Le coincidenze naturali
Martha Cooley sul disastro del Vajont, Julio Cortazar e lo strano potere delle coincidenze
Alle 22:30 circa del 9 ottobre 1963 un’enorme porzione del Monte Toc si è staccata precipitando nel lago artificiale formato dalla diga del Vajont, costruita qualche anno prima. La diga, una meraviglia dell’ingegneria moderna incuneata nella fenditura di una profonda gola, era stata progettata per produrre energia sfruttando le acque di un affluente del fiume Piave. Fu costruita nonostante il dissenso degli abitanti, i quali sostenevano che l’instabilità geologica del Monte Toc costituisse un rischio immane.
Poco dopo le 22 di quella sera di ottobre, un responsabile del traffico ferroviario uscì da un bar di Longarone, un paesino nella valle del Piave sottostante la diga, per tornare a casa, a mezz’ora di distanza. La figlia – una donna che ho incontrato per caso – mi ha raccontato che, una volta arrivato, il padre disse di essere stanco. La cosa l’aveva sorpresa poiché non era il tipo che avrebbe rinunciato a guardare una partita di calcio con gli amici, anche se voleva dire perdere qualche ora di sonno. Ad ogni modo, andò a dormire, il mattino seguente si svegliò, cercò di mettersi in contatto con la stazione, non ottenne risposta e chiamò un’altra stazione vicina, niente: cosa diavolo era successo? Alla fine venne a sapere che pochi minuti dopo aver lasciato Longarone la sera prima una valanga di fango, rocce e alberi era precipitata nel lago artificiale catapultando un’enorme ondata d’acqua oltre il bordo della diga, nel paese sottostante. La frana era stata veloce; tutto era finito in meno di un minuto. L’intero paese – circa duemila abitanti – era sparito. Almeno 350 famiglie vennero spazzate via: si salvarono solo trenta bambini.
Alle 22:30 circa del 9 ottobre 1963 un’enorme porzione del Monte Toc si è staccata precipitando nel lago artificiale formato dalla diga del Vajont. Almeno 350 famiglie vennero spazzate via
Una delle superstiti, Micaela Coletti, aveva dodici anni all’epoca del disastro. Scaraventata fuori dal letto, fu quasi completamente sepolta nel fango. Quando una squadra di soccorso la estrasse da quella tomba, il rumore, secondo le sue stesse parole, fu simile a quello di una bottiglia che viene stappata. Il resto della sua famiglia morì. A 18 anni, Micaela si si sposò e rimase incinta. Il 9 ottobre 1969, esattamente sei anni dopo il disastro del Vajont, perse la bambina che portava in grembo. «Dovevo scegliere» ha detto al giornalista della BBC che la intervistò qualche decennio dopo «o togliermi la vita perché era tutto troppo da sopportare, o vivere giorno per giorno, un passo alla volta». La vista di certe cose, come una giovane donna con un bambino, l’ha sempre messa alla prova, eppure Micaela è rimasta fedele al proprio modo di vivere: «Prima o poi queste cose vanno affrontate e se provi a evitarle il colpo diventa ancora più duro. Se non hai il coraggio morale di guardare fino in fondo – nell’abisso – non impari nulla».
Che cos’è che ha imparato, mi domando. Ogni anno il 9 ottobre arriva e lei lo deve superare: non può essere evitato. Come fa a non pensare che quella data sia predestinata a eventi orribili? Forse lo pensa, eppure ogni anno riesce a valicare la montagna del 9 ottobre giungendo all’indomani. Un giorno alla volta: le sue parole rivelano l’implicita determinazione a non mollare.
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Curiosando online – arrendendomi alle stravaganze di internet, dove algoritmi incomprensibili conducono da un link all’altro – ho trovato questo passo di Ultimo Round di Julio Cortázar, in cui Cortàzar riflette, da scrittore, sulle coincidenze:
È noto che l’attenzione funziona come un parafulmine. Basta concentrarsi su un determinato terreno perché dall’esterno affluiscano a ripetizione le analogie e scavalchino il muro di cinta, cosa alla quale si dà il nome di coincidenze, scoperte concomitanti- la terminologia è vasta. Comunque sia, per me è sempre stato come compiere cicli al cui interno tutto quanto era davvero significativo girava intorno a un buco centrale che era, paradossalmente, il testo che stavo o si stava scrivendo.
