L'ammutinamento dei due corsari

La storia di Giorgio Gaberščik e Vincenzo Jannacci

Resta un'immagine nella mente: Adriano Celentano, Antonio Albanese, Dario Fo, Giorgio Gaber e Enzo Jannacci intorno ad una tavola imbandita. Cantano Ho visto un re con l'inesauribile energia e la poetica complicità di un cammino condiviso. È il maggio del Duemilauno, il programma è 125 milioni di caz..te, condotto dallo stesso Celentano: per Giorgio Gaberščik e Vincenzo Jannacci è l'ultima apparizione televisiva insieme, dopo quarant'anni di carriera e amicizia fraterna. Meno di due anni dopo Il Signor G. morirà di cancro, nel primo giorno di pensione del Dottore.

Vincenzo Jannacci, maturato nel 1954 e con una grande passione per la musica, si diploma in armonia, composizione e direzione d'orchestra al Conservatorio di Milano studiando pianoforte per otto anni e si iscrive alla facoltà di Medicina. Vicino al jazz e al rock and roll Jannacci dà prova del suo estro già in gioventù quando, dopo uno spettacolo a Trento, giunto in un lussuoso albergo dove il portiere di notte si ostina a parlare in lingua germanica, si mette a quattro zampe imitando un pastore tedesco e gli porge i documenti con la bocca.
Giorgio Gaberščik, al contrario, scopre la musica quasi per caso. Di salute cagionevole fin da bambino, per rimediare ad una lieve paralisi alla mano sinistra causata da un infortunio al braccio è costretto ad un'attività regolare dell’arto: Giorgio sceglie la chitarra, suonata dal fratello maggiore Marcello. Diplomato in ragioneria nel 1958, suona come strumentista finché non viene scoperto in un locale da Nanni Ricordi, con la cui casa musicale incide il primo disco da solista – firmato col nome d'arte con cui diverrà celebre – contenente la canzone Ciao ti dirò, uno dei primi brani rock italiani che verrà registrato in seguito anche da Celentano.

D'origine pugliese il primo e istriana il secondo, è proprio con il gruppo del Molleggiato che le loro vite artistiche si incrociano; con i Rock Boys i due si esibiscono per i locali di Milano – Gaber, chitarrista nella band, cominciò a cantare per sostituire Celentano in perenne ritardo alle prove – e l'intesa è fulminea. Gaber e Jannacci si uniscono fondando il duo I Due Corsari. «Eravamo tremendi, stonati. Volevamo fare un duo tipo Everly Brothers ma eravamo negati, un disastro, con il risultato che facevamo sketch più che canzoni». In compenso inventano uno stile inconsueto e originale, con il loro approccio innovativo che mescola rock e musica melodica, incidendo alcuni brani rimasti nella cultura popolare italiana come Birra, Non occupatemi il telefono e Una fetta di limone, in una fusione di musica e comicità di particolare raffinatezza.

L'esperienza de I Due Corsari dura poco più di un anno ma, sciolto il duo nel Sessanta, la loro sintonia rimane intatta, dando vita ad una solida amicizia che li farà spesso ritrovare insieme sul palco nonostante le radicali differenze che segneranno le loro carriere.
Nei ferventi Sessanta al Cab 64 e poi al Derby si ritrovano tutti gli artisti emergenti del panorama milanese: Bruno Lauzi, ma soprattutto Dario Fo e il duo Cochi e Renato, con cui Jannacci stringerà un lungo sodalizio artistico. Fin dal primo disco si lega indissolubilmente alla fumosa malinconia della sua città natale, cantando in dialetto la celebre El portava i scarp del tennis insieme a quasi tutte le altre tracce contenute ne La Milano di Enzo Jannacci. Nel 1964, la trasmissione Il macchiettario lo presentava così:


«Una chitarra, una voce = un cantautore. Una chitarra, una voce, un po' di mare = un cantautore napoletano.
Una chitarra, una voce, un paio di scarpe da tennis = un giovane cantautore milanese: Enzo Jannacci»


Intanto Gaber scrive La ballata del Cerutti e incontra Sandro Luporini, pittore viareggino che diverrà co-autore di gran parte della sua produzione musicale e teatrale e con cui inaugurerà la stagione del teatro-canzone. Partecipa quattro volte a Sanremo – la prima volta nel ‘61 con Benzina e cerini, che porta la firma di Jannacci tra gli autori – e conduce una lunga serie di varietà televisivi, pubblicando per Ricordi, Ri-Fi e Vedette album in cui si comincia a sentire l’emergere di un’esigenza artistica.

