Lazzaro felice di Alice Rohrwacher

con Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Nicoletta Braschi, Luca Chikovani

Fiat lux, «sia fatta la luce». Nella descrizione della Genesi, dopo aver creato il cielo e la terra, Dio ordinò che fosse fatta la luce nell’abisso ancora dominato dalle tenebre. In termini biblici, la separazione tra luce e tenebre crea un ordine basilare delle cose, declinato tramite l’alternarsi del giorno e della notte che scandisce il ritmo ordinato della vita.  Giorno e notte, però, non si trovano sullo stesso piano e la luce impone così la sua superiorità, conferitale dal giudizio di «bontà» formulato da Dio. Non è un caso che la formula linguistica dell’imperativo, ricondotta all’atto di creazione dell’universo («sia fatta la luce»), identifichi spesso anche la dimensione linguistica dei miracoli, degli eventi straordinari che stravolgono l’ordine del mondo, inaspettatamente pervaso da nuova luce. Quella stessa struttura formale si ripresenta così anche nel miracolo della resurrezione di Lazzaro e, giunto al sepolcro di Betania, Cristo si esprimerà imperativamente, come il Padre: «Lazzaro, vieni fuori!».
 

Lo spazio che queste umili persone abitano sembra come cristallizzato nel tempo, calato in una sorta di passato atavico


Richiamando un preciso immaginario e al contempo il sotteso portato simbolico, il protagonista di Lazzaro Felice si chiama Lazzaro. Il giovane (Adriano Tardiolo) vive insieme ad altri contadini nella sperduta e immaginaria comunità dell’Inviolata, dispensando con profonda generosità le sue fatiche e la sua bontà a chiunque gli stia intorno. Lo spazio che queste umili persone abitano sembra come cristallizzato nel tempo, calato in una sorta di passato atavico. Il “grande inganno”, però, non è che un piano abilmente architettato dalla marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), proprietaria di una piantagione di tabacco in cui i suoi contadini lavorano in condizioni di schiavitù, ignari della fine della mezzadria. Il casuale avvicinamento tra Lazzaro e l’irrequieto figlio della marchesa, Tancredi (Luca Chikovani), farà nascere un rapporto d’amicizia e complicità tra i due, che condivideranno segretamente anche il finto rapimento del giovane rampollo.

Lazzaro Felice è l’opera terza della talentuosa Alice Rohrwacher, uno sguardo pulito e libero nel panorama cinematografico italiano ed europeo, che strappa il premio per la miglior sceneggiatura alla 71ª edizione del Festival di Cannes – secondo premio consecutivo per la giovane autrice alla kermesse francese, dopo il Grand Prix Speciale della Giuria ottenuto nel 2014 con Le meraviglie. La Rohrwacher costruisce un mondo che, sulla scia della grande tradizione cinematografica italiana, resta sospeso tra reale e fiabesco, e lo fa con un’impronta autoriale personale e autonoma. In quel mondo soffia un vento in cui il fieno cade giù come neve, un vento che i contadini, costretti a vivere ammassati in baracche fatiscenti, emulano col loro respiro, col loro soffio beffardo diretto ai volti prepotenti di chi li sfrutta e guarda con disprezzo. Un grido ribelle e un fiato unanime che restano spezzati in gola, e che forse desidererebbero solo spazzare via l’ingiustizia.
 

La Rohrwacher costruisce un mondo che, sulla scia della grande tradizione cinematografica italiana, resta sospeso tra reale e fiabesco, e lo fa con un’impronta autoriale personale e autonoma


Ma quel vento porta con sé anche il verso tagliente dei lupi, che si dirama e si perde tra le valli nel silenzio della notte. I due giovani amici provano a imitarlo – timido e impaurito quello di Lazzaro, spavaldo e incosciente quello di Tancredi – e quel verso animale si fa pian piano evocativo, percorre il tempo e lo spazio, fino a spostarsi dalla calda campagna al freddo e algido mondo cittadino. In tal senso, per stessa ammissione della regista, si può dire che il film sia un film in parte “politico”, che racconta l’epocale trasformazione sociale del nostro paese, un mondo in evoluzione che muta ma che al contempo rimane invariato, in bilico tra le forze del bene e del male.

E in questa dimensione quasi inevitabile per l’essere umano, perennemente portato a sfruttare il suo prossimo, l’animale (il temuto lupo) si rivela più magnanimo di chi ne ha paura e Lazzaro diventa una sorta di araba fenice, uccello mitologico che rinasce dalle proprie ceneri; egli veste i panni della santità – significativa la sequenza in cui l’amica Antonia (Alba Rohrwacher) s’inginocchia al suo cospetto. Col suo sguardo “inviolato” sul mondo, Lazzaro risorge: incarnando idealmente «la possibilità della bontà, che ciclicamente muore e ritorna. È indenne al tempo, passa attraverso il tempo, continua a tornare e a interrogarci come una possibilità che potremmo scegliere» – dice la regista. Ed è la possibilità della luce nel mondo, irreparabilmente invischiato nell’oscurità dell’homo homini lupus (l’uomo che, col suo feroce istinto di sopraffazione, è lupo per l’altro uomo); un mondo che può ancora ri-crearsi, superarsi, combattere le proprie nefandezze per giungere al miracolo di una nuova luce, al grido del fiat lux.

Col suo sguardo “inviolato” sul mondo, Lazzaro risorge: incarnando idealmente «la possibilità della bontà, che ciclicamente muore e ritorna»


Nonostante la complessità simbolica che lo fonda, Lazzaro Felice è un film semplice, imperfetto, autentico. Lo sguardo del suo protagonista, commovente e disarmante, ha lo stesso candore dello sguardo registico che lo concepisce, limpida manifestazione della possibilità di un cinema “buono”, potente, puro. Al vaglio incantato dello spettatore giunge così l’immagine finale di un lupo che corre fiero verso la macchina da presa, portavoce, insieme al dolce Lazzaro, di un respiro vivo. E di una nuova stagione del cinema italiano che, con altrettanta fierezza, risorge.
 

«Gli esseri umani sono come bestie, animali.
Liberarli vuol dire renderli consci della propria condizione di schiavitù»

ITA 2018 – Dramm. 130’ ★★★½


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