Sono consapevole della coincidenza che mi ha spinto a scrivere questo pezzo: una conversazione fortuita con una sconosciuta che, nel corso della chiacchierata, ha accennato al fatto che il padre fosse scampato per un pelo a un disastro. È così che la mia attenzione si è concentrata su un evento finora a me ignoto. Allora ho iniziato a informarmi e mi sono imbattuta in un articolo della BBC su Micaela Coletti e sulle coincidenze che hanno plasmato la sua vita.
C’era un buco centrale attorno a cui la mia attenzione gravitava? Forse quella della coincidenza in sé. In altre parole: ero io che rifiutavo l’idea di coincidenza nella vita e anche come elemento della narrazione? Considero la coincidenza come una facile scorciatoia per la trama di una storia o, peggio, per il suo “significato”: meglio escluderla che accettarla come presenza naturale?
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La descrizione che Micaela Coletti fa del proprio salvataggio presenta una coincidenza all’interno di una coincidenza: unica sopravvissuta della propria famiglia, Micaela fu salvata dall’unico pompiere sopravvissuto del paese. Il suo racconto sembra un’inquietante poesia in prosa:
Stavo sulle [sue] spalle [...] e lui continuava a inciampare su queste rocce brillanti, incredibilmente bianche e traslucide e io continuavo a chiedergli di mettermi giù, ma non lo faceva. E c’era questa luna enorme, così vicina e luminosa che mi spaventava. Mi sembrava che se avessi allungato la mano avrei potuto toccarla. [...] Poi mi misero in una macchina e sentii qualcuno piangere, e mi resi conto di essere io.
Mentre l’attenzione di Micaela gravitava attorno a quelle rocce brillanti e a quella luna vicina, il buco centrale per lei non era (come intendeva Cortázar) un testo in fase di elaborazione: era lei stessa. Qualcuno stava piangendo, chi poteva essere? Le strane casualità del mondo naturale hanno aiutato Micaela a passare dallo stato di assenza a quello di presenza.
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Troppo spesso in letteratura le coincidenze sembrano studiate a tavolino o inutili. Eppure, le nostre vite ne sono costellate. Come scrivere dunque in modo convincente della loro ricorrenza e dei loro effetti? La nostra attenzione è attratta da vari tipi di analogie che affluiscono e scavalcano il muro di cinta, come dice Cortázar, spaziando dalla più incresciosa alla più piacevole: noi le chiamiamo coincidenze. Alcune di queste, come nel caso di Micaela Coletti, non hanno a che fare con i testi, bensì con i misteri esistenziali e le forti emozioni che questi provocano.
Troppo spesso in letteratura le coincidenze sembrano studiate a tavolino o inutili. Eppure, le nostre vite ne sono costellate
A volte percepiamo delle coincidenze laddove non ve ne sono affatto, augurandoci che le nostre esperienze siano permeate di inspiegabilità, anziché appiattite dalla logica e dalla ragione. Altre volte, invece, le ignoriamo perché la loro irrazionalità ci spaventa. Chi può dire con certezza quando e come queste operino nella nostra vita? Non lo sappiamo. Possiamo solo prepararci a reagire, perché sicuramente continueranno a farci visita.
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La sera di ottobre in cui tornò a casa dal lavoro, il padre di Micaela Coletti si rimise quasi subito in macchina e se ne andò via. Cosa insolita per lui, raccontò la figlia. Non lo aveva mai fatto prima. Sarebbe sopravvissuto se fosse rimasto a casa, o sarebbe morto comunque, insieme alla moglie, all’altra figlia e alla madre? Questa è la prima domanda. L’altra – quella che attrae gli scrittori – è: dove era diretto?
Martha Cooley ha scritto L'archivista (Guanda, 1998) e Thirty-Three Swoons. È professoressa di letteratura inglese alla Adelphi Univesity e ha co-tradotto Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 21/10/2019 ► Capturing Natural Coincidences, in Fiction and Life
Traduzione di Giulia Patanè
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