una madre

Case, memorie e nuove vite nel racconto Matrioska, dalla raccolta Il punto di vista del sole di Marzia Grillo

Mia madre mi ha chiamata per dirmi che mia madre è morta?
È questa la dissonanza, lo strappo, l’impossibilità di vivere due vite contemporaneamente.
A.M. Homes


   Ecco cos’erano le case: madri. E le matrioske: continenti, paesi, città e appartamenti di legno, stanze ammobiliate di madri.
Vedeva ovunque donne che portavano avanti il futuro. I neonati ne nascondevano altri in divenire, la vita germogliava come fosse primavera inoltrata.

   Si era seduta al tavolino di un bar vecchio di una generazione e sfogliava «PortaPortese» distrattamente. La sezione degli affitti era piena di annunci di madri. Bilocali, monolocali, termoautonomo, camino. Lei avrebbe desiderato una mensola sopra il camino, per i soprammobili e i ricordi. Scaldandosi, avrebbe potuto assistere alla sfilata delle sue vecchie madri nella cornice Panasonic che le avevano regalato anni prima. Madri piccole, grandi, luminose, antiche: madri differenti l’una dall’altra, accoglienti o spoglie. Non le sarebbe servito un televisore.

   Indossava all’anulare l’anello di un matrimonio che non era il suo: eredità o ereditarietà? I suoi genitori si erano sbagliati sul suo conto come sul proprio, scegliendosi male, e poi cullandola come se avesse potuto riparare un torto. E dal momento che le mele non cadono mai troppo lontano dagli alberi che le hanno nutrite, aveva scelto di abitare un roseto. Si era coperta di spine, affamandosi, ma inebriata dal bastare a se stessa.

   Da quando aveva ricevuto la notifica dello sfratto, aveva iniziato a perdere peso. All’inizio in maniera eclatante, poi gradualmente, un etto alla volta. Per prima cosa, aveva smesso di bere alcolici, come in gravidanza. Così diceva ai camerieri: «Non posso bere. Non è ancora ufficiale, ma…». Loro si congratulavano, la servivano con più cura, solerti, le sorridevano ferocemente, abbagliati dalla vita. Da quando sentiva di non avere più una casa, agli occhi del mondo era diventata la speranza. La portava in grembo, assottigliandosi.
   Ricordi le sardine? si diceva allo specchio. Ricordava che gli abitanti delle case affollate venivano chiamati così, ma era un errore. Perché le scatole non sono madri. Le scatole sono scatole e basta, per quanto affollate.

   Teneva nella borsa le vecchie chiavi di sua madre, anche se non aprivano più. Quella casa era stata venduta dieci anni prima, quella madre era stata seppellita prima ancora, e le bare hanno chiodi di metallo stretti al legno e vernice lucida impermeabile – le serrature stonerebbero al posto delle croci: un messaggio di spropositata fede.
   Le chiavi della sua ultima madre invece le avrebbe restituite a breve, e stava pensando se farne una copia. Se tenersi la possibilità di rendersi indesiderata, di dormire negli armadi altrui come un fantasma, prima di diventare scheletro. Sarebbe rimasta perlopiù in silenzio. Non avrebbe gridato dagli angoli dei soffitti, così come non avrebbe seguito le paure di stanza in stanza. Piuttosto sarebbe stata la figlia discreta di una paura modesta, duratura.

   Il trauma dei traslochi è secondo solo a un lutto, aveva letto su «Focus». Eppure: traslocare da una madre all’altra, vederle svuotarsi della propria vita come della loro. Il trauma di un trasloco è secondo solo a se stesso, aveva gridato con le braccia conserte di fronte al portone della casa di famiglia, che adesso era diventata una casa di cura.

   E i padri, allora? recitava un manifesto sul muro, accanto al civico 15 di una casa in affitto a un prezzo ancora ragionevole. L’immagine era quella di due donne, un bambino e un punto esclarrogativo. C’era un gran parlare di genitorialità negli ultimi tempi, e di coppie di fatto, adozioni. E i padri, quindi? Se lo stavano chiedendo tutte le strade, i quartieri, i giornali. Ma qualcuno aveva mai domandato a una matrioska se le mancava qualcosa? I padri erano un’altra storia, impossibili da riempire. Ai padri si chiedevano i soldi per abitare le madri.

