L'anno del califfo
Riflessioni tendenzialmente realiste sullo Stato Islamico e sull’anno 1435 dell’Egira
C’è una storia che dal 29 giugno 2014 a questa parte abbiamo sentito raccontare almeno un milione di volte. È la storia di un successo: è la storia dello Stato Islamico. È inutile che ripercorra le tappe dell’ascesa di Abu Bakr al-Baghdadi, che non si chiama così e non è nemmeno di Baghdad. Non è importante che io ricordi che il suo successo al-Baghdadi l’ha costruito sull’eredità di Abu Musab al-Zarqawi, portando i suoi scherani in Siria a raccogliere il denaro da più parti elargito a chiunque combattesse il decadente regime di Bashar al-Asad; alleandosi con gli ex-esponenti del decaduto regime di Saddam Hussein, furiosi con il governo di al-Maliki e le sue sciagurate politiche di discriminazione anti-sunnita; giocando col sogno di restaurare il Califfato e scherzando col fuoco della fitna, l’eterna guerra intestina che frantuma l’islam e volge anzitutto i sunniti contro gli sciiti; dominando i Twitter Trends e così via. Non serve che prosegua perché siamo ben serviti dal mercato. Il 18 novembre 2014 esce per Feltrinelli Isis. Lo stato del terrore. Chi sono e cosa vogliono le milizie islamiche che minacciano il mondo, di Loretta Napoleoni, analista. Tredici euro. Il 29 gennaio 2015 Rizzoli pubblica Il califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente, di Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa a Gerusalemme. Il 19 febbraio Slavoj Žižek, filosofo, pubblica con Ponte alle Grazie L’islam e la modernità. Riflessioni blasfeme. Il 30 marzo per Laterza esce, di Franco Cardini, L’ipocrisia dell’Occidente. Il califfo, il terrore e la storia. C’è posto per tutti gli editori, tutti gli autori, tutti i pubblici (e ho citato solo cose italiane). Questo Stato Islamico è un grande affare per la catena alimentare della produzione e della comunicazione dei fatti, dall’ignoto compilatore che dà conto della geopolitica internazionale sul foglio locale alla firma affermata che imbottisce di scontro-di-civiltà gli editoriali del Corriere. Questo perché quando si parla di “modernità” e islam, terrorismo e fondamentalismo, tutti si sentono in diritto di dire la propria e di spacciarla per la verità, anche Oriana Fallaci (cioè i bercianti lettori dell’ultimo, senile libello che ha scritto) e ovviamente anche io, quando sono al bar, come se non fossero temi che in termini di conoscenze teoriche ed esperienza diretta esigono tanto quanto i meccanismi decisionali dell’Unione Europea o la sperimentazione animale a fini di ricerca scientifica – d’accordo, ho scelto gli esempi sbagliati.
Ma il tema è effettivamente importante. Ad un certo livello della nostra identità, lo Stato Islamico ha alimentato l’eterno bisogno di orientalismo e romanticismo della gioventù europea: come un pellegrino che va al Santo Sepolcro, come uno Schlegel che vagheggia l’India, Zerocalcare ritrova il suo cuore marciando al centro del mondo in una personalissima epopea di Kobane. Il rovescio della medaglia è un rinnovato terrore del Turco, che in quanto tale sta lungo le coste ma è già nel cuore d’Europa: dopo l’attentato a Charlie Hebdo, a tutti si è imposto il problema dell’esportazione della jihad in Europa. È semplicista e populista credere che potenzialmente ogni immigrato, ogni musulmano in Europa in quanto tale aspetti la giusta occasione per tagliarci la testa, e sostenere quindi che debbano essere scacciati e respinti, ma è quello che la stragrande maggioranza di noi è disposta a credere, perché le soluzioni semplici sono sempre le più facili da mandar giù e, ovviamente, da somministrare. Qui il problema della comunicazione e quello della politica s’intersecano e si fanno uno. Sotto questo profilo, non escludo che la vergogna di cui arrossiamo qui – i fascioleghisti, i nazionalisti da operetta, gli euroscettici da due lire – sia la variante legalizzata, democratica, parlamentare della vergogna di cui arrossiscono lì, questo manipolo di militari ambiziosi mascherati da tutori dell’islam che di ogni difetto del mondo accusano l’Occidente e i suoi servi (qui accuserebbero gli immigrati, l’Europa, le banche) con l’unico scopo di ottenere, nell’ordine, fama, ricchezza, potere. Quest’analogia, anch’essa populista a suo modo e semplificante, è qui solo per umanizzare questo sacro mostro che è diventato lo Stato Islamico, per dire che non è qualcosa di sovrannaturale o extraumano cui rivolgere illazioni e isterie, ma una cosa normale, una dimensione comune dell’esperienza umana, da sempre violenta e oscena: è quindi un problema da risolvere, o meglio una realtà da gestire.