La svolta per entrambi arriva alla fine degli anni Sessanta. Nel Sessantotto Jannacci pubblica Vengo anch’io. No, tu no, che scala le classifiche e lo consacra all’Olimpo della leggera italiana. Il disco contiene, oltre all’omonima e immortale title track, pezzi del calibro di Giovanni telegrafista e La mia morosa la va alla fonte, la cui musica sarà la base di Via del Campo firmata De André. La collaborazione con Dario Fo ai testi, già segnata dall’ironia pungente de L’Armando, risplende nella grande Ho visto un re, che Jannacci vorrebbe portare a Canzonissima di quell’anno. La rigida commissione della Rai si oppone, e quando anche la canzone di ripiego Gli zingari viene giudicata troppo politica, e perciò sconfitta in finale, per il cantante milanese il vaso è stracolmo. Dopo un ultimo disco, nel 1970 Jannacci lascia l’Italia.
Lo stesso anno Gaber, dopo più di un lustro di canzoni e televisione, legato alle case discografiche e all’emittente nazionale, nauseato dall'estesa censura di linguaggio e d'opinione scopre nel teatro una forma espressiva più libera, dove entrare in diretto rapporto con il pubblico senza la mediazione delle telecamere e del disco. È l'anno de Il Signor G. – prima spettacolo teatrale poi, registrato, disco – , deciso cambio di rotta e presa di coscienza, con cui porta la canzone a teatro e se stesso sul palcoscenico, spogliato dalle finzioni obbligate, semplicemente e totalmente Giorgio Gaber.


«All'inizio ebbi un po' di paura, perché dopo i pienoni con Mina nessuno veniva più a vedermi.
Però, nonostante lo choc, dentro di me sentivo che era giusto farlo»


Dal Settanta prendono l'avvio due strade profondamente differenti. Prima in Sudafrica e poi negli Stati Uniti per seguire la sua vocazione di medico – «Per essere pazienti di Jannacci bisognava essere un po' pazienti, nel senso che bisognava aspettare che ci fosse», racconta l’amico e autore Riccardo Piferi – Jannacci deciderà di rientrare in patria soltanto più tardi alla luce dell'emergere dai loro ghetti culturali di figure come Paolo Conte, con cui spesso collabora, e Roberto Benigni: «Se ci sono loro forse posso tornare anch'io, perché vuol dire che l'Italia è matura per certe cose».
Gaber invece, al fianco di Luporini, procede senza compromessi nel suo viaggio di teatro civile attraverso un'Italia in fermento con un coltello di potente coscienza che taglia netto con la borghesia, la politica, la gioventù dai falsi ideali: canzoni come Quando è moda è moda e Io se fossi Dio colpiscono la società dove e quando fa più male – racconta Il Signor G. dei fischi e dei lanci di monetine nei teatri: «Sento questa cosa che mi arriva addosso e di nuovo rimango con l'occhio spalancato di notte, mi ritrovo a non addormentarmi fino alle otto di mattina per superare questo choc dello scontro» – e scolpiscono nel marmo il grande artista e il grande uomo.

Una sola riunione in sala d'incisione per i due, nell'Ottantatré, con una re-interpretazione di quattro successi di fine anni Cinquanta accompagnati dalla simpatia di sempre: non Jannacci e Gaber, ma Ja-Ga Brothers alla maniera di Jake e Elwood Blues.
Superano indenni, ormai leggende, i due decenni più bui della musica leggera, forti di un cantare la società con occhio critico e lingua acuta. Finché, nel Duemilatré, il surreale non-sense e il canto degli ultimi del complesso Jannacci – «Enzo ha almeno due facce, ma sono abbastanza poche. Enzo è una cooperativa di persone che stanno dentro una persona», ricorda Piferi – vedono spegnersi il grande Gaber, divorato dal cancro – «L'assassino dentro è come un'iniezione. Non la puoi fermare e non risparmia nessuno. Nessuno sfugge alla scadenza» – , ma non la rabbia corrosiva e la tagliente poesia dei suoi versi, che gli sopravvivono nel postumo Io non mi sento italiano.
«È stata una cosa pesante non vederlo arrivare in chiesa nella bara, ma quando lo portano via. Quando lo portano via non c'è più». Mutilato dalla scomparsa di un fratello, ad un mese dalla morte di Gaber Jannacci gli dedica L'uomo a metà. È l'ultimo disco della sua carriera. Dieci anni dopo andrà a riposare al Famedio, al fianco del compagno di una vita.

Cantata l’Italia e l’uomo nelle sue più diverse sfumature, sempre con puntuale ironia da una parte surreale e grottesca dall'altra sarcastica e graffiante, de I Due Corsari rimane il modo spensierato di vivere la musica e la vita che i due condividevano sul palcoscenico, la grande capacità di divertirsi e divertire, l’acuto gusto per la risata e per la burla. E nonostante sia in perfetta linea con l’incondizionata insubordinazione alle regole della loro condizione terrena, l’ammutinamento alla vita dei due corsari ci lascia un po’ più malinconici, senza gli ultimi compagni di viaggio di una generazione che se ne va. Ma sempre allegri bisogna stare, che il Signor G. e il Dottore diventan tristi se noi piangiam.


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