   Aveva fissato un appuntamento con l’agenzia per vedere due madri nello stesso stabile, con diverse metrature.
   Gli inquilini della prima erano ancora lì, distribuiti nelle stanze, a guardarla con gli occhi fuori dalle orbite mentre attraversava i corridoi e si affacciava alle finestre. Una coppia di anziani smunti, tesi, impauriti. «Faccia come se non ci fossero» aveva detto l’agente immobiliare, ignorandoli. Ma era impossibile. Quello spazio era loro quanto degli insetti nei pensili della cucina, dei chiodi nei muri, delle ragnatele agli angoli delle loro labbra semichiuse in un arrivederci.
   La seconda madre aveva i denti bianchi, intonacati, un abito di cotone leggero stampato a fiori, occhi verdi, statura media: somigliava alla sua.

   Quando sua madre era morta, lei era a letto ma non riusciva a prendere sonno. Stava guardando un film in televisione. Era il mese del suo compleanno, il maggio delle spose. La finestra era la stessa della sua adolescenza. Quando il padre l’aveva chiamata per avvisarla, prima di riagganciare le aveva detto: «Non uscire di casa. Resta dove sei».

   Nel mondo reale, gli affitti sono adozioni. Non importa quante madri hai perso, o lasciato: non è la cifra dell’abbandono a contare qualcosa, bisogna solo evitare di rimanere senza. Senza una madre la pioggia bagna gli occhi, e da lì in giù. Il freddo ustiona, i lupi uccidono, i lampioni non hanno interruttori.

   In un mondo che a lei non sarebbe mai appartenuto, tuttavia, le madri si potevano vendere, alimentando il senso di colpa.

   Esistevano banche del seme, e uffici di collocamento, orfanotrofi, agenzie immobiliari, case-famiglia; esistevano alberghi di lusso e tende a due posti, volubili. Esistevano i cantieri, dove le madri venivano innalzate con le gru un piano alla volta. Gli operai le innaffiavano di calce, costruivano armature di ferro e anime di acciaio che rimanevano nude per qualche settimana, prima di essere rivestite.
   Sua nonna era morta prima che lei nascesse. E l’ultima madre di sua madre era rimasta un alveare senza più regine, con un brusio costante destinato a spegnersi.

   «Vieni a stare da noi per un po’» le avevano detto le altre famiglie. Le avevano rimboccato le coperte, preparato il caffè. L’avevano intrattenuta, vestita, nutrita, pettinata.
   Nonostante fosse adulta, adesso dimostrava quindici anni: era diventata la figlia minore delle altre famiglie.
   Aveva lasciato le sue cose nel garage del padre tenendo con sé lo stretto necessario e, dal momento che è la necessità a fare la virtù, camminava a un passo dalla santità.
   Un accenno di aureola le si impigliava nei rami più bassi degli alberi, e la sera doveva pulirla – conservava le foglie e i rametti in una scatolina di lacca rossa. Il suo sorriso era radioso, le altre famiglie splendevano di luce riflessa.

   Di settimana in settimana, i suoi capelli si erano schiariti, tirando fuori una sfumatura scarlatta e infiammabile. Il corpo stesso si era assottigliato, diventando legnoso: tutta nuova guardava da un angolo di marciapiede il portone d’ingresso della sua futura madre.
   Le giunture avevano crepitato appena mentre saliva i due piani di scale.
   Aveva suonato alla porta, salutato l’agente immobiliare, ammirato la sua cravatta con un discreto motivo a ippocampi arancio su fondo blu scuro. Lui l’aveva fatta accomodare in una cucina con le tende a quadretti bianchi e rossi. Le aveva allungato un foglio e una Bic. «Si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno» le aveva detto.

   I contratti di affitto delle madri sono stampati in caratteri minuscoli, quasi illeggibili, con una punteggiatura arbitraria. Sono contratti di appartenenza reciproca, a tempo determinato. Vanno firmati in stampatello, con i nomi allineati, ripetuti, leggibili. Non fanno del sangue un legame.
   Avrebbe abbandonato quella madre dopo tre anni, o magari cinque. L’avrebbe pagata puntualmente. L’avrebbe restituita, se necessario. L’avrebbe amata quanto possibile, probabilmente ricambiata. Di certo non avrebbe permesso che morisse.

 


Fotografie di Anita Scianò
Il presente racconto dal titolo Matrioska è un estratto dalla raccolta Il punto di vista del sole (2022) di Marzia Grillo pubblicato per cortesia di Giulio Perrone Editore. Il libro è acquistabile qui ▶ Il punto di vista del sole


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