Vorrei dire non soltanto che la realtà è più complessa di come viene rappresentata, cosa che dovrebbe essere scontata e purtroppo non lo è, ma soprattutto che la realtà, spesso, è diversa. Con ciò non voglio dar manforte al cospirazionista, varietà esoterica e perversa del semplicista (etnocentrico), che dietro ogni rivolgimento in Medio Oriente (e nel mondo) vede il governo di Washington. Voglio dire che lo Stato Islamico non è importante solo per quello che è in sé – un manipolo di guerrieri ben addestrati che rivendica la suprema autorità religiosa per meglio fondare il proprio potere: ce ne sono stati tanti, nella millenaria storia dell’islam – ma anche per quello che manifesta e rappresenta. Il problema di fondo infatti è geopolitico: il gruppo di al-Baghdadi non sarebbe mai divenuto lo Stato Islamico se i petromonarchi (filo-)sauditi che regnano sulla penisola arabica, e con loro i vertici diversi ma convergenti di Israele, Turchia e Qatar, non avessero avuto interesse ad abbattere il regime di al-Asad; chi per spezzare l’arco imperiale che dal Libano di Hezbullah a Herat in Afghanistan sostiene le ambizioni egemoniche della Repubblica Islamica dell’Iran, chi per allontanare il vicino scomodo e amico dell’arcinemico (ancora Teheran), chi per farsi la colonia sotto casa o per manie di protagonismo. Non posso certo illudermi che il cittadino europeo medio si astenga dal condividere vignette di gente morta ammazzata o scandalizzarsi per la mostruosità dei “tagliagole islamici” per dedicare le proprie energie a sciogliere questo nodo gordiano – il caos fecondo di orrore che origina da questa competizione plurima, annosa e senza quartiere per l’egemonia sul Golfo persico e tutto il Medio Oriente – ma resta il fatto che le sue corde sono altrettante linee di tensione che riguardano e riscaldano questa nostra appendice del vecchio mondo: l’ossessione sicuritaria del Cremlino, disposto ad allontanarsi dall’Europa e avvicinarsi a storici nemici – Turchia e Iran – pur di tenere gli estremisti alla larga del Caucaso; la tenuta degli ordini del Nordafrica, indispensabile per un qualsivoglia tentativo di gestire i flussi migratori; lo stato delle relazioni tra Iran e Stati Uniti e quindi tra Iran e Israele, certo gli attori più pragmatici e prudenti dello scacchiere mediorientale e, piaccia o no, con la Turchia i più “moderni”– per quanto di modernità assai disparate. Infine, la rete d’influenze che l’Arabia Saudita ha tessuto nel mondo grazie alle immense disponibilità finanziarie dei sovrani di casa Saud, da quarant’anni all’opera per diffondere il wahhabismo – una variante schiettamente letteralista della lettura teologica e giuridica del Corano che ha forte peso nel definire ciò che l’islam, a livello globale, può essere, e dunque anche quanto pericoloso può diventare. La proclamazione dello Stato Islamico sembra aver alzato la temperatura del mondo e accelerato la corsa delle cose: l’Iran sta per assicurarsi la Bomba assicurando a Obama che può aspettare altri due o tre anni, e intanto consolida, anziché veder svanire, il suo impero nel Levante; Netanyahu, facendo leva sulla paura esistenziale che Israele ha dell’Iran, ha vinto nuovamente le elezioni, mentre Erdogan le ha perse per non aver saputo gestire a dovere la “questione curda”. Intanto, una giovane generazione di principi si appresta a salire sul trono di casa Saud, alla morte dell’antico successore del defunto re Abdallah. In questa prospettiva, la comparsa dello Stato Islamico non è stata che il cenno concordato che a tutti ha consentito di scattare in corsa e giocare liberamente la propria partita. Chi tra noi pensa di potersi accontentare di far da pubblico, s’illude: dovremmo piuttosto scegliere da che parte stare e trarne le dovute conseguenze intellettuali e operative, poiché quella è anche la nostra partita.
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